Con quali narrazioni e con quali pratiche la scrittura, le arti, la teoria femminista affrontano conflitto e rivoluzioni? Confliggere non è azzerare l’avversario/a, ma “spostare la visione”. Un libro a più voci rimanda a un convegno della Sil.
Di Gisella Modica
L’indicazione era trovare ciascuna una parola chiave che sintetizzasse il senso dei workshop al convegno “Conflitti e rivoluzioni. Scritture della complessità”, che si è svolto a Firenze nel novembre 2015. Con quali narrazioni, performatività, con quali pratiche la scrittura e le arti nonché la teoria femminista affrontano conflitto e rivoluzioni?
Ne sono scaturite undici parole chiave che danno il titolo ai capitoli che compongono il testo SIL/labario. Conflitti e rivoluzioni di femminismi e letteratura, curato da Giuliana Misserville, Rita Svandrlik, Laura Marzi. Formano una mappa che, a partire dagli attentati terroristici esplosi a Parigi proprio nei giorni del convegno, si rivela strumento utile per orientarsi e distinguere il conflitto dalla guerra e questa dalla rivoluzione.
Francesca Maffioli che vive a Parigi, racconta del significato di termini quali “attentato” che “ha il carattere del fulmine a ciel sereno”, “equilibrio del terrore” che come tale “sembra possa essere gestito”; “terrorismo maschilista” “contro il progresso dei diritti delle donne”; “gestione della paura” e “paura nei supermercati” dentro i quali da piccola temeva di “perdere i genitori mentre facevano la spesa”.
Il convegno, per contrasto agli avvenimenti terroristici di quei giorni, nel suo svolgersi verificava come “modalità feconda la pratica di borderwork della comparatistica femminista, alla base del progetto politico della SIL, per rendere permeabili i confini” (Misserville). “Esempio di un’etica e di una politica affermativa”, di un canone pensato come “coniugativo e accogliente” e “dell’ermeneutica pensata come empatia” (Farnetti)‘), facendo tesoro degli insegnamenti di Braidotti e del “paradigma dell’altra necessaria”, alla ricerca di “nuove soggettività relazionali, gioiose, consapevoli dell’interdipendenza, disposte ad agire per amore del mondo”.
Non a caso molti interventi sono stati concepiti in forma “dialogica e relazionale”.
Dai dialoghi emerge ripetutamente, con convinzione, che il conflitto come pratica politica può esistere “solo in assenza di inesorabilità, di irrisolvibilità”, in quanto nascendo dal desiderio di affermazione, e non di dominio, necessita che ci sia “ancora spazio per permettere uno spostamento dei rispettivi margini” (Laura Marzi-Clotilde Barbarulli).
Necessita che “il conflitto si apra per vedere cosa c’è dentro” affinché non degeneri in guerra civile, come accaduto in Libano. Non va rimosso, finché si è in tempo, “prima che crollino i ponti”, che diventi “rottura e l’essere umano si trasformi nel mostro che è il terrorismo”. I terroristi non sono più esseri umani perché non c’è più una lingua con cui comunicare. Rimuovere il conflitto crea un inganno. Come nella scrittura “difficile da immaginare non scaturente da un conflitto” (Hoda Barakat, ospite del convegno, autrice di Malati d’amore e L’uomo che arava le acque, esempi straordinari di narrazione del conflitto, in dialogo con Laura Graziano).
“Non esiste rivoluzione se a mutare non è lo sguardo sul nostro corpo e sulle sue relazioni col mondo” afferma Barakat.
La rivoluzione (diversamente dalla guerra che tutto distrugge, per poi tutto ricostruire a propria immagine) è “un sovvertimento e sempre un nuovo cominciamento mirando alla liberazione e alla libertà”. Ma essendo “parola complessa fatta di tante vite materiche, di corpi di donne e di uomini che l’hanno patita e perseguita” è difficile parlarne. E ancora più difficile parlare delle rivoluzioni non portate a compimento “quasi che questo mostrasse la nostra vulnerabilità” (Laura Fortini-Alessandra Pigliaru). Nelle rivoluzioni hanno agito corpi che avevano bisogni concreti, di pane. “Non trovi che davanti a certe materialità delle vite il simbolico salti?” domanda Pigliaru. Come tenere allora sullo stesso filo di tensione “il bisogno di cambiare se stesse con il prestare attenzione al mondo?”
Le domande restano aperte, insieme ad altre scaturite dai diversi workshop: “Possono l’arte e la cultura essere fucine per inventare pratiche per atti resistenti alla violenza coloniale fascista e razziale?” Lo chiedono Rita Svandrlik, Elisa Coco e Pamela Marelli che in Narrazioni non lineari, coordinato dalla compianta Liana Borghi, scelgono il tema dei rifugiati, dei richiedenti asilo e delle migrazioni intrecciato al colonialismo. Il conflitto come “presa di posizione etica, di responsabilità” e “occasione per connettersi” (Braidotti) è il filo degli interventi che attraverso autobiografie e biografie non lineari “dove il tempo si dilata, si ramifica e si sovverte” facendo coesistere passato e presente in un diverso spazio tempo visionario, smaschera l’illusione del progresso. I conflitti irrisolti tra femminismi, sinistra e politica istituzionale degli anni ’70 è il tema scelto da Barbara Romagnoli e Laura Graziano; mentre Clotilde Barbarulli, Luciana Floris e Letizia Grossi raccontano i conflitti in India, Iugoslavia, Libano, Palestina attraverso la lettura dei testi di Arundhati Roy, Sandra Cammelli, Zena El Khalil, Suad Amiry, Adania Shibli.
