1973, domenica 25 febbraio, il sole inonda Trieste.
Sulla collina di San Giovanni, nel P – il Padiglione dei Tranquilli – una quindicina di persone osserva il cavallo celeste costruito in legno e cartapesta: è gravido di bigliettini e piccoli oggetti, come la fiaschetta da cui non serve più bere di nascosto. Ed è così slanciato, che adesso non passa per le porte.
Ma hanno appuntamento con chi negli altri padiglioni sta terminando il pranzo o turni di 42-48 ore: faranno un corteo giù per il parco dell’Ospedale Psichiatrico, fino a entrare nella città bassa. Si sono già annunciate coi giornali murali affissi anche tra alberi e palazzi oltre il cancello. E hanno richiamato studenti, artisti, giornalisti ovunque in ascolto e in arrivo tra stazione dei treni, molo e confine.
Marco Cavallo lotta per gli oppressi dice una canzone composta quando lo creavano. Dopo anni in cui non avevano considerato di poter superare quelle soglie, men che meno di farne il luogo di un’azione reversibile e comune – degenti, famiglie e amici che le e li avevano consegnati e visti sparire lì, con dottori e infermieri.
Chi riesce a mantenere la calma sposta lo sguardo, vede una scala da lavoro e la usa: per sfondare i muri del P.
Poi spingono il cavallo e passano. Lo impiglia la recinzione esterna che non si rompe né svita, ora lo inclinano: escono.
Si allineano.
Erano Franco Basaglia, mentre rivoluzionava pratiche mediche diventate contenzione, con Giuliano Scabia, Vittorio e Dino Basaglia, Franca Ongaro, Peppe Dell’Acqua e sempre più lavoratori e pazienti. Il coraggio necessario, lo avevano riacceso in giorni e notti di mesi, non a parlare: a parlarsi, attraversare una contraddizione dopo l’altra e giocare.
Fino a riconoscere – e lasciarci in eredità – perché e come la libertà è terapeutica.









Letizia Buoso

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