«Ma Lei lo sa: quel che in “Paragone” si pubblica di narrativo deve innanzi tutto persuadere Anna Banti che, lo ammetto, prende molto sul serio le cose della letteratura e della vita».
Le mosche d’oro è tra i romanzi meno noti di Anna Banti, eppure quando venne pubblicato per la prima volta, nel 1962 da Mondadori, il successo fu tale da guadagnarsi la candidatura al Premio Strega di quello stesso anno. Con il passare del tempo i più lo hanno dimenticato – così come molti altri romanzi della letterata fiorentina – tenendo a mente i di certo più noti Artemisia e Noi credevamo, quest’ultimo divenuto famoso grazie alla pellicola cinematografica del 2010 di Mario Martone. Le mosche d’oro è tornato a far parlare di sé – e della sua autrice – soltanto lo scorso anno quando si è ritrovato al centro di una meravigliosa operazione editoriale. “Le mosche d’oro” infatti è il nome scelto per l’ultima collana di Giulio Perrone Editore, ideata e diretta da tre scrittrici – Giulia Caminito, Viola Lo Moro e Nadia Terranova – che hanno deciso di far raccontare le donne dalle donne. Le mosche sono personalità perlopiù dimenticate, che non hanno mai ricevuto l’attenzione meritata, a loro modo perturbanti, che hanno lasciato il segno. Anna Banti oltre a essere madre di questo romanzo, è stata una mosca d’oro a sua volta. Molto nota come letterata e scrittrice – ma non sempre apprezzata –, ha lavorato a lungo come traduttrice oltre che come editor e scout di giovani talenti letterari per la rivista Paragone, fondata nel 1950 insieme al maestro, e poi marito, Roberto Longhi.
Emilio Cecchi fu il primo recensore dell’esordio letterario di Banti, Itinerario di Paolina, e, oltre a sottolinearne un giudizio più che positivo, aggiunse che l’autrice «peccava per una eccessiva intelligenza, il che forse la rendeva impietosa». A lei quell’aggettivo proprio non andava giù, così durante una puntata del programma radiofonico RAI “Occasioni” del 1977, tentò di spiegare come quell’impietosa l’aveva profondamente segnata. Si rivedeva piuttosto tra le donne senza tempo della Ballade des dames du temps jadis di François Villon. «Mais où sont les neiges d’antan» (Dove sono le nevi di un tempo?) recita durante il programma: un chiaro segnale del suo credo personale e letterario e della volontà di distinguersi.
Anna Banti, pseudonimo di Lucia Lopresti, nacque a Firenze il 27 giugno del 1895. Riceve dai genitori un’educazione improntata sulla libertà d’azione e sulla conoscenza. Trascorre lunghi pomeriggi con suo padre conversando in francese e discutendo di quegli autori che non sapeva sarebbero diventati i suoi modelli narrativi: Honoré de Balzac, Marcel Proust ma soprattutto Alessandro Manzoni.
Nel 1905 la famiglia Lopresti si trasferisce a Roma, dove la giovane frequenta il liceo Tasso. Qui, nel 1914, approccia per la prima volta a una nuova materia, all’epoca sperimentale, la storia dell’arte, e conosce Roberto Longhi. Testimonianza di quegli anni sono le pagine del volume Breve ma veridica storia della pittura italiana (ultima edizione Abscondita 2013): pubblicato per la prima volta a Firenze nel 1961, si tratta di un volumetto che racchiude le lezioni preparate da Longhi per gli alunni del liceo dove il giovane storico dell’arte aveva ottenuto una cattedra.
Si laurea in Lettere con una tesi su Marco Boschini, autore veneziano di un poema in quartine, la Carta del navegar pitoresco – ancora oggi al centro dei programmi universitari di Letteratura artistica. Il suo relatore fu uno dei padri della critica d’arte: Adolfo Venturi. Grazie all’appoggio di quest’ultimo nel 1919 viene pubblicato su L’Arte il suo primo saggio – sempre dedicato a Boschini – lodato da Benedetto Croce su La Critica. Il suo ultimo contributo risale al 1929, quando Banti decise di lasciare la storia dell’arte per approdare alla narrativa. Una scelta professionale sofferta e solo in apparenza lontana dalla vita privata: nel 1924, infatti, aveva sposato Roberto Longhi. Banti era convinta di essere una brava storica dell’arte ma non geniale quanto il marito. Una convinzione assolutamente contestabile dato che fu lei per prima a intercettare e capire un pittore come Lorenzo Lotto che, fino a quel momento, si era guadagnato appena due righe nei manuali scolastici. A lui Banti ha dedicato tra le più belle biografie d’arte mai scritte, e non stupisce se uno studioso del calibro di Bernard Berenson ebbe l’ardire di chiedere a Longhi: «Cosa si prova a vivere con un genio?»
