Nel dicembre 2019, durante il convegno biennale della SIL dedicato al lavoro delle donne, si tenne un workshop sulla rappresentazione letteraria, e non solo, della migrazione femminile. (Per saperne di più sul convegno, e scaricare l’ebook con gli atti dei workshop clicca qui). Coordinava uno dei workshop Lidia Curti, una donna straordinaria che purtroppo abbiamo perso lo scorso anno.
Fra i numerosi interventi, una riflessione di Chiara Ingrao sulle sfide da lei affrontate nella scrittura del suo romanzo “Migrante per sempre”, ispirato ad una storia vera di emigrazione italiana ma anche di immigrazione in Italia. Quando abbiamo deciso di pubblicare questo testo su Letterate Magazine, Chiara ci ha proposto di allargare lo sguardo anche ad altre storie di donne migranti. La scelta che abbiamo fatto non pretende di essere esaustiva, solo di sollecitare curiosità e spunti di riflessione. Vi proporremo sia vicende di migrazione dall’Italia verso altri paesi, in diversi luoghi e diverse epoche, sia storie di immigrazione in Italia da vari angoli del mondo: dalla Somalia alla Romania, dalla Bosnia alla Palestina, dall’India agli Stati Uniti, all’Argentina, al Belgio.
«Crescere in un altro Paese provoca problemi sovrumani»
Chi emigra non viene spesso creduto né capito. Cosa vogliamo che racconti alle nostre commissioni per ottenere il permesso di soggiorno? Perché non crediamo loro e li costringiamo a mentire? La scrittrice italo bosniaca che ha perso il padre nel ’95 a Srebrenica, si racconta in questa intervista in cui parla anche di pacifismo
di Silvia Neonato
«Il 16 aprile di 30 anni fa con mia madre e i miei due fratelli lasciavamo Srebrenica, la nostra città. Mio padre pensava fosse meglio trasferirci per qualche tempo da una zia, che abitava in un paese nel centro della Bosnia Erzegovina. Srebrenica è infatti sul confine con la Serbia. Era il 1992, credevamo di tornare in breve tempo a casa, ma la città intorno al 20 aprile è stata circondata dall’esercito serbo ed è rimasta 3 anni assediata. Non abbiamo mai più rivisto mio padre. Essendo materiale biodegrabile, è scomparso nel 1995 in qualche fossa comune».
Elvira Mujčić, scrittrice, traduttrice italo-bosniaca e insegnante, ha raccontato la propria emigrazione nel romanzo d’esordio del 2007, “Al di là del caos. Cosa rimane dopo Srebrenica”. Un libro in cui ripercorre il viaggio che l’ha portata da Srebrenica all’Italia attraverso la Croazia, ma anche il viaggio interiore per trovare la salvezza mentale ricordando le canzoni e gli odori perduti. “Al di là del caos” è la ricerca continua di un posto per esistere. «Mia madre è una donna fortissima malgrado lei non ci creda. È arrivata in Italia a 36 anni con 3 figli minorenni, era laureata e qui ha fatto l’operaia. Quando siamo fuggiti dalla Bosnia, prima siamo riparati in Croazia, perché d’estate affittavamo lì una casa al mare: fu la mamma a deciderlo, voleva restare abbastanza vicino sempre sperando di ritornare a casa. Le persone che ci affittavano la casa da anni, ci hanno aiutati moltissimo. Poi ci siamo sistemati in un campo profughi, da dove, nel ’94, siamo partiti per l’Italia. Abbiamo trovato ospitalità a Brescia con un progetto umanitario… mia mamma ha continuato a sperare che saremmo tornati, ma a Srebrenica nel luglio 1995 c’è stato il genocidio di oltre 8000 ragazzi e uomini musulmani bosniaci. Siamo poi tornati, ma abitiamo in Italia e la mamma aspetta la pensione per aver finalmente il tempo di far visita a noi figli».
