Nel dicembre 2019, durante il convegno biennale della SIL dedicato al lavoro delle donne, si tenne un workshop sulla rappresentazione letteraria, e non solo, della migrazione femminile. (Per saperne di più sul convegno, e scaricare l’ebook con gli atti dei workshop clicca qui). Coordinava uno dei workshop Lidia Curti, una donna straordinaria che purtroppo abbiamo perso lo scorso anno.
Fra i numerosi interventi, una riflessione di Chiara Ingrao sulle sfide da lei affrontate nella scrittura del suo romanzo “Migrante per sempre”, ispirato ad una storia vera di emigrazione italiana ma anche di immigrazione in Italia. Quando abbiamo deciso di pubblicare questo testo su Letterate Magazine, Chiara ci ha proposto di allargare lo sguardo anche ad altre storie di donne migranti. La scelta che abbiamo fatto non pretende di essere esaustiva, solo di sollecitare curiosità e spunti di riflessione. Vi proporremo sia vicende di migrazione dall’Italia verso altri paesi, in diversi luoghi e diverse epoche, sia storie di immigrazione in Italia da vari angoli del mondo: dalla Somalia alla Romania, dalla Bosnia alla Palestina, dall’India agli Stati Uniti, all’Argentina, al Belgio.
Trovare amore e lavoro in Svezia
«Sono partita dall’Italia con la convinzione di essere già straniera, già sradicata da un pezzo ma non avevo fatto i conti con la perdita della mia lingua madre. Potevo sopravvivere senza patria ma senza lingua madre ero morta»
Di Annalisa Marinelli
Anche tra la mia personale storia di emigrazione e quella di Giovanna, la protagonista del mio romanzo “Autopsia di una felicità mancata”, corre un confine. La scrittura è quel confine e segna l’atto finale dell’espatrio da me stessa verso una nuova versione di me. A questo mi è servito scrivere: a elaborare questo cambiamento di stato seguito a un cambiamento di Stato.
Non mi riconoscevo più; la mia emigrazione (mi sono trasferita in Svezia nel 2014) non origina dalla povertà di mezzi ma da quella di riconoscimento (nel senso di riconoscersi) che si è approfondita nel corso di molti anni di giri a vuoto in Italia, in cerca del mio posto. Mi ero persa. Quarantaquattro anni divisi tra cinque città diverse, in un estraniamento progressivo, sono serviti a maturare il coraggio di partire. La paura di varcare il confine italiano era paura di sentirmi straniera per sempre; poi un giorno, un’amica di quelle che mi conosce da una vita mi ha chiesto: «ma perché, qui ormai non ti senti comunque straniera?». È stata la formula magica.
Sono partita dunque con la convinzione di essere già straniera, già sradicata da un pezzo ma non avevo fatto i conti con la perdita della mia lingua madre. Potevo sopravvivere senza patria ma senza lingua madre ero morta. L’idea dell’autopsia viene da lì, da quell’esperienza di morte dei primi anni in Svezia e il confine della scrittura è quel limes oltre il quale esiste una nuova Annalisa; la lingua italiana è la madre da cui mi sono rigenerata, il filo della scrittura, il cordone ombelicale che mi ha nutrita per nove mesi, la durata dell’elaborazione del manoscritto.
Il tema del varcare i confini permea tutto il romanzo Autopsia di una felicità mancata.
Quando la protagonista, Giovanna, attraversa la frontiera politica tra Italia e Svezia non varca solo il confine tra due codici linguistici e le relative culture che li generano. L’età di Giovanna è anch’essa confine tra due stagioni della vita e la sua vicenda prende la forma di un percorso iniziatico innescato dall’amore. I contorni di tutto ciò che aveva appreso come istruzione e pratica di vita riguardo alle relazioni sentimentali e sociali si frantumano e l’esplosione la proietta oltre il confine dell’età matura verso un possibile nuovo inizio, una rinascita verso l’età libera e consapevole. Autopsia è un romanzo di de-formazione nel quale i confini delle umane convenzioni, specialmente quelle che pretendono di normare l’amore, si disfano.
Nel disfacimento delle frontiere non c’è solo perdita, si aprono nuovi orizzonti di senso.
Che rapporto c’è tra bisogni, sicurezza e libertà? È la domanda suggerita dal confronto onesto e senza sconti tra cultura nordica e cultura mediterranea; tra mito dell’autosufficienza e pratica della relazione.
Che ruolo gioca l’apprendimento di una nuova lingua nell’innescarsi di un amore che è per eccellenza “incontro con lo straniero”? Alla babele delle lingue si aggiunge la complicazione dei linguaggi digitali all’epoca delle chat, canale di comunicazione dei due amanti.
A quali consapevolezze si può accedere se il potere della parola si azzera? Con la lingua madre completamente disabilitata, il corpo di Giovanna prende il sopravvento. Se il senso maggiormente rappresentato nel romanzo è il tatto, questo non è dovuto solo alla carica erotica della vicenda di Giovanna col giovane svedese. Ogni contatto è infatti un confine, un concetto bifronte che separa e unisce insieme perché è ciò che due o più hanno in comune. Sul margine della lingua i due amanti s’incontrano, quel margine li unisce e li separa.
Lingue e linguaggi, razionalità e follia d’amore sono oggetto dell’indagine autoptica guidata da Arianna, l’anatomopatologa appassionata di letteratura che tiene il filo della vicenda di Giovanna e la guida fuori dal labirinto esistenziale in cui si è cacciata. Il nodo è proprio la parola, strumento principe del pensiero razionale. Giovanna e Arianna affrontano insieme la vertigine del cammino sul crinale tra razionalità e follia mettendo in scena un’autopsia senza cadavere, un’indagine sui sentimenti svolta utilizzando gli strumenti della biblioteca anziché quelli consueti del gabinetto medico legale. Per condurre questo esperimento «occorre scassinare le grammatiche, mescolare i generi, confondere le lingue, scandalizzare il logos. È necessario trovare parole d’amore per parlare d’amore.»
Per questo motivo la scrittura stessa del romanzo non riesce a stare composta dentro i confini tra i generi letterari affiancando uno stile più emozionale e poetico a brani “sapienti” che rinviano alla saggistica. Fanno da contrappunto citazioni di romanzi, inserti di poesie e canzoni popolari a confondere anche il confine di gerarchia tra le arti. È la strategia narrativa che consente di aprire i cassetti del nostro edificio antropologico attraverso le chiavi del delirio amoroso per metterli a soqquadro. Perché l’amore rappresenta la sola forza in grado di manomettere ogni dispositivo di controllo e superare tutti i confini simultaneamente.
La sorellanza che si sviluppa tra Giovanna e Arianna nel corso di questo esperimento autoptico può infine essere vista come la ricucitura di un confine interiore, il percorso di una donna che finalmente decide di far dialogare due parti di sé rimettendosi al mondo.
(Il finale del mio romanzo apre verso un ultimo inaspettato sconfinamento che non si può rivelare senza rischiare di privare il lettore di una sorpresa. È una questione di tatto).
Annalisa Marinelli, “Autopsia di una felicità mancata”, Iacobelli, 2021
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Annalisa Marinelli
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