C’è vita sul lago velenoso

Sara Filippelli, 5 dicembre 2022

Intervista a Susanna Della Sala: ieri è uscito Last Stop Before Chocolate Mountain girato in un luogo ora semi abbandonato, Bombay Beach, Usa. Era un’oasi di meraviglia e oggi è degradato, inquinato. Ma un gruppo di artisti, vinta la diffidenza dei pochi autoctoni, è tornato a investirci

Di Sara Filippelli

Bombay Beach è una delle località di quella che un tempo veniva chiamata American Riviera, una specie di oasi nel deserto intorno al lago Salton Sea, quasi 1000 kmq, nato da errore idraulico nel 1905, quando le acque del fiume Colorado vennero deviate nel bacino dell’Imperial Valley. Un lago che sembra il mare: sci d’acqua, campi da golf, porti turistici, tutto intorno villaggi turistici e ville. In poco tempo questo paradiso, frequentato anche da Frank Sinatra, Jerry Lewis e i Beach Boys, iniziò a diventare un inferno. Iniziarono le piogge tropicali e le inondazioni, come quella del 1976 che spazzò via intere zone residenziali. Privo di sbocchi, il Salton Sea viene alimentato soprattutto da acque reflue e agricole, cariche di pesticidi, mentre il calore ne determina un’elevata evaporazione e un tasso di salinità superiore a quello dell’Oceano Pacifico. La zona intorno al lago fu trasformata in una grande pianura coltivabile, il che ha contribuito al disastro ecologico e ambientale in modo definitivo: da decenni si fa uso massiccio di fertilizzanti e pesticidi che finiscono nel lago. L’acqua così inquinata crea una fitta foresta di alghe che causano la morte di tutte le specie ittiche presenti. Nel 1999 morirono quasi 8 milioni di pesci in un solo giorno che hanno decretato il lento abbandono di tutte le aree intorno al Salton.
Ad oggi rimangono solo 300 residenti. Una comunità fatta di ex detenuti, indigenti, veterani, persone rimaste perché non potevano permettersi di andare altrove, o persone arrivate attratte dai prezzi molto bassi e la possibilità di una vita libera nel deserto.
Negli ultimi anni però agli abitanti di questo luogo spettrale, fatto di carcasse, scheletri di case, strutture mangiate dal sale e dal vento, ruggine, polvere e rovine, si sono aggiunti degli artisti che hanno trovato in questo luogo una casa per se stessi e per la loro arte.
La convivenza tra la comunità locale e gli artisti non è semplice. Lo racconta Tao Ruspoli artista italo-americano, figlio di un principe, che è arrivato da Los Angeles per trovare in Bombay Beach un luogo stimolante e di cambiamento per il suo lavoro. Le persone che vivono qua da molti anni non sempre vedono di buon occhio i cambiamenti che l’arte genera. Eppure è proprio l’arte che agisce su persone e cose e restituisce un nuovo modo di esistere a questa terra disagiata e ai suoi abitanti. In questo reciproco scambio, la memoria del disastro, che ha lasciato impronta indelebile sulle vite e sul paesaggio, attiva un processo di rinascita e redenzione. Grazie a questo Tao e altri artisti danno vita alla Biennale d’arte di Bombay Beach. La storia di Bombay Beach e degli artisti è raccontata dalla regista Susanna della Sala in Last stop before Chocolate Mountain nella sale italiane dal 4 dicembre accompagnato dalla regista a cui abbiamo fatto alcune domande (qui le prossime proiezioni https://laststop.doclab.it/).

Come hai scoperto Bombay Beach?

Dieci anni fa sono andata a trovare mia sorella che viveva a San Francisco. Durante un viaggio all’avventura sulla costa della California, nel tentativo di noleggiare un vecchio camper, ho conosciuto un filmmaker italo americano di nome Tao Ruspoli.
Tao, personaggio del film e co-fondatore della Biennale d’arte che si svolge a Bombay Beach, viveva ancora a Los Angeles. Negli anni siamo rimasti in contatto e ho seguito da lontano la sua fuga dalla grande città e l’approdo nel deserto Californiano. Ancora non conoscevo bene la sua storia e la natura del luogo dove si era stabilito.  Negli anni abbiamo portato avanti uno scambio artistico e gli ho inviato un cortometraggio del 2017, Il Dottore dei Pesci. Tratta, in maniera fantastica e surreale, temi come l’emarginazione, l’accettazione e il senso di appartenenza. Dopo averlo visto è stato proprio Tao a propormi di visitare Bombay Beach. “Questo posto è per te” mi ha detto. Aveva ragione.

