CARA PROF 1. Manca il presente in classe

Roberta Ortolano e Silvia Suriano, 6 febbraio 2023

Portare Virginia Woolf in periferia o Mary Shelley in un’aula del centro è un esperimento affascinante. Ma il passato c’entra con la vita, i problemi e la conoscenza di ragazze e ragazzi? Come si attualizza? Il 6 marzo a Roma Leggendaria e SIL organizzeranno un’intera giornata a Feminism6 dedicata alla relazione con gli studenti, agli stereotipi, al fare comunità. Due docenti dialogano a partire dal romanzo “Domani interrogo” scritto da una prof scrittrice, Gaja Cenciarelli. Tutte tre si ritroveranno a Roma a discutere di scuola, femminismo e politica. Questa è solo la prima puntata

Di Roberta Ortolano e Silvia Suriano

Nel decalogo che costituisce il prologo del romanzo di Gaja Cenciarelli, “Domani interrogo” si leggono alcune verità inconfessabili per chi fa il mestiere dell’insegnante: con gli e le studenti si può essere rigidi, severi o al contrario empatici e disponibili all’ascolto, ma si resterà sempre divisi da una frontiera invalicabile, si resterà sempre dall’altra parte della barricata. Una demarcazione irrimediabile per chi ha il cuore debole. Allora la scelta è una: “entri in classe, spieghi la lezione, assegni i compiti, torni a casa”. oppure: “La prendi sul personale”.

La professoressa di questo romanzo la prende sul personale. Anche se a differenza dei suoi alunni e delle sue alunne non ha un nome. Di lei sappiamo poco. Sappiamo che si aggira per la città affollata e caotica con il passo elegante e spaesato di una giraffa, che guarda dall’alto ma è in costante pericolo di preda. Sappiamo che ha una vita precaria al lavoro, che non ha figli, che vive sola. Che arriva in questa classe solo l’ultimo anno, quello più temuto perché al termine ci sono gli Esami di Stato, il grande Inquisitore, il giorno del giudizio.
Sappiamo che c’è una parola che tra tutte le interessa di più: salvezza. Perché deve salvarli tutti. Ma da cosa? Le chiedono loro.

Sappiamo infine una cosa non secondaria, che la professoressa insegna lingua e letteratura inglese. Che tra un episodio e l’altro della vita dei suoi studenti – tra droga, famiglia, amore, periferie – ogni tanto come in una bolla, come in un fermo immagine, si trovano insieme a parlare di Mary Shelley, di Virginia Woolf, di Samuel Beckett. La professoressa allora è una specie di cupido, le frecce sono queste, devono andare a segno, per far scoccare l’amore, sia pure occasionale. Inutile dire che chi si innamora davvero è lei, di loro, degli studenti. Perché il problema della professoressa è proprio questo: l’amore. Ma l’amore universale non esiste, la professoressa lo sa, perché dopo il Romanticismo, viene il Novecento. C’è un legame, un filo rosso, tra la storia che leggiamo, i romanzi del passato e la storia della letteratura, un’evoluzione comune, un’attestazione sapiente dello scorrere di tutte le cose e della fatica che gli esseri umani fanno nello stare al mondo.

La professoressa può anche prenderla sul personale, ma alla fine a trionfare sarà la materia, la verità nuda e cruda, la parete della scuola che tutto sa e guarda come un dio, senza però poter alzare un dito. A trionfare è sempre quello che sopravvive, quello che resta, quello che c’è.

Noi, Roberta Ortolano e Silvia Suriano, abbiamo letto il romanzo e poi una mattina su FB ci siamo scambiate un’opinione. Abbiamo cominciato a scriverci, doveva essere una recensione e invece è nato un dialogo sulle nostre esperienze, sul nostro “personale”. Se il mito del buon insegnante, dell’insegnante carismatico, esattamente come quello dell’artista geniale, è solo una costruzione romantica che divide e confonde, recuperiamo insieme il senso della soggettività come qualcosa che ci appartiene solo in parte, ma che in verità profondamente ci accomuna.

