Nel dicembre 2019, durante il convegno biennale della SIL dedicato al lavoro delle donne, si tenne un workshop sulla rappresentazione letteraria, e non solo, della migrazione femminile. (Per saperne di più sul convegno, e scaricare l’ebook con gli atti dei workshop clicca qui). Coordinava uno dei workshop Lidia Curti, una donna straordinaria che purtroppo abbiamo perso lo scorso anno.
Fra i numerosi interventi, una riflessione di Chiara Ingrao sulle sfide da lei affrontate nella scrittura del suo romanzo “Migrante per sempre”, ispirato ad una storia vera di emigrazione italiana ma anche di immigrazione in Italia. Quando abbiamo deciso di pubblicare questo testo su Letterate Magazine, Chiara ci ha proposto di allargare lo sguardo anche ad altre storie di donne migranti. La scelta che abbiamo fatto non pretende di essere esaustiva, solo di sollecitare curiosità e spunti di riflessione. Vi proporremo sia vicende di migrazione dall’Italia verso altri paesi, in diversi luoghi e diverse epoche, sia storie di immigrazione in Italia da vari angoli del mondo: dalla Somalia alla Romania, dalla Bosnia alla Palestina, dall’India agli Stati Uniti, all’Argentina, al Belgio.
«Se non ti sta bene come racconto le cose, allora lasciami»
La scrittrice somala Ubah Cristina Ali Farah nei suoi scritti traghetta la civiltà orale nella parola scritta attraverso le interviste e l’uso del parlato al telefono per ricreare il ritmo e il modo della sua gente di raccontare storie di una comunità sparpagliata nel mondo
di Clotilde Barbarulli
Una scrittura complessa, quella di Ubah Cristina Ali Farah(1), a cominciare dal suo esordio con “Madre piccola” del 2007, dove emerge la forza delle donne, cifra che connota tutta la sua produzione. Con questo libro scava nelle sofferenze e speranze di esuli che, dalla Somalia prima colonizzata e poi abbandonata a guerre interne, in uno sfruttamento globalizzato che continua in varie forme, trovano in Italia altre ingiustizie. Si «può ricucire una rete di esistenze?», si chiede una delle voci narranti del libro, attraversato da parole legate alla tessitura per alludere a un discorso «fittamente intessuto», una trama intricata di storie «di cui bisogna sempre «riavvolgere il filo».
È la globalizzazione con le sue guerre, ingiustizie e furti, a creare ovunque strade attraversate da erranza, povertà ed esclusione. Mediante una forma di coro a tre voci, scandite da parole somale, da varianti somale di termini italiani, da canzoni e proverbi, le storie personali s’intrecciano sia fra di loro sia con le vicende storiche perché tutto è un «fitto ricamo» che lega Shukri, Luul, Safiya, Barni, Axad in «strade che si rincorrono» nella erosione di appartenenze fra desiderio e disagio: le ragioni che portano alla migrazione sono «fili intessuti fittamente», «nodi» del filo di un discorso che, smarrito nella Storia, viene riannodato di continuo nelle conversazioni telefoniche che si fanno onde di racconti. Questo lessico legato al concetto e all’immagine del tessere mi sembra teso a evidenziare l’oralità: «Amico – dice Taageer al giornalista – non sto divagando. Se non ti sta bene come racconto le cose, allora porta le tue domande da qualche altra parte. Io sto seguendo un logicammino».