Ci sei andata già con l’intento di documentare o questa esigenza è venuta dopo? che cosa è stata e cosa è Bombay Beach per te?

Dalle mie prime ricerche ho letto di un lago tossico, di un luogo definito “discarica”, di una cittadina fantasma. Eppure, sembrava esserci della vita tra questi resti di architetture anni 50 stagliate su distese desertiche dai tramonti mozzafiato. È stata una scelta istintiva e impulsiva di voler scoprire quelle anime nascoste. Così ho coinvolto il direttore della fotografia Andrea Josè di Pasquale con il quale collaboro da anni. Abbiamo deciso di documentare ma non sapevamo ancora cosa.
Approdati a Bombay Beach ci è parso di stare su un set cinematografico: case e camper abbandonati con ancora i vestiti negli armadi, le sigarette nei posaceneri, i giornali dell’epoca sul tavolo, gli sci d’acqua appesi alle pareti, le barche nei garage. Nessun supermercato, polizia, scuola… senza un’anima per le strade ci è parso un luogo sospeso nel tempo. Da un lato una distesa desertica, dall’altro il lago, apparentemente bello per poi scoprire le sue spiagge costellate da carcasse di pesci. E poi quella montagna, enorme, che richiama le sfumature del cioccolato, la “Chocolate Mountain” per l’appunto. Incontriamo Adam, sui 50 anni con le braccia ricoperte di tatuaggi intento a scarabocchiare su scarti di cartone. Mi avvicino attratta dai suoi disegni che lui mi presenta come “scarabocchi”. Mi colpisce, anch’io disegno e curo una pagina che si chiama “la scarabocchiatrice”. Ci sediamo con lui e ci racconta la sua storia. “Ho imparato a disegnare in carcere, ci sono stato 26 anni per aver rapinato 8 banche” dice. “Disegnare è la mia terapia”. Adam si offre di portarci in giro e così scopriamo la sua personalità così vivace e travolgente, in netto contrasto con quei suoi disegni formali, sintetici e simbolici. È stato quell’incontro a far scattare la scintilla.
Bombay Beach mi è stata presentata come una città di fantasmi, che si sono rivelati di una vitalità mai incontrata prima, spinti dalla voglia di ricostruire, di creare, di collaborare, di comunicare, di gridare. Bombay Beach per me rappresenta un luogo metaforico e universale che racchiude l’esigenza di tutti noi di sentirci parte di qualcosa, di essere accettati, di poter ricostruire partendo dalle rovine del nostro passato.

La tua non pare essere un’esperienza puramente registica, sembra che il tuo percorso di artista ti abbia guidato nella costruzione del film e nel modo in cui hai vissuto l’esperienza, il rapporto con Bombay beach, con i suoi abitanti e con gli artisti della biennale.

Non so se posso definirmi un’artista ma forse c’è una certa sensibilità -artistica- che mi ha guidato in maniera istintiva.  Ci sono degli aspetti del reale che sono nascosti, legati alla sfera emotiva del luogo e delle persone ma che per me esistono, fanno parte della realtà anche se poco tangibili. È stato proprio questo che ho cercato di indagare e rappresentare. Quelle sensazioni, quella poesia, quella magia e quell’energia propria di quelle persone.
Sicuramente il contesto stesso mi ha aiutato. Il deserto è un luogo difficile, violento. Nel deserto rimane solo ciò che davvero ha valore e grazie alla privazione, i sensi si affinano e diventano capaci di cogliere l’invisibile. Forse è per questo che gli artisti sono attratti da questo posto. È rimasta l’essenza delle cose.

Quanto è stato difficile guadagnarsi la fiducia dei protagonisti? Qual è il tuo metodo di approccio documentario?

