L’ho immaginata mille volte, quella ragazza di diciannove anni che, mentre la pioggia inzuppa il giardino, guarda il fuoco nel caminetto e comincia a vedere, come dirà un giorno, “il pallido studioso di arti profane inginocchiato accanto alla “cosa” che aveva messo insieme”. La ragazza è Mary Shelley, il pallido studioso è Victor Frankenstein, e in un gioco d’estate fra scrittori nasce la letteratura fantastica moderna. Oltre duecento anni dopo, a Mary Shelley si tributano, è vero, i dovuti riconoscimenti: ma è come se il suo genio fosse un inciampo del caso, una di quelle circostanze fortuite da cui scaturisce una fiammella, e solo per errore, è opinione non espressa ma diffusa, ha toccato lei e non il nobile consesso maschile (il marito di Mary, o Byron, o Polidori) di quei giorni a villa Diodati.
Mary Shelley è in fondo l’eccezione di una comune dimenticanza delle scrittrici che si sono cimentate direttamente o indirettamente con il gotico e con l’horror: soprattutto in Italia, dove il genere è stato a lungo, e forse è ancora, visto con sospetto. Le eccezioni naturalmente vengono nominate e analizzate, ma sono nella grandissima maggioranza, ancora una volta, maschili: e dunque si ricordano, giustamente, i Buzzati e i Landolfi, e i deragliamenti nel fantastico di Primo Levi, e i Papini e i De Chirico e Calvino, e a volte Morselli, e certe altre Volponi. Molto raramente si includono le scrittrici che non sempre si sono dichiarate come militanti del fantastico, ma hanno saputo guardare nella notte, e turbarci invece di rassicurare. Ma prima bisognerà pur dire perché il fantastico stesso allontana, ancora oggi, i lettori, e cosa pretenderemmo, invece, dalla letteratura.
C’è uno strano equivoco che, specie negli ultimi anni, coinvolge il romanzo: sia nella sua forma canonica, chiamiamola così, sia negli scardinamenti che nella costruzione avvengono grazie alla commistione con la cronaca. L’equivoco è pretendere che la letteratura racconti la realtà: cosa che evidentemente non è nella sua natura, che è di assoluta finzione anche quando giura che tutto quanto narra, la vita stessa dello scrittore o scrittrice che viene messa a disposizione del lettore, la sua famiglia, i ricordi d’infanzia, corrisponde a verità. Questa pretesa del realismo è faccenda molto italiana e molto novecentesca, peraltro. Resta abbastanza incredibile la sua persistenza, laddove altri luoghi dell’immaginario, come le serie televisive e il fumetto e ovviamente i videogiochi, mostrano che il fantastico è una strada di pari validità. Ammesso che abbia senso la distinzione, appunto.
Il successo delle autofiction che si è evidenziato negli ultimi anni sembra premiare la scelta di chi narra la propria malattia, il proprio lutto, il proprio divorzio, la propria depressione. Che sono tematiche, peraltro, molto presenti nel fantastico: non fosse che ancora oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, il medesimo viene identificato con uno dei suoi sottogeneri, il fantasy. Se dovessi avere un euro per tutte le volte in cui un autore o un’autrice di fantastico (e dunque gotico, horror, fantascienza) viene definito fantasy sarei ricchissima, sul serio. Peraltro, da ultimo una serie di voci italiane giovani e interessanti stanno proponendo una propria e interessante reinterpretazione: penso a Orazio Labbate, inventore del cosiddetto “gotico siciliano”. O a Michele Vaccari e Domitilla Pirro, con le loro raffinate distopie. Oppure, alle scrittrici già affermate. A Laura Pugno. A Viola Di Grado. A Nadia Tarantini. A Nicoletta Vallorani. Per lo più, però, l’interesse dei lettori e della società editoriale si concentra sulla storia familiare, sull’adulterio, sui disamori e gli amori ritrovati per padri e madri. Che è legittimo, naturalmente, ma non dovrebbe essere il canone per giudicare cosa sia letteratura e cosa no.
E’ ancora più strana, la persistenza realistica, se si pensa quanto, invece, siamo immersi nella fantasia per quello riguarda il mondo dei presunti fatti. Continuiamo a credere nei complotti. Continuiamo a credere non che una moneta d’argento possa uccidere un licantropo, ma che attori e politici bevano sangue umano per mantenersi giovani; continuiamo a bocciare come distraenti le storie di magia ma crediamo che esista un’èlite di cabalisti che governa segretamente il mondo. E chi non è un seguace delle teorie di QAnon ha invece una fiducia cieca nel cosiddetto debunking. Ovvero, come spiega Wu Ming 1 in La Q di Qomplotto (edizioni Alegre), “ la confutazione – analitica nel procedere e polemica nei toni – di una notizia falsa, fantasia di complotto, leggenda urbana, credenza pseudoscientifica o truffa basata sul paranormale”.