L’autrice – consapevole dei due elementi di marginalità e alterità che porta con sé in quanto donna italosomala, – cerca, fra testimonianza e creatività, di traghettare la civiltà orale nella parola scritta attraverso l’uso del parlato al telefono e le interviste per ricreare il ritmo e il modo somalo di raccontare storie di una comunità sparpagliata nel mondo. In un crescendo di vicende, narra spaesamenti e speranze dell’esperienza migratoria, mostrando le rugosità di ogni legame e di ogni possibile incontro con l’Altro, fra retoriche della multiculturalità e frontiere umane, lavorative, legislative. Alla giornalista, Barni vuole ricordare il passato dei migranti italiani, storia «di povera gente mossa dal desiderio. Desiderio così totale da strappare radici, da sfidare cicloni». È quello stesso desiderio a far fuggire oggi dalla guerra che distrugge Xamar-Mogadiscio, in cui prima vivevano – gaal e indiani, yemeniti e cinesi – senza odio, ma ormai diventata città «oltraggiata, riempita di proiettili, bruciata», dove «persino sognare era diventato impraticabile»: così Domenica Axad peregrinando di paese in paese con altr* sradicat* come lei, si sente svuotata e infelice: «Era tutto un movimento interno da una casa all’altra: essere, potevi essere ovunque […] era indifferente». In ogni città, percepita come una mappa vuota, Domenica Axad vaga e s’incide la pelle con le lamette creando una «ragnatela di segni» che raccontano la paura di un’esclusione, la solitudine, un mondo di sradicamento, dove non c’è accoglienza per chi emigra. La diaspora è il territorio della sua scrittura e le protagoniste della diaspora portano in sé come una cesura, tra il prima e il dopo, non sempre ricomponibile.
Domenica Axad tuttavia, dopo che i legami biologici si sono sfrangiati, cerca di «rimettere insieme tutti i pezzi» della sua vita nomade abitando l’italiano (lingua della madre) che consegnerà al figlio Taariikh, appena nato e circonciso, segno dell’altra appartenenza somala. Per la scrittrice – segnata dalla maternità a 17 anni, come racconta – la casa è dove sono i figli, e costituisce la sua stabilità: così Domenica Axad e Barni, legate da amicizia o amore, nell’accudire il piccolo, accetteranno l’identità multipla e cercheranno insieme un modo di vita inevitabilmente precario fra tradizione e innovazione, fra passato e presente, fra cicatrici e progetti, ma diverso rispetto alle madri «malate di troppe solitudini».
In quella casa Domenica Axad, Barni ed il bambino trovano conforto e riparo senza isolarsi. Non userei al riguardo la parola sorellanza – stratificata dalla fusionalità del femminismo anni Settanta (con il rischio di annullare differenze e conflitti) e da successive prese di distanza e discussioni con una serie di slittamenti nel significato – preferendo parlare di comunanza e condivisione di affetti, relazioni, passioni, fra donne al di fuori dei legami di sangue, nella ricerca di nuclei familiari inventati e rivisitati.
Ne “Il comandante sul fiume” (2014), fin dall’inizio il giovane somalo Yabar, venuto da piccolo a Roma con la madre nel 1990, nonostante le sue incertezze e tensioni esistenziali, si muove in una cartografia relazionale, segnata da amicizie e ricordi, che lo aiuterà nel suo processo di crescita. Le varie storie scorrono sullo sfondo della Storia del popolo somalo, sconvolto dalla guerra clanica. Yabar alla fine capisce di sentirsi a suo agio proprio a Roma con la sua famiglia allargata formata dalla madre e da Rosa, che hanno creato “un’alleanza” (ancora un nucleo affettivo scelto, non fondato su vincoli di parentela).