Sono arrivata a Bombay Beach senza richieste e senza pretese, ho vissuto lì per 9 mesi. Lentamente si è creato un rapporto di amicizia e di rispetto reciproco. Sono stata accolta e addirittura accudita.
Certo è stato difficile, le persone erano inizialmente impaurite e distanti soprattutto a causa di film precedenti finiti sul web. “Non vogliamo il porno-povertà”, mi dicevano. Mi ha impressionato.
Non sono stata io a scegliere i personaggi, ma sono stati loro a scegliere me. Io ero lì, con il mio terzo occhio, pronta ad ascoltare. Chi ha voluto mi ha cercato spinto dall’esigenza di raccontare la propria storia, a volte per esorcizzare le proprie paure e i propri traumi e a volte per gioco, un modo per stare assieme e comunicare. In questo senso il film è nato in maniera spontanea e collettiva proprio come sono nate le innumerevoli installazioni, le performance, le parate.
Mi sono innamorata di queste persone che sono state per me come dei maestri di vita. Ogni dialogo del film, ogni pensiero spontaneo, ogni canto improvvisato risulta sempre una perla di saggezza.
Il mio metodo di approccio a questo film è stato quello di lasciare libertà e quello di non imporre il mio sguardo, la macchina da ripresa o un linguaggio definito che secondo me alla lunga sarebbe stato limitante. Nel film vediamo i personaggi rivolgersi alla camera o in momenti di vita o in interviste più classiche.

Il film racconta due comunità che si incontrano, la comunità “nativa” e quella degli artisti, che seppur molto differenti tra loro hanno numerosi punti di contatto. Ma mentre la comunità degli artisti si esprime attraverso la sua arte, che contamina e si contamina con il luogo, la comunità dei nativi parla attraverso il paesaggio di Bombay Beach. Nel film il paesaggio, lo sfondo delle vicende, è un protagonista ingombrante. Come si riesce a raccontare una presenza così forte e importante, quasi un terzo attore?

Sì è vero, l’arte è già dentro Bombay Beach, sta tra le bambole e le bizzarre sculture del giardino della signora Shirley, nell’istallazione di pietre colorate di Lloyd geologo in pensione, nel modo di vestire di Sonia, nella voce del cantante dello Ski Inn, nei disegni di Adam. Sta in quei tramonti così unici, in quelle lune piene abbaglianti, nei colori pastello del vecchio Drive Inn e delle pareti delle case, nelle forme sinuose delle vecchie macchine, nei colori del deserto.
Il luogo è sicuramente protagonista nel film e l’ho voluto raccontare soprattutto nella sua accezione simbolica. I lunghi treni merci che passano costantemente ci ricordano quei vagabondi che saltavano a bordo clandestinamente alla ricerca di una nuova vita e quindi simboleggia il viaggio, fisico o interiore. Il lago come un’oasi che rappresenta lo spazio e il momento in cui è possibile ricevere aiuto, recuperare le forze. La Chocolate Mountain come una meta da raggiungere, una sorta di visione paradisiaca.
Certo poi racconto anche il luogo reale: il disastro ambientale, le esercitazioni militari che fanno tremare la terra, la mancanza di servizi come un benzinaio, un supermercato, una scuola.

Nel film è forte la presenza della memoria, testimoniata anche dagli inserti di film amatoriali. Quale è stata la scelta sugli archivi? Cosa hanno significato per te?

La ricerca degli archivi è stato uno dei momenti che ho preferito nella genesi di questo film. Ho scelto di utilizzare l’archivio per raccontare il passato ma sempre in legame con ciò che quell’evento ha determinato nel presente, a Bombay Beach. Ad esempio, a Bombay Beach vedevo Tao (Ruspoli) prendersi cura quotidianamente del suo giardino così amorevolmente, una scelta particolare considerando che è molto difficile far crescere piante e fiori nel deserto. Mi sono chiesta le motivazioni. Così ho voluto mostrare l’archivio del Castello della sua antichissima e nobile famiglia con il suo maestoso giardino all’italiana.
L’archivio per me ha anche un ruolo profondamente emotivo e quindi l’ho ricercato e scelto in maniera piuttosto istintiva. Ad esempio, un giorno nel riguardare il materiale che avevo girato trovo un primo piano dell’anziano proprietario dello Ski Inn, unico bar del posto. Aveva uno sguardo così malinconico, così tenero e sognante che mi ha trasmesso subito la necessità di immaginare quale fosse quel ricordo che gli faceva brillare gli occhi. Così ho recuperato degli archivi di famiglia che potessero allo stesso tempo raccontare anche il luogo: momenti di pesca tra padri e figli, fatti di risate e di giochi.
Altri archivi invece sono più astratti e metaforici, come il repertorio della Maga che fa comparire due Pierrot. L’ho accostato a Sonia, la protagonista, perché in fondo è stata in gran parte lei a far accadere le cose, ad accogliere i nuovi arrivati.

