Cambiare corpo

Gabriella Musetti, 14 marzo 2022

Il tema della transessualità è presente nella produzione narrativa e saggistica femminista, in quanto uno dei temi dirimenti dell’oggi. E un tema dirompente, per certi versi, lo è come gioco letterario, che si vuole collocare nella tradizione recente di scritture di donne, pensiamo a Orlando, di Virginia Woolf, o, per l’Italia, a Giò Stajano (1931-2011), che scrisse numerosi libri di narrativa e poesia scardinando moduli compositivi e prospettive, in piani in cui il maschile e il femminile svelano incroci e con-fusioni oltre i generi, con ironia e intelligenza (Roma capovolta, Meglio l’uovo oggi, Le signore sirene, Pubblici scandali e private virtù. Dalla Dolce vita al convento).

Giovanna Cristina Vivinetto è una giovane poeta transessuale, che ha esordito con un libro nel 2018 (Dolore minimo) sulla sua esperienza di cambiamento di genere, fonte di numerose polemiche e attacchi nella estate successiva, diventando, suo malgrado, un “caso editoriale” assai dibattuto, dove sembrava prevalere, a detta di molti, il personaggio sulla poesia.

L’autrice narra la propria vicenda a partire da una dissociazione, due nature, due soggetti in convivenza precaria, che si guardano sospettosamente e curiosamente attraverso una esplorazione dell’altro/a nel sé. La conoscenza lenta e reciproca è una conquista e una “penitenza” che è anche perdita e la “malinconia” diventa il segno del passaggio: dal dolore alla malinconia. «fu scelta, fu attesa, fu penitenza:/ fu esporsi al mondo per abolirlo/ pazientemente riabilitarlo», sono parole chiave perché indicano il tono del percorso, senza tacere nulla della crudezza del transito, ma collocandolo in una più matura visione della realtà. Una esperienza in cui l’autrice diviene madre di sé stessa: «amatissima me/ che mi è nata dentro quando/ tutto il resto poteva mancare».

Lo sguardo passa da private situazioni dolorose e tumulti laceranti a un collocarsi fuori di sé, consegnarsi al “corpo universale”, il mondo, la natura stessa. La scelta è quella di guardare i particolari minimi che sfuggono a uno sguardo comune, un travaglio durato diciannove anni che offre la possibilità di maturare insieme al soggetto che nasce, di accoglierlo nella sua natura.

Vivinetto osserva con trasalimento i cambiamenti del corpo come in una infanzia non vissuta o vissuta tardivamente. Alcuni testi sono costruiti a flash di immagini, come una scena smontata nei singoli dettagli in successione: punti minimi che mutano, una realtà spezzata nei sui frammenti disaggregati, che l’autrice osserva con occhio attento e scrupoloso. Mettono a nudo un gioco duro e sofferto ma anche un gesto di orgoglio e consapevolezza, una raffinata rappresentazione che scansiona i versi e lega il ritmo delle parole a quello della visione. L’osservazione dei passaggi di identità e di desiderio che il gioco di prospettive porta nel suo ambiguo svolgimento mette in forma verbale transiti di soggettività che svelano spostamenti imprevisti e mescolamento di ruoli, di generi. C’è una ricerca che ha a che fare con la vita vera, sottratta a forme di ideologizzazione morale: mettere in parola l’indicibile, il lato “nascosto” del desiderio, quella esperienza di completezza mutevole, quella voragine dirompente e plurale che si vuole traslare sul piano della parola. Sembrerebbe un progetto impossibile, eppure, ricordiamo, dal tema dell’ambiguità sessuale nasce la grande poesia, basti pensare a Elsa Morante e Anna Maria Ortese.

La raccolta poetica più recente di Giovanna Cristina Vivinetto, Dove non siamo stati, riprende il tema della transizione identitaria, dell’assenza, del vuoto e della soglia, del cambiamento. Ma allarga queste tematiche, ne fa questione più generale, dialogica, interroga le esistenze. Il libro si divide in tre parti: “La misura dello strappo”, “Il paniere sul balcone”, “Ciuriddia”, più una poesia lunga che dà il titolo al volume stesso. La prima sezione è quasi una continuazione di Dolore minimo: in un dialogo serrato tra due voci diverse e compresenti, che a volte entrano in conflitto tra loro, la poeta si interroga su che cosa, su chi, è andato perduto, è assente nella identità dell’oggi. Si poteva in qualche modo recuperare quest’assenza? Come sarebbe oggi?