Con “Le stazioni della luna” (2021), l’autrice affronta il periodo dell’Amministrazione fiduciaria italiana degli anni Cinquanta/Sessanta in Somalia, un paradosso politico e storico dal momento che le Nazioni Unite danno l’incarico di traghettare all’indipendenza i somali proprio agli italiani che prima li avevano colonizzati. Perciò i nuovi responsabili italiani non si comportano politicamente in modo diverso dal periodo fascista: «Gli italiani sono tornati promettendo protezione, amicizia, commercio, e invece non hanno fatto altro che sopraffarci distretto per distretto, usando la forza. Chi difendeva le proprie terre e case è stato punito come ribelle», dice Kaahiye, uno dei personaggi del romanzo. «Gli italiani non sono altro che i vecchi colonialisti di ritorno, ma ora fingono di indossare un’altra veste. Si sono sempre serviti del clan per distribuire privilegi e punire gli oppositori». Molti somali così sono contrari all’amministrazione fiduciaria, ostili ai processi di integrazione che impongono nomi italiani alle strade, e creano ulteriori fratture: per questo collaborano con la Lega dei Giovani Somali che mira a ristabilire l’autonomia. È interessante e necessario parlare – in un’ottica di decolonizzazione – di questo periodo poco discusso sia dagli storici sia dalla letteratura (ne ha parlato Kaha Mohamed Aden).
Clara – che aveva dovuto lasciare adolescente il paese – tornerà in Somalia per ritrovare l’amica Kaahive e la madre, Ebla, che l’aveva accudita («madre di latte»), e per insegnare ai bambini somali, a differenza del fratello Enrico che crede in una superiorità degli italiani. Attraverso Ebla e i suoi figli, Clara adulta si ritroverà coinvolta in prima persona nelle lotte per l’indipendenza del paese. Ebla – splendidi gli assolo in cui si narra – è analfabeta, ma, grazie al padre, sa leggere le stagioni e le stelle, ed è fuggita da un matrimonio combinato negli anni Trenta in nome della libertà, ed alla fine così commenta: «Mia cognata mi ammoniva sempre, diceva che sbagliavo a crescere mia figlia come un maschio, che sbagliavo a non vedere il colore della pelle di Clara, ma eccolo il frutto del mio raccolto: le mie ragazze unite con me nella resistenza, tutte insieme ci batteremo». Sembra alludere alla kinship di Donna Haraway, a quei legami di cura reciproca nell’attenzione al mondo. Il senso di appartenenza, del sentirsi a casa – denotando uno spazio che incrementa prospettive diverse ed in mutamento (bell hooks) – si articola così nelle varie forme di relazioni solidali, militanti, sociali, politiche.
Le protagoniste, affettivamente fra culture e paesi, attraversano confini geografici, culturali, emozionali e scelgono da che parte star: sono donne forti perché l’autrice – come mi ha spiegato – è consapevole di come la lotta al colonialismo deve andare di pari passo con la lotta al patriarcato ed è all’interno di questo impegno che vede soprattutto la possibilità di una solidarietà fra donne.
In tali contronarrazioni gli episodi del colonialismo fascista così smottano (riprendo il termine usato da Martone per il suo film sul Risorgimento) arrivando fino a noi, interrogandoci anche sull’oggi e su quella diaspora di sofferenze e di coraggio a cui l’Italia sembra rispondere solo con i respingimenti ed i luoghi di reclusione in attesa di provvedimenti di espulsione. La letteratura, questa letteratura, illumina la complessità di soggettività nomadi, resistenti in un mondo diviso a livello di classi e di generi, segnato da un’ingiustizia globalizzata in cui sono le donne a pagare, sempre, di più, ed offre lo spazio di libertà per denunciare, e, nello stesso tempo, aprire finestre di speranza.
- Figlia di padre somalo e madre italiana, nasce a Verona nel 1973. È vissuta a Mogadiscio dal 1976 al 1991, quando è stata costretta a fuggire a causa della guerra civile con il figlio. Si è poi stabilita a Roma dove si è laureata in Lettere, ora abita a Bruxelles.
Intervista a Ubah Cristina Ali Farah a cura di Guido Caldiron, “Yabar, ragazzo alla ricerca di sé”, il manifesto 22.11.2014
Intervista all’autrice a cura di Simone Brioni, 13 luglio 2021
Conversazione telefonica con l’autrice del 15 gennaio 2022 a Nairobi (in procinto di tornare, dopo 31 anni, a Mogadiscio per un progetto lavorativo).









Clotilde Barbarulli

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