«La mia speranza risiede nel potere trasformativo dei mostri, dei diversi, degli anomali – e il valore certo su cui contare resta l’etica femminista del divenire», scrive Rosi Braidotti in Madri, mostri, macchine, appena rieditato. L’efficacia di un pensiero che mescola scienza e credenze, filosofia ed esperienza
Di Barbara Mapelli
Rileggo Mostri Madri Macchine a distanza di 25 anni, inizialmente quasi più curiosa delle mie reazioni a questa seconda lettura così distanziata nel tempo: la prima mi aveva letteralmente assorbita e, al tempo stesso, stupita. Ma poi, naturalmente, il testo mi ha di nuovo catturato e mi muovo tra le pagine con un procedere che mi segnala senza alcun dubbio che lì trovo – anzi ritrovo – pezzi di ciò che cerco. Avvio dunque questa mia scrittura con un’attenzione iniziale centrata sulla lettrice, io, convinta che in realtà ogni lettura de-forma (qui si parla di mostri e quindi questa assunzione di de-formità appare assai coerente) il libro rispetto alle intenzioni di chi lo ha scritto ed è forse onesto segnalare subito la propria parzialità, che non è solo di comprensione, ma è costituita dai sentimenti che muovono le storie e le esperienze di chi legge. Comunque, il merito di questo nomadismo, ispirato da Braidotti, resta del libro.
Inizio la lettura dalla fine, dalla postfazione di Anna Maria Crispino, perché cerco, e in realtà trovo, una motivazione all’attrazione che provo e ho provato nella lettura: l’efficacia, così scrive Crispino, di un procedere del pensiero, e del linguaggio, della post-modernità, che mescola i saperi e l’alto e il basso delle conoscenze, scienze e credenze, inevitabilmente intrecciate in questo discorso di un testo che parla di mostri, di maternità, di macchine che possono divenire sintesi, unione, tramite e trasformazione, sia di mostri che di madri.
Trovo poi, sempre nella postfazione di Crispino, un’altra osservazione che condivido e che caratterizza il registro del procedere della scrittura di Braidotti: lo stile nomadico che stabilisce connessioni su terreni estesissimi del sapere, attingendo a fonti, storie, materiali differenti, proponendo percorsi che stupiscono perché non si muovono mai nella direzione che ci si potrebbe aspettare, ma deviano, circolano, e – questo è lo straordinario valore del testo e degli altri libri di Braidotti – tornano a riprendere sempre saldamente il filo del discorso senza che vi sia in chi legge confusione. Lo stile nomadico diviene stile di lettura, si arriva al punto di pensare che non se ne potrebbe fare a meno.
Crispino mi ha confermato gli strumenti che già avevo, forse non sapendolo del tutto, e quindi procedo, nomade, tralasciando molto dei contenuti, perché voglio parlare soprattutto di ciò che ha destato in me sensibilità particolari. D’altronde non di tutto si può parlare in presenza di un testo così pieno di elementi disparati ma anche di interpretazioni dell’autrice.
Nel secondo testo del volume, che ha lo stesso titolo del libro, Braidotti definisce subito la configurazione di idee che propone come frutto della sua posizione rizosomatica, mista di pensiero e vita, esperienze e riflessioni sui pensieri. Una vera festa, devo dire, per me che leggo. Mi sento assolta da ogni forma di tradimento del testo, visto che in esso posso mettere anche le mie di emozioni, che certo non sono mancate nella lettura. Ma il rigore e la necessità dello scrivere vengono immediatamente richiamati dall’autrice: è urgente, necessario impegnare il nostro pensiero su questi temi perché ne va del futuro delle donne nel dibattito sulle nuove tecniche di riproduzione.
Questo scriveva Braidotti molti anni fa e si sta avverando tutto. Non voglio parlare di un discorso profetico, non mi piace il termine, direi che è la commistione virtuosa di pensiero e sentimenti, sensibilità che portano a vedere con chiarezza quello che avviene e a dargli corpo e sostanza con una ricerca minuziosa dei significati rinvenibili nella storia delle idee, delle credenze popolari, dei miti e della scienza. D’altronde il binomio mostro-madre presenta molti elementi in comune e soprattutto l’ambiguità dei sentimenti che suscita, in particolare tra gli uomini. Il mostro da sempre rappresenta un paradosso: è orribile e meraviglioso, abbietto e degno di venerazione; così è fin dall’antichità e così arriva sui tavoli anatomici delle ricerche mediche e scientifiche, e alle fiere popolari del XIX secolo.
