Era settembre, un mattino ancora estivo. Sto attraversando la piazza per andare al supermercato e sento un uomo gridare. Mi guardo intorno e lo vedo, che urla rivolto contro il muro di un palazzo a pochi metri di distanza. E’ matto, penso, ma ecco che dietro di lui sguscia fuori una ragazza. Esile, giovane, spettinata. Realizzo che lui la stava schiacciando con il corpo contro il muro. Urlano entrambi mentre si avvicinano e lei piange, ma senza lacrime, con rabbia. Lo insulta, e lui le dice “vai, vai, tanto di qui ci devi passare. Ti trovo”. Quando mi arriva vicina mi dice “chiama i carabinieri, per favore, anche ieri mi ha menata. E’ uno stronzo”. Lui intanto si infila in una macchina e le butta in mezzo alle gambe un cagnolino. “Mi aspettava sotto il portone, e mi ha preso il cane. Lo voleva strozzare. E’ un delinquente, l’ho capito subito”. Intanto che succede tutto questo io sto chiamando i carabinieri e le faccio qualche domanda, per capire come posso aiutarla. Mi racconta qualcosa, le dico che sarebbe meglio se per qualche giorno andasse a stare da un’amica. La minaccia di lui me la sento addosso. Per un momento penso che ci vorrebbe un uomo, un fratello, e che i carabinieri poco potranno fare per proteggerla. Ma è un pensiero stupido, perché saprà proteggersi da sola. Lo capisco quando arriva la volante e lei si mette a raccontare, calma a precisa. “Come ti chiami”, le chiedo prima di andarmene, e dopo aver testimoniato l’accaduto, con molti particolari su come lui l’aveva minacciata. “Caterina, e tu?”. L’ho rivista dopo qualche settimana, su quella piazza, sotto casa. Ci siamo riconosciute, salutate, sorrise. Stava bene.









Maristella Lippolis

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