La vita e l’arte di Jacqueline Schulhof Blum, una ragazza ebrea francese che non aveva «mai pensato di essere ebrea» prima di essere internata nel campo, si dipanano fra gli orrori della seconda guerra mondiale, ma non esistono solo all’ombra della Shoah. Un libro/intervista di Annalisa Comes all’artista che ha oggi 97 anni
Di Amanda Rosso
«La storia rivela il significato di ciò che altrimenti rimarrebbe una sequenza intollerabile di eventi», scrive Hannah Arendt in Isak Dinesen, il suo saggio sulla scrittrice Karen Blixen. Leggendo Scolpire il tempo, le memorie di Jacqueline Schulhof Blum raccolte dalla penna partecipe ed empatica di Annalisa Comes, sono tornata alla magnetica introduzione di Adriana Cavarero al suo saggio Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione (1997): Karen Blixen racconta di un uomo che cammina nell’oscurità per tutta la notte, finché all’alba scopre di aver tracciato nel fango il profilo di una cicogna. Come quella sagoma, continua Cavarero «L’unità figurale del disegno, il significato unitario della storia, può essere posta, da chi la vive, solo in forma di interrogazione. O, forse, di desiderio».
Se, come sostiene la filosofa, «Ogni essere umano è un essere unico, è un esistente irripetibile che […] non ricalca mai le medesime orme di un altro, non ripete mai il medesimo percorso, non si lascia mai dietro la medesima storia», la testimonianza acquisisce un valore imprescindibile nella narrazione della Shoah che, proprio in virtù delle «questioni etiche, politiche, collettive e individuali» che solleva, scrive Annalisa Comes, è inclassificabile.
Scolpire il tempo. Memorie di una vita di Jacqueline Schulhof Blum si apre con una domanda: che libro abbiamo fra le mani? Quale sagoma troveremo tracciata nella sabbia?
Perché la vita, e l’arte, di Jacqueline Schulhof Blum, una ragazza ebrea francese che non aveva «mai pensato di essere ebrea» prima di essere internata al campo di Poitiers, si dipanano fra gli orrori della seconda guerra mondiale ma non esistono solo all’ombra della Shoah.
Si tratta di un «testo memoriale e anche storico» perché le vicende personali diventano «emblematiche di quelle di un’intera epoca», ma l’esperienza individuale rimane ancorata a un presente storico che ne illumina l’attualità.
La testimonianza di Schulhof Blum mantiene un carattere molto personale, perché nella sua unicità risiede la complessità umana delle vittime e i sopravvissuti all’Olocausto, e nell’azione fallibile e incompleta della memoria si delinea una connessione infrangibile con una verità, ma non necessariamente con la Verità. Vividi sono i dettagli: l’odore dei luoghi, la flora e la fauna, le sensazioni.
Annalisa Comes opera un lavoro certosino di ricerca e ricostruzione storica che intesse l’esperienza della narrazione con una precisa collocazione spazio-temporale.
La memoria è necessariamente un dialogo poiché il processo di ascolto non è un’esperienza neutra e accogliere la memoria deve tenere conto della realtà di questo trauma. Non è il dovere dei sopravvissuti quello di districare il nostro passato comune e farsi monito per il futuro, ma al centro di quel dono del racconto deve verificarsi l’incontro. E Comes si fa quindi messaggera di parole che hanno «dialogato e interrogato» il suo presente, per essere «fedele anche all’infedeltà» della memoria di Jacqueline Schulhof, custodirla e farla propria, prima, e poi del mondo. C’è il rispetto verso il non detto, le lacune della memoria e del linguaggio, e la volontà di custodire quei ricordi, non solo per il loro valore pedagogico ma per l’incalcolabile ricchezza delle vite di cui racconta.
E i ricordi di Jacqueline, il cui nome vero è Gisèle, illuminano un’infanzia di marmellate – nel giardino della loro casa di boulevard de Belfort c’è un enorme albicocco – nuotate nel Rodano assieme alla cagnetta Lydie, capanne nel bosco di Roye e vacanze estive a Saint-Briac-sur-Mer, in una casa di granito vicino all’oceano, circondata da ortensie rosa e blu. I dettagli custodiscono la spensieratezza che ha preceduto la guerra, nonostante privazione, lutto ed esilio appartengano già alla storia della sua famiglia nell’Europa della Grande Guerra.
Nata ad Amiens nel 1925, figlia di mezzo di Lucie e Raymond Schulhof, Jacqueline era dotata nel disegno e voleva diventare insegnante di ginnastica. Ma il 3 settembre 1939, il giorno della dichiarazione di guerra che la famiglia, in villeggiatura in Bretagna, ascolta alla radio, rompe la loro quotidianità spensierata.
L’agonia dell’attesa, i bombardamenti, la continua fuga, la paura, l’inasprirsi delle leggi razziali, le umiliazioni e l’isolamento, ma anche la rete sotterranea di supporto degli ebrei francesi, il legame con l’amica Denise, creano un modo ondivago di speranza e rassegnazione, velato ottimismo e abbattimento. Jacqueline Schulhof non indulge mai nella glorificazione del sacrificio, ma delinea con acuta precisione sia la solidarietà trovata nei luoghi più insperati che la freddezza e il tradimento di chi considerava amico. «È stato l’ottimismo a perderci», dirà poi a proposito del padre che, da ebreo non osservante, si sentiva un francese prima di tutto, un cittadino, parte della comunità di Amiens, che lo faceva sentire protetto. Raymond si illudeva non lo avrebbe mai tradito.