Il mostro è colui/colei che rappresenta la differenza, è l’altro e le donne, e in particolare le donne madri, sono, sono state e continuano ad essere l’Altro per eccellenza, anch’esse fonte di infinite paure e ammirazione, attrazione per gli uomini. Invidia per il potere di riprodurre che neppure le teorie aristoteliche e le altre a seguire hanno potuto negare fino in fondo lasciando intatto il terrore dell’uomo, insieme al perpetuo desiderio di essere in grado di mettere al mondo la vita. Un perpetuarsi di quell’associazione, messa in luce in particolare dalla psicoanalisi, tra maternità e concepimento dei mostri che «sono talvolta versioni estreme di quell’ansia profondamente radicata che circonda il tema del potere riproduttivo delle donne in una società patriarcale» (p. 87).
E, scrive sempre Braidotti, il corpo del mostro ma anche il corpo materno assommano nei paradossi che rappresentano anche quello della conoscenza perché nelle interpretazioni incrociano il fantasmatico con il discorso scientifico e qualche riga più sotto l’autrice afferma, non per prima certamente, ma con la forza di quanto sta dimostrando questo accostamento tra corpo mostruoso e corpo materno, quanto l’immaginazione sia componente fondamentale sia della mostruosità che della maternità e procede elencando come la nascita dei mostri sia stata collegata nel tempo con l’immaginazione e le trasgressioni della futura madre.
Immaginare cose orrende o violente, eccedere nelle pratiche sessuali o nel cibo, guardare animali o esseri deformi crea un legame con il feto che ne viene colpito e mutato nel corpo. Interessante anche la teoria, che si perpetua soprattutto nei secoli XVIII e XIX, relativa alla lettura per le donne incinte. Leggere è una pratica che eccita l’immaginazione, meglio dedicarsi ad altre attività più innocue. Il binomio madre che partorisce il mostro si sposa con le teorie educative dell’epoca, conferma la pedagogia dell’ignoranza** per le donne, poiché il sapere può divenire una fonte di immaginazione malata e produttrice di mostri.
Il discorso sulle deformità si lega inevitabilmente con quello razzista e qui si presenta ancora un intreccio forte, quasi irresolubile, tra credenze, discorsi scientifici e politiche di potere, che porterà agli abomini che conosciamo: sono i neri, a metà tra uomini e scimmie, ma anche gli ebrei tra le etnie più colpite. E gli indigeni dell’America appena scoperta, esibiti nelle fiere, nei baracconi dei circhi.
Nelle ultime pagine del secondo saggio Braidotti riassume alcune conclusioni della sua ricerca, delle sue riflessioni.
«Il mostro è un processo senza un oggetto stabile: è un agente della conoscenza per il fatto stesso che la sua figurazione è in circuito, a volte nella forma del più irrazionale non-oggetto. È tanto sfuggente da aver fatto innervosire gli Enciclopedisti eppure, in un perfetto ciclo nomadico di ripetizioni, l’Altro mostruoso continua a emergere sulla scena discorsiva. Per queste sue caratteristiche esso continua a infestare non solo la nostra immaginazione ma anche la nostra pretesa conoscenza scientifica.
La questione è molto semplice: la differenza non si toglierà di mezzo. E poiché questo materiale incarnato di differenza si muove, scorre, cambia, poiché esso provoca discorsi senza neanche riuscire a starci pienamente dentro; poiché ci sfugge proprio quando più turba i nostri sogni ebbene non riusciremo mai a indovinare da dove verrà fuori. E proprio perché non siamo in grado di saperlo, il mostro ci catturerà. Sempre. […] C’è anche un versante positivo della nuova interconnessione tra madri, mostri, macchine e questo versante ha a che fare con l’abbandono di ogni definizione essenzialista della femminilità e persino della maternità». (pp.110, 111)
Il mostro abita e abiterà in varie forme le nostre menti e immaginari: è il doppio – aggiungo io – che ha cupamente segnato il risvolto funereo delle prime indagini sull’inconscio, che ha invaso la letteratura maschile, soprattutto ottocentesca ma non solo. Il doppio che continua tuttora ad ammiccare in ogni luogo del conoscere, alto o basso che sia.
Ma, purtroppo, non mi sembra si sia avverata la previsione dell’ultima frase citata. L’essenzialismo legato alla femminilità e lo schematismo, riduzione di pensiero che produce, non solo resta vivace nel pensiero maschile, forse con qualche dubbio in più, ma risorge anche in alcune parti del femminismo che cerca di prendere le distanze da transiti che giudica corrompere la purezza dell’essere (e non diventare) donne.
Ma riprendo ora alcuni passaggi del primo dei saggi del libro, dal titolo Teratologie cyber, dove si trovano chiarimenti su cui già mi sono soffermata e alcuni stimoli del tutto nuovi. Importante mi sembra la riflessione che potrei chiamare sulla necessità del mostro: tutto ciò che è difforme dalla normalità serve a confermarla, a renderne più solide le basi affermative e di potere. In netto contrasto con la frase, citata da Braidotti, di Canguilhem, maestro di Foucault e con lui fondatore del discorso teorico sui temi dei mostri: «La normalità è solo il grado zero della mostruosità». Un’affermazione che segnala la misurabilità della distanza tra mostro e non mostro, che mette in campo una contiguità che sembra azzerare la differenza essenzialista, sottrae le basi alla contrapposizione che serve per stabilire la norma, la superiorità del soggetto dominante.