La rete ha reso famosi diversi debunker professionisti. Eppure, il debunking, o fact-checking che dir si voglia, funziona raramente, proprio perché oppone la prevalenza dei fatti e della verità “oggettiva” contro quelle che non a caso vengono definite “fantasie”, caricando il termine di un’accezione sempre negativa. Ma quei fatti, dice ancora Wu Ming 1, sono a loro volta frutto di una narrazione e di un pensiero confutabili: e quando smontano una falsa verità la accusano in primo luogo di non essere realistica: “Realistico era un attributo ad alta carica ideologica. Su cosa fosse da considerarsi realistico rispetto all’accettazione di quale premessa si giocava praticamente tutto l’agire collettivo sotto il cielo. Realistico rispetto a cosa?”. Per andare oltre il debunking, dunque, “non bastava riconoscere i nuclei di verità delle fantasie di complotto, spiegare con pazienza che quelle narrazioni erano diversive, agire conflitti reali per limitare l’attrazione dei Sozialismen der dummen Kerls. No, bisognava anche lavorare su forme di reincanto. Con ogni mezzo necessario, e il più collettivamente possibile”.
Ora, questa forma di reincanto è vivissima, almeno letterariamente. I grandi autori di letteratura fantastica sono ferocemente realisti: lo è Tolkien ne Il signore degli anelli, quando dà corpo agli orrori del primo decennio del Novecento, lo è George R.R. Martin nelle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco quando descrive il vero potere (quello della Banca di Ferro, che sopravvive alle faide e allo stesso Trono di Spade). Lo è Shirley Jackson quando affronta i timori e le frustrazioni delle donne che si avviano a diventare utili consumatrici, così come Betty Friedan descriverà ne La mistica della femminilità. Lo è Angela Carter quando si interroga sul desiderio in Camera di sangue, Ursula K. Le Guin quando inventa linguaggi diversi ne I reietti dell’altro pianeta: laddove sul capitalista Urras si parla lo Iotico, a sua volta in forme diverse a seconda della classe di appartenenza, e nell’anarchico Anarres il Pravico, che non ha aggettivi possessivi. E’ straordinariamente realistico tutto Stephen King, che altro non ha fatto nella sua lunga storia di scrittore se non raccontare l’America bianca, impoverita e inferocita, che avrebbe portato all’elezione di Donald Trump. C’è molto più realismo nel fantastico, dunque, che in un’autofiction. Ma c’è ancora un altro fattore da tenere presente, e che nella produzione fantastica non è eliminabile: il confronto, continuo, con il Male.
Certo, questione antichissima. E però di enorme attualità, visto che da ultimo sembra insinuarsi nei narratori un desiderio di compiacimento del lettore, uno smussar di angoli, un’esigenza consolatoria che dà da pensare. In poche parole, ci si chiede quanto è diventato difficile per la letteratura interrogarsi sul Male. E dovrebbe essere convinzione comune che lo scrittore deve far male a qualcuno per essere tale: ogni volta che si tocca il punto (ed è bene toccarlo, in tempi di narrazioni spesso addolcite) si citano soprattutto due grandi figure della letteratura. Primo fra tutti, lo stupratore di bambine Stavrogin, nei Demoni di Fjodor Dostoevkij, e a seguire Patrick Bateman in American Psycho di Bret Easton Ellis. Ma aggiungo anche, venendo più vicino a noi, il protagonista di Bruciare tutto di Walter Siti, che tanto scandalo destò o il percorso che Nicola Lagioia ha fatto nelle vite degli assassini in La città dei vivi.
Non mi sto chiedendo, dunque, se la letteratura abbia dei limiti o fin dove possa spingersi nel corpo a corpo con il Male: è uno dei suoi compiti, appunto. Può decidere di tralasciarlo, naturalmente, o può accompagnarlo con una prospettiva di redenzione, nella convinzione, come Umberto Saba, “che ogni estremo di mali un bene annunci”, o che infine arriveranno le aquile, o può non accadere nulla di tutto questo, come in Ellis. American Psycho è peraltro, a mio modo di vedere, uno dei libri più importanti degli anni Novanta e non solo: e questo al di là di ogni interpretazione sociologica che di quel romanzo si possa dare (e che, nei fatti, è stata data). Ellis sceglie la prima persona per raccontare le ossessioni glamour di Patrick Bateman. A narrazione avanzata, lo stesso tono è riservato al catalogo di omicidi, torture, stupri, mutilazioni, necrofilia, cannibalismo che entrano nella vita di Bateman e che sono posti sullo stesso piano dei completi Armani e della musica dei Genesis.