Fino al 27 luglio del 1942, quando, dopo la rafle du Vel’ d’Hiv – un rastrellamento di tredicimila persone da parte dei nazisti a Parigi – la famiglia Schulhof decide di scappare a sud nella zona liberata. Ma saranno solo Jacqueline, il fratellino Pierre e la nonna Louise a tentare la fuga: verranno catturati da una retata e portati al campo di Poitiers, e in pochi mesi transiteranno attraverso Drancy e Phitiviers. Gli orrori dei campi di sterminio sono ancora solo sussurri fra i prigionieri, ma la fame, l’umiliazione e l’incertezza li accompagnano costanti. Topi, pulci, ma anche canzoni, danze, attimi di smagliante umanità che si alternano alle indegnità e alla martellante paura di un altro treno.
Lei e Pierre verranno rilasciati due mesi dopo, grazie agli sforzi del padre e all’intercessione di un Prefetto. E anche la nonna, grazie a Raymond, riuscirà a evadere rocambolescamente.
Jacqueline riflette spesso, nel suo racconto, sulla memoria: su cosa ha trattenuto fin nei minimi dettagli e cosa ha rimosso. È Ginette, dice, la sorella maggiore, colei che ha narrato la cronaca della guerra della famiglia Schulhof. Lei, da parte sua, ha solo testimoniato per i suoi figli e nipoti, per le future generazioni; perché non venissero abbagliati dal negazionismo e dall’oscurantismo.
La delicatezza e il lieve umorismo nella narrazione di Jacqueline non ammutoliscono di fronte all’enormità della sua perdita (la madre, il padre, la nonna e il fratellino adottivo George verranno catturati nel gennaio del 1944 e moriranno ad Auschwitz. E in seguito anche il suo primo marito Pierre morirà di cancro ad appena trentadue anni), ma nella donna che conosce Annalisa Comes riposa la compatta leggerezza delle sue sculture.
Le mani, «che sembrano uccelli posarsi, su un filo teso sul burrone della vita, per poi riprendere il volo», plasmano arte in costante dialogo fra «naturale e onirico, realtà e mondo invisibile». Come il suo marmo di Carrara, «duttile» e «luminoso» Jacqueline è «passeuse de lumière», una donna luminosa, «esile, ma non fragile», un’artista, una viaggiatrice, una madre e una nonna, una sopravvissuta e una narratrice.
«Ho imparato che ci sono persone coraggiose che si assumono dei rischi» scriverà in una lettera un bambino delle elementari dopo aver ascoltato il racconto di Jacqueline e del secondo marito Francis, «e persone meno coraggiose che non aiutano per paura di essere prese o anche i collaborazionisti che denunciano». La testimonianza della Shoah ha influenzato massicciamente «il modo di pensare e di scrivere la Storia» e viene incorporata nelle pratiche pedagogiche, specialmente nelle iniziative istituzionalizzate come il Giorno della Memoria.
Ma che cos’è la Memoria? A chi appartiene? E soprattutto come possiamo infondere nuova linfa al concetto di memoria come esperienza quotidiana?
La memoria e la testimonianza sono percorsi collettivi di costruzione di significato e non semplicemente un processo passivo di narrazione della Storia come un elemento uniforme che appartiene a un passato ormai immutabile. Nella sua introduzione Comes sottolinea come l’empatia verso le vittime della Shoah debba essere accompagnata da «un lavoro di cura e di accudimento».
La memoria diventa così «un’opera di tessitura» intergenerazionale dove al ruolo imprescindibile dei e delle testimoni si accompagna l’accoglienza, un territorio di condivisione che radica l’esperienza e il racconto in un terreno fertile. Chi raccoglie e custodisce la testimonianza – combinandola con pratiche quotidiane – è responsabile, come singolo e collettività, di colmare l’assenza, di non far discendere dall’empatia per i racconti dell’Olocausto semplice pietismo e senso di smarrimento, commemorazione e moralismo, ma riconoscerne sia le specificità storico-politiche che la sua tremenda attualità.
Raccontare la Shoah significa adoperarsi contro «l’inenarrabile», farsi spinsters (dall’inglese to spin, filare, tessere) e intrecciare i fili della memoria con fili nuovi, rispettosi fedeli e resistenti, scrive Comes, «per salvare il tessuto dalla sua rovina», senza dimenticare, come conclude Cavarero nel suo saggio, che «le storie di vita vengono narrate e ascoltate con interesse, perché sono simili e tuttavia nuove, insostituibili e inattese, dall’inizio alla fine. Sono sempre capricci del destino».
Jacqueline Schulhof Blum, Annalisa Comes (a cura di), Scolpire il tempo. Memorie di una vita. Castelvecchi, Roma, 2022
Hannah Arendt, Isak Dinesen. “aut aut”, 1990
Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione. 1997, Feltrinelli, Milano
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Amanda Rosso
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