Silvia. Cara Roberta il libro di Cenciarelli mi è piaciuto davvero molto. Riesce a dire tantissimo del nostro insegnare, del come intendo, ma anche del nostro essere, essere in classe e fuori. Il decalogo, che ogni insegnante dovrebbe tenere presente, ha del genio: consapevolezza e ironia a ridimensionare la seriosità con cui parliamo di scuola senza aver troppo presente come ragazze e ragazzi vedono noi e la scuola.
Io in realtà me lo chiedo spesso: si annoiano? Cosa pensano? E non per insicurezza ma per scrupolo, perché non riesco a non interrogarmi del come sta l’altro nella relazione con me, chiunque esso sia.
L’autrice afferma che i/le giovani sono “privi di permanenza oggettuale”: ciò che non vedono non esiste. Ha ragione, dalle nostre bocche escono quasi esclusivamente narrazioni del passato oppure proiezioni di un futuro ipotetico. Manca il presente nella scuola. Mentre è tutto ciò che ragazze e ragazzi sentono di avere concretamente da vivere. Sicuramente gli universali della poesia, della filosofia, dell’arte aiutano molto ma non sempre agganciano l’interesse dei più.
Tentiamo di attualizzare le nostre lezioni, ma davvero parliamo di loro? Partiamo da loro?

Roberta. Qui c’è racchiuso uno dei temi fondamentali di tutto il romanzo, un tema importantissimo per la scuola e non solo, quello del confine, della linea di distanza, della separazione tra la scuola e la vita. La voce narrante del romanzo, che svelerà la sua identità solo alla fine, ci racconta le cose così come stanno, non con un’intenzione di onniscienza, ma con piglio materialista, direi. Disvelamento del reale e commento, spesso ironia. Esiste un dentro la scuola e un fuori. Questo vale per tutti, insegnanti e studenti. C’è un modo di parlare, di fare, di stare fuori, che è la vita stessa, e poi ci sono quell’insieme di forme tramandate di generazione in generazione, di norma in norma, più o meno convenzionali, finte, irreali che siano. E se da una parte sembra giusto, appassionante, inevitabile, ferire questa parete invisibile di tagli continui, permanenti, osmotici, dall’altra è anche rassicurante che la parete ci sia. Sia lì ogni mattina per essere distrutta, o quanto meno crepata. Ogni mattina, zaino in spalla, comunque, ci si alza dal letto, si va. Ci si veste, ci si lava, si aspetta l’autobus, si sente il sonno pesante, si vorrebbe restare a dormire, si dovrebbe restare a casa perché ci sono guai enormi nel frattempo, si vorrebbe fare altro, e invece si va a scuola. Ma il fatto è che mentre siamo altrove, zitti zitti proviamo a salvarci. La distrazione ci salva, lo smottamento, il cambio di prospettiva, la dimensione più ampia, l’evasione.

Silvia. Credo che tutto sommato ad alcuni di noi li salvi il senso di inadeguatezza travolgente che spesso vive l’insegnante. Mi son ritrovata tantissimo nella me degli esordi scolastici quando Cenciarelli dice che i nostri colleghi ci sembrano sempre più bravi, più capaci, più colti. Per me tutto ciò è stato uno sprone importante, non ad emularli ma per conquistare il mio modo di insegnare. Non è per nulla semplice riuscirci, forse non esiste quel traguardo ma solo il tentativo di perseguirlo. A fare da ostacolo c’è anche il “sentimento che affonda le radici nella consapevolezza di essere molto distanti dagli insegnanti che abbiamo avuto, e che magari abbiamo tanto amato”. Io i miei amati insegnanti in parte cerco di ricalcarli maldestramente e in parte li tradisco quotidianamente, ma anche se a volte ho patito molto il non essere apprezzata o riconosciuta “sufficientemente vocata alla missione”, da parte di alcuni di loro, ora non mi importa. Era esattamente ciò che doveva avvenire. Provo davvero a rallegrarmi di questo tradimento come di una virtuosa dialettica generativa di autenticità (e non di cloni).