Elvira Mujčić ha 42 anni e vive a Roma. Di temi quali l’essere profughi, migrare, ricominciare una nuova esistenza ha molto scritto nei suoi libri e trattato nei diversi convegni in cui è invitata. Nel volume “Sarajevo. La storia di un piccolo tradimento” si chiede se si può avere nostalgia di un Paese che non c’è. E che ti fanno credere non ci sia mai stato. Se le chiedi cosa prova verso i rifugiati ucraini fuggiti in Italia, quasi tutti donne e bambini come erano lei, i suoi fratelli e la madre quando arrivarono, risponde che «non si è mai davvero capaci di credere che la guerra arriverà, neppure se senti cadere le bombe. È accaduto anche a noi. I miei genitori si illudevano che fossero semplici tensioni, conflitti risolvibili in breve tempo per arrivare a nuovi assestamenti dopo la caduta della ex Jugoslavia. C’è qualcosa in noi di così umano che non riesce a accettare un evento disumano come la guerra; malgrado ci sia purtroppo da sempre, sembra impossibile prevederla. È accaduto anche agli ucraini, credo, malgrado i conflitti nel Donbass durino dal 2014». Cosa accade quando la guerra entra nella tua vita? «La guerra cancella la tua vita di prima. Quando noi siamo scappate non si lavorava, non si andava a scuola, si cercava di restare vivi ogni giorno, mai sono stato tanto viva come quando eravamo nel paese della zia al centro della Bosnia e la guerra arrivò anche lì. Volevo così tanto riavere la vita di prima, che sono diventata una secchiona; ho letto praticamente tutti i libri della biblioteca bombardata del paesino in cui eravamo rifugiate prima della fuga in Croazia e poi in Italia. Ho persino letto “La nausea”! Ho poi vissuto di rendita tutti gli anni successivi».
Laureata in lingue e letterature straniere in Italia, scrive nella nostra lingua. Il suo terzo romanzo, “La lingua di Ana. Chi sei, quando perdi radici e parole?”, è del 2012. Ana, la protagonista, è un’adolescente moldova scaraventata in Italia, che non riesce a esprimersi bene né in italiano né in moldavo. La lingua è potentemente al centro del libro, la lingua che accoglie e respinge. Scrive Elvira: «Crescere sradicati, in un altro Paese, alieno, in una lingua sconosciuta, più che problemi umani provoca problemi sovrumani». E ancora: «Forse non parlare e non capire una lingua è un po’ come perdere uno dei cinque sensi. O forse, più probabilmente, è come perdere un pochino di ogni senso. Come se la realtà fosse percepita solo a metà e il resto andasse perso nella confusione».
Questa ragazzina moldava che, arrivata in Italia, diventa muta, ti assomiglia. «Sì, ma solo in parte, Ana vive un’intera estate bloccata. Io invece ho avuto subito voglia di imparare l’italiano e con l’accento bresciano, per di più, per non essere diversa dagli altri adolescenti. La lingua ci dà la possibilità di approdare in un luogo, ma la paura di perdere le radici resta; che cosa diventi quando ti racconti in un’altra lingua? Tu non ti traduci, non capisci bene, ti senti scema. Io non riuscivo a essere me stessa. Passare da una lingua all’altra, significa diventare stranieri a sé stessi; sono temi inesauribili, che ti permettono di continuare a scrivere»
In ogni libro di Elvira Mujčić c’è un rimbalzare tra la Bosnia e l’Italia, un andare e venire tra il passato e il presente. In “Dieci prugne ai fascisti”, la famiglia bosniaca esule in Italia deve trasportare la salma della nonna Lania nella sua terra, come lei stessa ha chiesto prima di andarsene. Il viaggio attraverso i Balcani dà origine a una catena di equivoci e la macchina organizzativa, curata per anni, s’inceppa fino a creare situazioni tragicomiche. In realtà i familiari di Lania condividono una tragedia taciuta, mai superata e il ritorno in patria, al seguito del feretro, diventa una migrazione al contrario.
Sembra che la famiglia bosniaca, tornando in patria, riesca finalmente a riconquistare la propria storia e una nuova vita. È così? «Con la guerra si diventa altre persone, può sparare chi fino al giorno prima non avrebbe mai sparato ed è cresciuto nella cultura della pace. Diventa difficile riparlarne. E i lutti tolgono le parole. Gli incontri tra chi se n’è andato e chi è rimasto sono difficili, dolorosi però sì, possono essere dei momenti in cui si ritrova una storia comune e si riparla di futuro».