Semplicemente, o forse no, in nessuno dei casi sopra citati il lettore si fa voyeur. Non si lascia alcuna concessione all’immedesimazione: lo si chiama fuori, anzi. Ma quando l’identificazione avviene, quando si avverte invece il desiderio non di autoprofanarsi ma di esibire, cosa avviene? Per carità, giustissimo che ci siano scossoni in questo mare quieto: ma mi domando quanto quegli scossoni sono voluti, cercati persino. Quanto mentano al lettore per il piacere di farlo, insomma. E mi chiedo anche se si possa infine porre queste domande nel mondo letterario, senza restare al bordo del tavolo come la signora Stohr della Montagna incantata, ignorante come una zucca, con le guance rosse e la curva della temperatura sempre in ascesa, mentre tutti gli ospiti del sanatorio la guardano con disprezzo, perché sembra non capire quel che tutti capiscono (forse).
Veniamo alle scrittrici. Perché alle scrittrici, più ancora che agli scrittori, si chiede di essere sincere, di essere oneste, di raccontar di sé senza turbare? Viene a proposito un’intervista che Joyce Carol Oates fece nel 1978, per il New York Times, a Margaret Atwood. In particolare, questo passaggio:
- Sono spesso stupita, e a volte costernata, dall’abitudine che hanno lettori che si suppone intelligenti di presumere che la maggior parte della scrittura, specialmente quella in prima persona, sia autobiografica. E so che anche tu sei stata spesso interpretata così. Come spieghi questa straordinaria ingenuità?
R. Per quanto ne so, questo è un problema nordamericano. Non succede molto in Inghilterra, credo, perché l’Inghilterra, con la sua lunga tradizione letteraria, è abbastanza abituata ad avere scrittori in giro. E non succede tanto (nella mia esperienza) negli Stati Uniti quanto in Canada. E non succede tanto agli uomini quanto alle donne, probabilmente perché le donne sono viste come più soggettive e meno capaci di inventare. Penso che sia il risultato di diversi fattori. In primo luogo, potrebbe essere un tributo alla scrittura. Il libro convince il lettore, quindi deve essere “vero”, e chi è più “vero” dell’autore? I lettori a volte si sentono ingannati quando dico loro che un libro non è “autobiografico”, cioè che gli eventi descritti non sono accaduti a me. (Naturalmente, ogni libro è “autobiografico”, in quanto le immagini e i personaggi sono passati per la testa dell’autore e in quanto lui o lei li ha selezionati.) Questi lettori vogliono che tutto sia vero.
Inoltre, da questa parte dell’Atlantico abbiamo un’idea un po’ romantica di cosa sia un autore. La scrittrice è vista come “espressione” di se stessa; quindi, i suoi libri devono essere autobiografici. Se il libro fosse visto come qualcosa di concreto, come un vaso, probabilmente non avremmo questa difficoltà.
Ma l’idea è straordinariamente tenace. Stavo parlando di questo durante una lettura una volta. Ho spiegato che il mio lavoro non era autobiografico, che il personaggio centrale non ero “io” e così via. Poi ho letto un capitolo di “Lady Oracle”, il capitolo in cui la ragazzina grassa frequenta la scuola di ballo. La prima domanda al termine della lettura è stata: “Come hai fatto a perdere così tanto peso?”
Forse è per questo che è così difficile, in Italia, moltiplicare le scritture femminili del fantastico. A meno che, certo, non si tratti di scritture per giovanissimi lettori, unica categoria che, almeno fin qui, può essere preservata dal realismo. Oppure di autrici che si muovono nella nicchia: nicchia, però, che diventa grazie al cielo sempre più ampia. Perché, per un’autrice, scrivere fantastico significa ancora rovesciare il tavolo. C’è un aneddoto che mi capita spesso di citare e che ne spiega il motivo.
Ursula Le Guin mette piede per la prima volta nel 1947 al College. E ricorda: “Con tono paterno, il preside del college informò noi ragazze che eravamo lì per imparare a vivere con grazia. Lo diceva a noi, una manciata di pazze intellettuali sgraziate, piene di passione, avide di tutto ciò che il college poteva darci: e avremmo dovuto star lì per imparare le buone maniere, comportarci da signore, apparecchiare la tavola con gusto, versare il tè? Ma per fortuna il college ci ha dato una formazione eccellente, preparando almeno alcune di noi a capire come e quando rovesciare il tavolo e la caraffa del tè. E per quali motivi”.
Ora, in questo libro si parla di donne che hanno rovesciato il tavolo e la caraffa, e dei loro motivi.
Le nove autrici italiane di questa antologia sono fra loro diversissime, e difficilmente alcune di loro verrebbero accostate al weird, al bizzaro, al perturbante. Eppure, nelle tre sezioni di questo libro (Sepolture, Violazioni, Visioni) affrontano tematiche che al gotico e al perturbante e infine, ripetiamolo pure, al fantastico, sono care.