Da questo momento in poi la letterata trovò il suo modo di unire arte, letteratura e ricerca storica in una crasi perfetta. Il suo primo romanzo, Itinerario di Paolina, esce nel 1937, seguito nel 1940 da una raccolta di racconti intitolata Il coraggio delle donne.
Negli anni del secondo conflitto mondiale Firenze fu occupata a lungo dai tedeschi e la coppia decise di trasferirsi a casa di un amico in via Guicciardini. Portarono con loro poche cose tra cui una scatola contenente il manoscritto di Artemisia e la prima stesura di un romanzo che sarebbe poi diventato Il bastardo. Per fermare l’avanzata degli Alleati la zona di Ponte Vecchio fu completamente minata e l’intero quartiere distrutto. La scatola dei manoscritti finì sotto le macerie, perduta per sempre. Furono mesi di grande sconforto dai quali però Anna seppe venir fuori con coraggio, decise così di riprendere in mano il progetto di Artemisia, il suo capolavoro. Stavolta non si trattava di una biografia romanzata – come nella prima stesura – ma di qualcosa di molto più complesso che coinvolgeva l’autrice in prima persona: un dialogo tra lei stessa e il fantasma della pittrice Artemisia Gentileschi.
«Vedranno chi è Artemisia», scrive lei, e non è possibile fare a meno di chiedersi se quella sfida fosse della pittrice o della scrittrice. O di entrambe. In ogni caso, come ha sottolineato la storica dell’arte Mina Gregori, il femminismo di Banti è quello di Artemisia: le donne hanno il dovere di urlare il loro talento, il loro valore, e di dimostrarlo attraverso il lavoro. Un credo che si è poi trasformato in una «letteratura molto umana e molto bella». Ma per capire davvero la poetica bantiana, oltre che ai romanzi, bisogna guardare ai racconti pubblicati su riviste o in antologie. In essi si ritrovano tutti i temi più cari all’autrice: la condizione delle donne e il loro diritto alla dignità, la parità di genere, l’ingegno femminile sottovalutato e bistrattato, e infine la solitudine intesa come prezzo ricorrente della libertà.
Intanto nel 1939, poco prima della guerra, Banti e Longhi avevano fondato Paragone, punto di approdo di un sodalizio non solo personale, ma soprattutto intellettuale. Longhi curava la sezione dedicata alla storia dell’arte, lei quella di letteratura. Paragone nasceva dalla convinzione che la critica d’arte e la critica letteraria fossero assolutamente paritetiche e che esse non dovessero andare avanti fiancheggiandosi ma compenetrandosi. Longhi all’epoca affermò che:
«La vita di Paragone è una vita molto semplice e molto ritirata, come ritirata sui colli fiorentini nelle immediate vicinanze della città è la nostra casa. Una casa che dovrà a poco a poco trasformarsi in un centro di studio soprattutto perché la mia biblioteca di più di trentamila volumi e la mia collezione d’arte sono destinati a restare come ente morale».
Ad affiancarli c’era un comitato di redazione composto, per quanto riguarda i numeri di letteratura, da Attilio Bertolucci, Adelia Noferi e Piero Bigongiari ai quali negli anni si aggiungeranno Carlo Emilio Gadda e Giorgio Bassani. La coppia lavorò insieme fino alla morte di lui, il 3 giugno 1970. Lei continuò a portare avanti questo straordinario progetto con caparbietà. Paragone-Letteratura aveva una forza attrattiva tale da avvicinare autori come Alberto Moravia, Alberto Arbasino, Giovanni Testori e, in qualche modo, Pier Paolo Pasolini.
Banti fu per la rivista ciò che oggi in editoria definiamo scout: il suo obiettivo era scovare talenti, ma anche ottenere pagine inedite di autori già affermati. Emblematico a questo proposito è il suo rapporto con Arbasino. Il primo racconto dell’autore delle Piccole vacanze pubblicato sulla rivista fu Distesa Estate. Grazie alla raccolta epistolare pubblicata da Archinto (Anna Banti, Lettere ad Alberto Arbasino, 2006), è possibile seguire l’intero iter della pubblicazione: la prima stesura, la perdita di una seconda redazione, e la correzione delle bozze. Curioso, poi, il tentativo bantiano di mettersi in contatto, tramite lo stesso scrittore, con Gadda per proporgli una collaborazione:
«Senta, si è parlato con Bianchi, delle serate da voi passate insieme con Gadda, e si diceva: che peccato che Gadda ci mandi così raramente qualche cosa. Io lo ammiro immensamente ma non trovo mai il verso di chiedergli roba, ho paura di dargli noia, di farlo sentire in colpa etc. etc. Sa com’è fatto. Se provasse lei a farsi messaggero di questo nostro desiderio?»