Non è soltanto il dato biografico a emergere, Vivinetto pone sotto osservazione quanto di ogni persona nel corso della vita viene perduto o si trasforma. Si interroga sulle vite parallele e sulle transizioni che continuamente accadono nelle soggettività: «…sapremo, anche se in noi due/ soltanto, che qui qualcuno è stato/ E solo i muri ora ne contengono il mistero». La nostalgia fa rivivere i fantasmi, ma tutti noi continuamente ci rinnoviamo nel nostro percorso di vita, siamo dei noi plurali, più che dei soggetti singolari e univoci.

La seconda sezione, molto intima e suggestiva, si pone in dialogo con una persona cara scomparsa, la nonna, raffigurata nella quotidianità e accompagnata verso una assenza definitiva. Anche qui è presentato un rapporto dialogico con un vuoto, che viene interrogato. Attraverso l’incrocio di presente e ricordi si parla anche della malattia, l’Alzheimer, che consegna i malati all’assenza della parola, raddoppiando il dolore della perdita. Il dialogo tra un io narrante e un tu poetico configura una scena domestica e parla del dolore. Ma il dolore è già frutto di un pensiero, di una riflessione a posteriori. «Con le dita a uncino impugnavi la biro,/ incidevi la carta come a volere/ piantare un seme, squarciare il bianco/ per trovarci il bene, da qualche parte». È già lo sgranarsi della lingua, smottamenti incontrollabili e persistenti che conducono allo smarrimento delle tracce di una vita, ma il recupero può avvenire attraverso il racconto, nella lingua dell’altro, dell’altra. La perdita progressiva della parola è in qualche modo restituita dalla poesia.

La terza parte della raccolta è una forma di lungo colloquio con il luogo dell’infanzia – Floridia – (Ciuriddia), dove l’autrice è vissuta, e con l’infanzia stessa. I ricordi, le leggende, i racconti truci, il tempo passato che torna nelle immagini e nelle parole dialettali, i colori intensi, le case, i ruderi, le persone, emergono dalle pagine quasi per comprendere quanto e come siamo stati tutti noi nelle storie degli altri, fantasmi di fantasmi. È ancora un paesaggio che mescola realtà e sogno, memoria e nostalgia per qualcosa di perduto, ma con una dimensione di recupero del tempo e dello spazio nell’atto del raccontare: «i luoghi esistevano perché c’erano le storie».  L’uso del dialetto si alterna all’italiano e ne diviene un contraltare, la lingua necessaria per raccontare quel preciso luogo e tempo stagliato nella mente. In questo habitat della memoria si mescolano le figure che danno corpo ai luoghi, scandiscono la distanza ma anche l’appartenenza irrimediabile. «A Floridia c’erano giornate di grande sonno. /Andavano i bambini a letto e si alzavano/ grandi – l’età cresciuta come nei vasi la gramigna -,/ gli anziani chiudevano gli occhi e le vie/ crepitavano come portoni chiusi».

È una scrittura visionaria e affettiva, ma anche consapevole di una distanza irrecuperabile e di un addio, per andare oltre. La poesia finale, Dove non siamo stati, scritta in dieci ottave di versi con alta frequenza di endecasillabi, oltre a dare il titolo al volume, ne fornisce anche la chiave di lettura. È la domanda iniziale sull’assenza che trova qui un suo compimento: dove non siamo stati, in realtà, siamo presenti, nei ricordi, nelle parole degli altri, delle altre. Il vuoto che sembrava non avere mai avuto vita, è il luogo dove siamo stati da sempre.

 

Giovanna C. Vivinetto, Dolore minimo, Interlinea, Novara 2018.

Giovanna C. Vivinetto, Dove non siamo stati, BUR Rizzoli, Milano 2020.

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Gabriella Musetti

Gabriella Musetti Nata a Genova, vive a Trieste. E’ socia della Società Italiana delle Letterate. Ha fondato, insieme ad altre, la casa editrice Vita Activa Nuova (www.vaneditrice.it), di cui è direttrice editoriale Collabora a riviste letterarie. Ha curato numerose pubblicazioni narrative e saggistiche tra cui: Sconfinamenti. Confini passaggi soglie nella scrittura delle donne (2008); Guida sentimentale di Trieste (2014), Dice Alice (2015), Oltre le parole. Scrittrici triestine del primo Novecento (2016), 15 racconti + 5, scritti a Trieste e luoghi del nord est (2019). In poesia ha pubblicato: Mie care (2002), Obliquo resta il tempo (2005); A chi di dovere (2007), Premio Senigallia; Beli Andjeo (2009), Le sorelle (2013), La manutenzione dei sentimenti (2015), Un buon uso della vita (2021).

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