La lettura di un testo è di per sé un posizionamento che attiva una pratica di conflitto, un doppio movimento dentro-fuori della coscienza; un negoziato interiore generato dall’inseparabilità del sé dall’altro, tenendo unita la disparità tra chi scrive e chi legge, senza cancellare l’eterogeneità della risposta (Borghi).
Nella lettura dei “libri di entrambi le parti, testimoni privilegiati che inventano ponti sospesi laddove si intravvedono solo voragini” è possibile trovare la verità tante volte cercata dentro un conflitto “paradigmatico” come quello israelo-palestinese, e com’è la storia della Palestina “in cui la scena dell’umanità si svela in tutta la sua crudezza”.
Quando si è spinte da un bisogno di giustizia e di comprensione, dall’urgenza di domande di fronte a risposte che non soddisfano, uno strumento, oltre i libri, è farsi testimoni: andare a vedere e conoscere di persona. “Una rete di relazioni e di parole che interpretino la realtà chissà che non siano sufficienti a spostare l’immenso muro per creare aperture” (Nadia Setti-Maria Vittoria Tessitore).
Trovare la parola che sappia interpretare quello che succede, trasformandola in azione conflittuale, è la politica. “Suggerire le parole alla politica” è uno dei compiti della letteratura, attraverso i romanzi proposti nel workshop della compianta Bia Sarasini, ripreso da Paola Meneganti, Raccontare la politica, ovvero l’arte della guerra con altri mezzi. In particolare le personagge di Antonia S. Byatt, Doris Lessing, Ingeborg Bachmann, Crista Wolf, Anna Seghers, Sara Kirsch. Esiste un nesso tra letteratura e politica, così come strumento politico è la scrittura capace di dare vita ad altri punti di vista, altre soluzioni, altre prospettive, agendo la politica in relazione ad altre/i.
“Aiuta a trovare una propria voce decostruendo la soggettività univoca imposta dal patriarcato”.
Decostruire le narrazioni dominanti e fare auto narrazione “considerando lo scenario lavorativo come spazio di libertà quanto luogo di conflitto” è lo strumento che più si adatta a “comprendere la relazione di complicità/estraneità che le donne mostrano sul lavoro rispetto alle logiche del mercato e del patriarcato”. Equilibriste come “sintesi di un sentire che non contrappone più ambito privato e pubblico dell’esistenza” è la parola chiave di Cristina Bracchi che dà il titolo al workshop curato insieme a Laura Fortini. Curiosità ha suscitato in me la chicken literature, cui Bracchi fa riferimento, una forma di romanzo rosa ambientato sovente nei luoghi di lavoro in cui le donne sono padrone di se stesse e accedono alla felicità attraverso il coronamento del sogno d’amore.
Un altro genere di conflitto che non comporti l’azzeramento dell’avversario, secondo la visione binaria maschile, ma come “forma di potenziamento reciproco” che comporta invece uno “spostamento di visione” dei soggetti in campo, è quanto auspicato dalle partecipanti al workshop Che genere di conflitto: imparare da Pentesilea, coordinato da chi scrive. Conflitto da “cum-fligere”, “composizione armonica tra scontro e riconoscimento” (Farnetti) “a partire dalla consapevolezza della reciproca condizione di precarietà” (De Paoli) che comporta uno “spostamento in uno spazio di parola che governano le donne” (Musetti). Ma anche uno spostamento fisico, come succede alle personagge dei romanzi proposti – Una giornalista embedded in Siria; un maresciallo degli alpini donna in missione in Afganistan; una mediatrice culturale per minori non accompagnati a Zarzis, nel sud della Tunisia e una ex terrorista delle brigate Rosse in un paesino della Calabria tra Scilla e Cariddi – che si spostano in “un altrove”, un luogo marginale, di confine, dove imparano “la lingua dell’altro”, del nemico, per dare voce al conflitto interiore che le agita e risultare “meno estranee a se stesse”.
Una difficoltà tutta femminile è risultata riconoscere il conflitto con la madre “come prezzo da pagare per sentirsi accettata prima come figlia e poi come donna nella società” (Caleca).
Del conflitto madre-figlia racconta Roberta Mazzanti che sceglie la parola chiave vulnerabilità “come forza motrice del movimento a spirale tra somiglianza e differenza … tra vicinanza fusionale e fuga precipitosa”, analizzato attraverso i romanzi di Elena Ferrante, Annie Ernaux, Rosa Matteucci, le poesie di Silvia Plath e Marge Piercy. Per approdare alla fine al riconoscimento della “reciproca vulnerabilità” nei testi di Ferrante “attraverso la messa in scena del corpo [della madre] sofferente o menomato non più agente di onnipotenza”, che spalanca alla morte. Un passaggio che solo “il distacco che la parola letteraria offre” può sostenere.
A cura di Giuliana Misserville, Rita Svandrlik, Laura Marzi, “SILlabario. Conflitti e rivoluzioni di femminismi e letteratura”, Iacobelli 2022
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Gisella Modica

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