Ma Arbasino è un intermediario fidato per arrivare anche a un altro autore: Giorgio Bassani.
«Per la natura del mio lavoro e il carattere delle mie frequentazioni, redazionali e no, amerei scambiare qualche idea con uno scrittore – narratore e critico – che senza somigliarmi abbia comuni con me alcuni principi fondamentali. Le confesso che penso a Giorgio Bassani per cui ho molta stima ed amicizia».
In contemporanea all’attività di redazione e scouting per Paragone, Banti comincia a farsi conoscere come traduttrice. La sua prima esperienza in tal senso è con la Mondadori. Nel 1943 le viene affidata la traduzione di Thackeray, Vanity Fair, in un primo momento destinata alla collana “Romantica”. Sin da subito i rapporti con la casa editrice non sono idilliaci. La traduzione di Thackeray non verrà mai pubblicata per una questione legata alla curatela dell’opera: Banti ripete più volte di essere convinta che una sua prefazione sia necessaria per evitare di incappare in situazioni spiacevoli come lo sfruttamento del suo lavoro da parte di altri. La traduzione uscirà solo nel 1948, ma per Longanesi.
Dopo l’autore britannico, è la volta di Virginia Woolf, un tassello fondamentale nella formazione bantiana non solo di scrittrice, ma anche nella personale presa di coscienza del suo valore come donna. Nel 1950 esce per Mondadori, nella collana “Il ponte”, la traduzione di Jacob’s room. In questi anni i rapporti con la casa editrice sembrano più distesi, pare grazie all’intervento di Alba de Céspedes che suggerisce ad Alberto Mondadori di prendere in considerazione la lettura di Le donne muoiono (uscito poi nel 1951 nella “Medusa degli italiani” e vincitore del Premio Viareggio di quell’anno). Sempre per Mondadori, ma stavolta dal francese, traduce Il grande Meaulnes di Alain-Fournier: nel 1971 per la collana “Classici di ieri e di oggi per la gioventù”, poi nel 1974 nella seconda serie dei “Capolavori della Medusa” con l’aggiunta di una prefazione della stessa Banti. Nel 1977, infine, si confronta con Colette nella traduzione del suo La vagabonda.
Alla fine degli anni Settanta comincia la sua collaborazione con Giunti. Per la casa editrice fiorentina lavora al penultimo romanzo di Jane Austen tradotto per la prima volta nel 1978 con il titolo Caterina. Dopo la morte di Banti l’opera è stata pubblicata sempre nella sua traduzione ma col titolo L’abbazia di Northanger (1994) e infine come Northanger Abbey (2018). Sempre per Giunti nel 1981 traduce Zanna Bianca di Jack London per la collana “Gemini”. La sua traduzione è stata poi ripubblicata nel 2007 nella Giunti Junior.
In quanto grande studiosa e conoscitrice della letteratura anglofona, nel 1980 le viene affidata la curatela del Meridiano Mondadori dedicato a Daniel Defoe per il quale scrive anche l’introduzione all’opera. Si occupa anche dell’introduzione a Diario dell’anno della peste, sempre di Defoe, nel quale si evidenzia la quasi maniacalità di Banti nello studio e nella consultazione delle fonti. Era prevista anche la curatela di un Meridiano su Colette, autrice già conosciuta e amata grazie alla traduzione, ma il progetto sfumò per motivi non chiarissimi.
Spesso considerata solo la moglie di Roberto Longhi, colei che aveva rinunciato alla sua vocazione per non sfigurare al fianco del marito e che, per questo, aveva ripiegato sulla letteratura, Anna Banti ha saputo dimostrare con la sua lunga e prolifica carriera – sia come autrice sia come professionista dell’editoria –, che una donna non deve lasciare che sia il giudizio altrui a fermarla. Anche dopo la morte del marito riuscì a inserirsi con facilità nei salotti romani in cui girava tutta la letteratura del tempo: fu in questi anni che si intensificò l’amicizia con Leonetta Cecchi-Pieraccini e con Maria Bellonci. Quel suo romanzo, Le mosche d’oro, che non riscosse successo e che ora che è introvabile sembra essere desiderato da molti, segnava un momento di rottura nella carriera dell’autrice. Essere una mosca d’oro per lei voleva dire distinguersi e dimostrare con intelligenza che essere impietosa non stava a significare necessariamente una negatività di comportamento, così come un eccesso di intelligenza non era un demone da sconfiggere. «Perciò quando vi chiedo di scrivere più libri vi sto incitando a fare qualcosa che contribuirà al vostro bene e al bene del mondo intero», scriveva l’amatissima Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé, e sembra che Banti abbia seguito alla lettera questo prezioso consiglio.
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Manuela Altruda
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