La sepoltura in vita è un classico della letteratura dell’orrore, perché la tafofobia (il terrore di finire in una bara vivi e palpitanti) venne riconosciuta come patologia nel 1891 dal medico e psichiatra italiano Enrico Morselli. Naturalmente fu Edgar Allan Poe (che ne soffriva) a usarla in La sepoltura prematura, La caduta della casa degli Usher e in molti altri racconti. Non fu il solo. Vi si cimentarono Théophile Gautier e Flaubert, Zola e Maupassant, Woolrich e Bloch. Ma delle tre autrici qui presenti solo Carolina Invernizio segue il canone nel brano tratto dal romanzo Sepolta viva. Né potrebbe essere diversamente, perché Invernizio, reiteratamente offesa da illustri colleghi maschi come onesta gallina o candida casalinga, conosceva bene i canoni del genere (dal thriller a quello che chiamiamo mistery) e ci si muoveva perfettamente. Non inventava ma faceva suo quel che la circondava.
Altra faccenda il primo racconto: in quel caso la morte apparente non arriva fino alla sepoltura, perché lo sventurato protagonista, ferito con un’arma intrisa nel “Curare”, o curaro, sembra morto ma vede tutto e impazzisce di terrore nell’immaginare quel che sta per capitargli. . Un giochino squisito che Stephen King riprenderà nel racconto Autopsia 4, nella raccolta Tutto è fatidico, e che qui si deve a Marchesa Colombi, alias Maria Antonietta Torriani, cofondatrice col marito Emilio Torelli del Corriere della Sera e sua prima firma femminile, autrice di romanzi, al solito, ritenuti adatti alle sole signore, dimenticata e riscoperta, sia pur in parte, da Italo Calvino e Natalia Ginzburg. Anche Paola Masino, autrice di Ricostruzione, contenuto nella sua prima raccolta di racconti pubblicata nel 1931, Decadenza della morte, venne considerata dalla critica fascista “una scribacchina”. Eppure, che potenza. I grandi temi della nascita e della morte, che le sono sempre stati cari, e il topos della sepolta viva si ribaltano in una sepolta decisamente morta ma niente affatto in pace: e che addirittura si alza a sedere nella bara perché qualcosa “di troppo pesante” la opprime e le impedisce il riposo. Un fazzoletto di seta, lieve come una piuma, che l’uomo che amava e per cui è morta ha consegnato cinicamente ai genitori perché lo seppellissero insieme alla ragazza, e che per giunta apparteneva a una delle sua amanti.
Nella sezione Violazioni appare forse l’unica, grandissima, scrittrice italiana cui si attribuisce un ruolo notturno, e le cui incursioni nel fantastico sono continue quanto, spesso, non riconosciute. E’ l’Annamaria Ortese de L’infanta sepolta, raccolta pubblicata nel 1950 e fitta di divinità deboli e imprigionate, come quella che vive nella statua di una Madonna nera, la Signora di Montemayor, che brucia di desiderio in una chiesa. Ma non si viola il confine attribuito: la statua deve rimanere al suo posto. Così come non deve violarlo la sventurata protagonista de Il gigante, dalla bellissima raccolta La grande Eulalia di Paola Capriolo, dove un duetto di violino e pianoforte tra la moglie del comandante del carcere e un misterioso prigioniero si rivela mortale per entrambi. In Memoria totale, primo racconto di fantascienza di Gilda Musa (apparve nel 1963 su Futuro e venne poi incluso in Festa sull’asteroide nel 1972), il limite violato è quello della memoria, appunto. Non solo quella personale della protagonista, ma di tutte le vite possibili mai viste su questa terra. Ricordare, però, uccide.
Ancora: nell’ultima sezione, Visioni, due grandi nomi, Grazia Deledda e Matilde Serao, si cimentano con le leggende della loro terra. E come in tutte le leggende appaiono lo strano, il sognante, il meraviglioso e il terribile: lo spettro della donna innamorata e assassina che torna per pacificarsi con il discendente e offrirgli un tesoro che non potrà però raggiungere, e l’antico e impossibile amore di un umano per una statua. Chiude la raccolta uno degli ultimi racconti di una grande scrittrice dichiaratamente gotica come Chiara Palazzolo, dove la ragazza che passa è un’illusione, ma è anche l’anima perduta tra le chiacchiere inutili di una pizzata fra amici.
E’ la caraffa rovesciata, il canone irriso, nella più dolce e terribile delle notti.
a cura di Loredana Lipperini, “Le scrittrici della notte”, Il Saggiatore 2021 (dal 14 ottobre in libreria), 28 pp., 19,00 euro
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