Roberta. Su pagina 66 avevo messo un’orecchia bella grande perché ci avevo trovato anche io qualcosa che mi parlava. Si tratta della frase: In una cosa riesce sempre e sempre meglio: fallire.
Se ci penso mi faccio una certa tenerezza: c’è una me attenta spasmodicamente alla professionalità, ad una sorta di rigore nella compilazione delle carte, nella lucidità nell’affrontare le situazioni complesse che la scuola ci fa incontrare che inevitabilmente si scontra spesso con contraddizioni insolubili. Si tratta di una me che ho costruito con fatica, sulle tracce delle persone che ho stimato e che ho considerato dei modelli perseguibili per me, dentro e fuori le scuole. Ma vedo anche che questa me è in parte lo specchio di una ricerca di perfezione, di controllo, che mi fa ricordare di quando ero studente e volevo a tutti i costi avere buoni voti, volevo essere brava, volevo che gli altri mi vedessero così. Ci leggo una ricerca di valore che oggi mi fa tenerezza, perché il valore non può essere concesso, nasce di per sé da un moto personale. Ce lo abbiamo già. Ed è gratis.

Silvia. Mi è piaciuta molto questa frase che uno studente rivolge alla protagonista l’ultimo giorno di scuola, è carica di passione e ironia: «Credo di parlare a nome di tutta la classe se le dico che per lei questo non è un lavoro […] Ma su, si vede lontano chilometri che lei è felice di stare a scuola. Ride sempre, non le rode mai il culo, è sempre contenta. Dio santo, a volte è insopportabile per quanto è felice di stare con noi. Io non sono mica sempre felice di stare con me».
Insegnare è un lavoro con un grande carico di professionalità e impegno (ho sempre presente l’art.4 Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società) ma queste parole sono insufficienti: a me piace entrare a scuola e non aver mai smesso dalla prima elementare ad oggi, e piace l’idea che i ragazzi possano sentire che non mi ci trascino a scuola, che son contenta di ritrovarli quotidianamente e che proprio in forza di ciò mi aspetto partecipazione e presenza fisica e mentale anche da parte loro.
Ma voglio tornare al principio del libro, alla dedica “Alla scuola, che mi ha salvato e mi salva, ogni giorno”
Non so se vale anche per te, ma io posso affermare senza ombra di dubbio che la scuola mi ha salvata più volte. Mi ha salvato da tante possibili occasioni di rimanere schiacciata completamente. Da piccolina il mio maestro Gianni Bianchi alle elementari mi ha fatto vivere con gioia ogni cosa si svolgesse in classe: cantare De Andrè, sviluppare le fotografie, fare l’orto e poi leggere scrivere e fare di conto… se ci penso mi commuovo davvero. Mi ha comunicato il rigore e la bellezza che porta con sé il verbo imparare, spesso mi ha elogiata davanti a tutti ed io non lo sapevo che esistesse un “brava” che potesse risuonare ad alta voce, io che arrivavo da due genitori per fortuna attenti e fiduciosi in me ma poco inclini a dirmelo e da un ambiente più allargato maschilista e abbastanza refrattario alla cultura e all’arte. Quando avevo dieci anni la mia famiglia si trasferii dalla periferia di Genova verso il centro, alle medie venni bullizzata, non violentemente ma in modo perfido dalle compagne più vicine e da un ragazzo più grande. I miei vestiti, il mio aspetto, i mobili della mia camera erano oggetto di scherno in quanto non sufficientemente alla moda. Non ci penso più ma so che è tutto lì, e infatti sul bullismo ho le antenne sempre ben drizzate.
Mi viene ora in mente mio padre che mi accompagnava a scuola, per nulla “virile” anzi in difficoltà per il mio disagio, desideroso di proteggermi dalla gratuità della cattiveria. Ero però la più brava della classe e ricordo che le prof di italiano Nesta e di matematica Piccinini con le loro attenzioni continue e affettuose e il loro incoraggiarmi nello studio sono state una boa di salvataggio fondamentale. Poi la scuola mi ha salvata ancora al liceo quando trovai politicamente un ambiente fertile – in una classe in cui quasi tutti erano figli di professionisti ed io no – a chi come me aveva bisogno di orizzonti politici più grandi e narrazioni di un mondo più giusto. E poi addirittura nel passaggio università-docenza mi ha salvata da una storia sentimentale assurda e carica di problemi più grandi di me, in cui mi ero cacciata e che per tanti anni mi ha allontanata da quasi tutti: se non avessi avuto la certezza della scuola – quale mio luogo naturale – a sostenermi sempre, a farmi sentire forte di un desiderio raggiunto e di un ruolo sociale per me gratificante son certa che non avrei avuto la forza di uscire da quella situazione. Scusa Roberta la deriva biografica.