Inizia, scrive Braidotti, il declino del pensiero binario oppositivo, bene-male, libertà-tirannia, ancora evocato nella propaganda americana dell’amministrazione Bush per giustificare la guerra in Iraq. Il binarismo è stato il grande limite, la regola imposta al nostro pensare, agire, giudicare che ha falsato le possibilità di prese di posizioni personali e politiche. Si inizia a scoprire che il nemico non è fuori, o non solo fuori, ma è dentro, in ognuno, è presente nella realtà collettiva da cui ci sentiamo rappresentati e rappresentate. Si erode il muro artificiale eretto tra chi è nel giusto e chi no, tra noi e loro. Ma forse questa è un’affermazione ottimista, forse, ad essere fiduciosi, la si può definire una tendenza, che non può però negare la mentalità binaria in cui siamo stati formati e formate.
Ma, osserva ancora l’autrice, vi è indubbiamente un’apertura, giocosa, ironica, al mostro nelle culture giovanili, una relazione empatica con i freaks, e anche le femministe non si sottraggono, anzi coltivano queste tendenze con una produzione letteraria fiorente. Una sorta di amichevolezza che supera il monstrum, orrore e meraviglia, lo avvicina. Si adotta il registro parodico, che si applica anche alle derive moraliste che sempre hanno accompagnato l’immagine del mostro, la cui deformità diviene abiezione, depravazione e si allarga sul terreno della sessualità, riprendendo anche i temi antichi e le figure dell’ermafrodito, dell’androgino, dello sfumare delle distinzioni sessuali, che del mostro hanno le caratteristiche di colpa e attrazione.
Qui, a mio parere, occorre aggiungere allo scritto di Braidotti quello che è accaduto dopo gli anni Novanta, epoca cui risale il saggio. Il dibattito sulla fluidità sessuale, la visibilità delle transizioni di genere, la crescita del parodismo spettacolare delle drag, queen o king, hanno arricchito e trasformato il discorso che, però, credo trovi un aggancio solido e nuove possibilità di sviluppo riflessivo in quanto l’autrice propone. In particolare trovo chiarissimo questo legame, questa continuità ma anche eredità col pensiero e lo scritto di Braidotti, in quello che lei afferma essere il modello del pensiero e della teoria critica nomade.
«Un modello di teoria critica nomadico o rizomatico mira a dare conto dei processi, non di concetti o punti fissi. […] La teoria oggi si dà ‘in transito’, spostando, passando attraverso, creando connessioni lì dove gli eventi erano in precedenza dis-connessi o apparentemente privi di relazione, oppure dove sembrava che non ci fosse ‘nulla da vedere’. Questa modalità consente che ci siano anche discontinuità e contraddizioni interne nella propria posizione. Non si tratta di errori o mancanze; queste discrepanze interne testimoniano della priorità del movimento del pensiero, o processo, sul contenuto propositivo dei concetti trattati. L’essere in transito, in movimento, la dis-locazione, implicano inoltre lo spostamento della pratica teorica verso l’invenzione di nuovi modi di mettere in relazione, costruire sentieri di collegamento tra nozioni». (p. 23)
Si tratta di affermazioni e della chiara proposizione di un metodo cui Rosi Braidotti è restata fedele per tutta la sua successiva produzione. Metodi e ispirazioni di un procedere più libero del pensiero per tutte noi, credo, senza i legacci di presunte coerenze, tesi da dimostrare a tutti i costi, a partire da ipotesi che devono trovare conferme, vincoli disciplinari e timori di invasione di terrenti altrui, battaglie ideologiche su stretti margini di difese territoriali. Una modalità del pensare e procedere riflessivo che ha senz’altro anche un significato morale e l’autrice lo afferma esplicitamente e credo che per questo, e molto altro, dobbiamo esserle grate.
«La mia speranza risiede nel potere trasformativo dei mostri, dei diversi, degli anomali – e il valore certo su cui contare resta l’etica femminista del divenire» (p. 10).
Rosi Braidotti, “Madri, mostri, macchine”, traduzione Anna Maria Crispino, Castelvecchi, Roma 2021
** Così è stata definita dalla ricerca storica di pedagogiste femministe la formazione femminile, che ha sempre teso a educare le donne con forme minori di sapere, in modo da lasciare intocca la, presunta, superiorità degli uomini. Impagabili a questo proposito, spostandoci in campo letterario, alcune pagine di Jane Austen.
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Barbara Mapelli
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