Qual è stata la parte più difficile nella realizzazione del film? Ci sono stati momenti di tensione?

Come raccontavo prima, gli abitanti non erano felici di progetti girati lì precedentemente e questo è stato un grande ostacolo. Non è un luogo facile in cui vivere, a partire dal clima fatto di caldo torrido e di gelo, di “dust devils”, i diavoli di polvere che possono essere spaventosi e causare danni anche gravi. Ci siamo ammalati spessissimo. Per fare la spesa bisogna guidare un’ora e mezza, lo stesso vale per la benzina e così ci si organizza con gli altri. Non tutti hanno la macchina. Non basti a te stesso, hai bisogno degli altri.

Il lavoro sul suono si percepisce importante nel racconto, così come la presenza della musica. Puoi dirci qualcosa a riguardo?

È stata dedicata una grande ricerca e sperimentazione alla lavorazione del suono. Volevamo veicolare il senso del non ordinario, quella “magia che non si vede ma che esiste”, descritta dai personaggi stessi. Ed è così che i suoni amplificati del reale si mischiano a voci del ricordo e a suoni distorti creati ad hoc che rimandano a uno stato d’animo o a un’atmosfera. Un flusso di suoni intimamente legato alla dimensione lirica, emotiva e subconscia.
Grande attenzione è stata data anche alla creazione della colonna sonora originale fatta di strumenti scordati che ricordano un tempo passato, di note squillanti legate a un mondo quasi favolistico, e di melodie malinconiche. Si alternano brani più sperimentali e elettronici a un dream pop contemporaneo mescolato con sonorità degli anni Cinquanta.

Cosa ti ha rivelato questo film?

L’importanza della collettività. A partire dalla forza della comunità con la quale ho vissuto a Bombay Beach e poi di chi ci ha permesso di realizzare il film tramite due raccolte fondi (alla quale hanno partecipato più di 100 persone). Ho iniziato questo progetto con pochissime risorse pensando che avrei provato a portarlo a termine da sola. Sono finita con due incredibili produttori, Marco Visalberghi e Sherin Salvetti che mi hanno supportato e insegnato molto e che hanno portato a bordo tantissimi professionisti. Come Aline Hervè e Elisabetta Abrami al montaggio e tanti altri collaboratori che hanno dato un apporto prezioso al film.

Progetti per il futuro?

I progetti sono tanti, bisogna vedere quale riesce a prendere il via. Mi sto concentrando su un altro documentario che vorrei girare qui in Italia questa volta anche se sono sempre attratta da storie lontane. Dietro grandi temi e grandi scelte alla fine si nasconde sempre una motivazione più intima e personale. Ho scelto l’America anche perché mi ricorda la mia infanzia.

 

Info. Susanna della Sala è regista, autrice, illustratrice e artista visiva. Il suo primo lungometraggio indipendente intitolato Neolovismo (2020), diretto con Mike Bruce, è stato selezionato alla 56a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro e in altri festival internazionali. Last Stop Before Chocolate Mountain (2022), suo secondo lavoro, prodotto da DocLab, è distribuito da ZaLab in Italia dal 4 dicembre e ha già vinto 3 premi all’ultimo Festival dei Popoli.

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Sara Filippelli

Sara Filippelli ha conseguito il dottorato in “Scienze dei Sistemi Culturali” presso Università degli Studi di Sassari, con una tesi dedicata alle donne cineamatrici di famiglia in Italia. Dal 2010 ha co-diretto la raccolta di home movies in Sardegna, primo pionieristico progetto regionale italiano in collaborazione con Home Movies Bologna. Da allora la sua ricerca si è concentrata sulle donne autrici e registe, soprattutto della tv e cinema indipendente underground italiano, dagli anni Settanta ad oggi, e ha prodotto pubblicazioni saggi, curatele che mettono a tema le donne e gli audiovisivi. Ha curato eventi e iniziative culturali e dato vita al blog donneinmovimento.com e fa parte della Casa delle donne di Milano. Attualmente collabora alla ideazione e produzione di programmi tv, e alla ricerca d’archivio e sviluppo di soggetti con produzioni cinematografiche.

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