Eppure tu mantieni spesso una chiave ironica, l’uso del grottesco è frequente nei tuoi libri. Anche in “Consigli per essere un bravo immigrato”, la comicità è grande. La domanda base del libro è: quali caratteristiche deve avere la storia di un immigrato per essere creduta? Se lo chiede Ismail, un ragazzo gambiano che a cui la commissione italiana ha negato il permesso di soggiorno ritenendo la sua storia non plausibile. La sua domanda di avere una esistenza legale in Italia è stata rifiutata.
Ismail si rivolge a Elvira, una scrittrice italo bosniaca, immigrata due decenni prima di lui sperando che lo aiuti a scrivere una storia credibile per la commissione italiana: lei è scrittrice, pensa, e riuscirà a inventarne una ben fatta. E che insieme preservi la loro dignità e li salvi dallo stereotipo dell’immigrato. I due protagonisti del magnifico, breve libro, riflettono con ironia sul confine tra verità incredibili e finzioni accettabili, cercano di capire cosa noi ci aspettiamo da loro. Così l’esperienza della migrazione finisce per interrogare anche chi legge. Cosa vogliamo che ci raccontino? Perché non crediamo loro? Perché li costringiamo a mentire e poi li accusiamo di essere bugiardi?
Spiega Elvira: «Proprio perché la migrazione è un fenomeno che attraversa la storia dell’umanità, in “Consigli per essere un bravo immigrato” vorrei raccontare alcuni aspetti delle migrazioni degli ultimi trent’anni. Nel mio libro l’Italia è la terra di approdo per chi, scampato alla guerra, alla fame e ai pericoli dei viaggi clandestini, crede di essere finalmente giunto in un luogo in cui forse può rifarsi una vita. Ma dovrà convincere una commissione di estranei della validità della sua storia di vita. Ed è qui che stereotipi e reciproche aspettative si intrecciano: l’immigrato deve fare i conti con la violenza della burocrazia e con una etichetta che lo perseguita e lo imprigiona senza scampo».
Gli autoctoni nel contempo si spaventano e diventano spesso più diffidenti. «È un continuo creare un noi e un voi; gli stati nazione che compongono tuttora il mondo, nei periodi di benessere e pace possono sembrare innocui, ma nel momento di una crisi economica, di sconvolgimenti sociali o di una guerra che crea migrazioni, allora tutto cambia. Il senso di appartenenza al nostro paese si solidifica, diventa una corazza protettiva e più ci sentiamo in pericolo, più ci chiudiamo. Occorre lavorare su questo concetto di confini e sul pacifismo: non c’è una vera cultura di pace, non c’è una capacità di gestire i processi che creano contraddizioni. Credo che la migrazione potrebbe essere una occasione rivoluzionaria, che le persone che mettono i loro corpi e le loro vite nel muoversi verso altri paesi, ci ricordano che i confini possono essere luoghi spaventosi».
Stai scrivendo un nuovo libro? «Sto scrivendo una storia surreale ambientata in Kosovo: ho visto un servizio televisivo girato nel sud a maggioranza serba. Ci sono le elezioni e ha vinto un bravo serbo. Ma non va bene un sindaco serbo in Kosovo, paese che non riconosce la Serbia. Quando ci si inoltra nel terreno delle identità e delle nazioni non c’è solo il nemico, ma c’è anche il simile a te che però non va bene neppure lui, perché non è mai abbastanza simile».
Libri di Elvira Mujčić
“Al di là del caos. Cosa rimane dopo Srebrenica”, Infinito edizioni, 2007
“E se Fuad avesse avuto la dinamite?” Infinito edizioni, 2009
“La lingua di Ana. Chi sei, quando perdi radici e parole?” Infinito edizioni, 2012
“Sarajevo. La storia di un piccolo tradimento”. Infinito edizioni, 2012
“Dieci prugne ai fascisti”, Elliot, 2016
“Consigli per essere un bravo immigrato”, Elliot 2019
Traduzioni e spettacoli
Ha tradotto in italiano “Il letto di Frida” di Slavenka Drakulić (Baldini Castoldi Dalai), “Il nostro uomo sul campo di Robert Perišić” e “Il dono d’addio” di Vladimir Tasić (entrambi editi da Zandonai). Ha curato la traduzione del cartone animato Draw not War e del documentario “La periferia del nulla” di Zijad Ibrahimović (Ventura Film). È coautrice dello spettacolo teatrale “Ballata per un assedio” (2010) e per Chiassoletteraria 2013 ha scritto lo spettacolo “I quaderni di Nisveta”.
Redazione LM
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