Roberta. Non è affatto una deriva, anzi grazie. Mi pare bellissimo che questo libro ci stia conducendo al nostro personale. Comincio con il dirti che la frase che citavi risuona moltissimo anche nella mia esperienza. Io a scuola mi diverto un mondo. Non dico che non ci siano problemi, o difficoltà, ma è un fatto che con gli/le studenti io stia benissimo. Più mi lascio andare, pur non perdendo mai di vista il mio ruolo, più l’ambiente diventa stimolante e sereno per me per prima. Si ride insieme, si impara insieme. Si tratta di una conquista però. Come studente all’inizio della mia storia con la scuola non è stato così. All’asilo ricordo che picchiavo ogni giorno un bambino e che dopo pranzo mi rifiutavo di dormire con gli altri e volevo tornare a casa. Ho poi cominciato in anticipo le elementari facendo un anno da privatista, e mentre imparavo l’alfabeto stringevo il ciuccio in una tasca. Alle elementari e alle medie poiché ero una bambina grassa ho resistito a quello che ora chiamiamo bullismo e sul quale inevitabilmente anche io da insegnante oggi ho le antenne ben tese. Eppure anche io posso dire che mi sento in qualche modo salvata dalla scuola, così come da altri luoghi di incontro e affetto che hanno saputo medicare le ferite, sia quelle esistenziali che quelle che nascono dalle ingiustizie del mondo.
Tra le elementari e le medie accadono rispettivamente due fatti che sostanzialmente svoltano la mia vita, e ad oggi posso dire anche la mia vita di insegnante. Il primo: facciamo una recita, mi viene affidato il ruolo di una “vecchia signora burbera”. Ancora me lo ricordo, lo recito con tutta la rabbia e la passione che posso: un successo di pubblico totale. Vengo acclamata, ed è la prima volta che accade una cosa del genere. Praticamente quel giorno sono nata. Alle medie succede quest’altra cosa: la prof di lettere propone ottimo all’esame finale. Un voto che non mi aspettavo perché a scuola ero sempre andata male. Invece esco con il massimo e la prof mi dice: te lo sei meritato. Le ho creduto. Non per il voto, che è solo un pretesto. Ma perché lei quel giorno ha visto molto al di là di quello che ero. Ha visto quello che potevo diventare, e aveva ragione.
Poi ho cominciato anche io a credere nelle mie possibilità e non mi sono fermata più. Al liceo la scuola mi salvava perché a casa vivevo l’inferno vero. La casa era un luogo di violenza e di sofferenza, la scuola era casa mia, se non ci fosse stata e se non avessi avuto quella spinta alla possibilità di emanciparmi oggi non sarei qua a scriverti, letteralmente. Al liceo ho incontrato delle persone che mi hanno fatto immaginare un mondo diverso, insegnanti, amiche, artisti/e, molte sono vive, molte altre sono morte da poco o da tantissimo tempo.
Sai, penso al momento in cui la professoressa di questo romanzo introduce alla sua classe Joyce e I morti. Penso che quello sia il cuore di questa storia, perché se ci pensi a scuola praticamente non si fa altro che parlare di morti e lo trovo bellissimo perché lo si fa per restare in vita.

Gaja Cenciarelli, “Domani interrogo”, Marsilio 2022

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