Dialoghi/ Carotenuto & Scarinci

Silvana Carotenuto e Viviana Scarinci, 30 Luglio 2021

Elena Ferrante il genio della lingua”

Relazione, assenza e condivisione sul “dispositivo Ferrante” alcune domande a Viviana Scarinci autrice de Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo pubblicato in Leggendaria n. 147

di Silvana Carotenuto

In Genesi, genealogie, generi, e il genio. I secreti dell’archivio, Jacques Derrida celebra il dono di Hélène Cixous della sua sterminata opera critica e letteraria (l’archivio composto dalla scrittura, dalle lettere, i documenti, i taccuini, i diari dei sogni, l’inconscio, la presenza della madre Eve, la prima donna, l’evento, il risveglio, la veglia, il revenant o il fantasma) alla Biblioteca Nazionale di Francia, la BNF.1 Derrida, in verità, saluta la “Tout-puissance-autre” – La “onnipotenza-altra”, il segreto, non la cripta da rivelare ma l’alterità incondizionata al potere, oltre ogni sovranità o autorità che governi la lettura, l’altro/a che arriva, il genio – della e per la Letteratura, per la sopravvivenza e l’afterlife della letteratura creata dalla scrittrice amica e, insieme, della Letteratura in generale.

Derrida entra in dettaglio nella famiglia di parole rette dalla “g” (il nome del padre e del figlio, Georges, onnipresente nella realtà biografica e nella finzione di Cixous, ed insieme, il personaggio Gregor de La metamorfosi di Kafka), che mette in moto e sostiene la sua lettura decostruttiva: le genesi dell’opera, le genealogie che la articolano e ne aprono l’eredità, i generi che la ibridizzano, la sostanziano e la moltiplicano, e infine, il genio (parola che, in francese come in italiano, è declinata sempre e solo al maschile, e al singolare, aprendo così la riflessione derridaiana alla questione dei generi sessuali presenti nella opera della madre dell’ecriture feminine, e anche il nome proprio come patronimico di più-di-un-genio-in-“una”, al femminile) che la firma e la controfirma, la carezza del «genio della lingua» (31) che apre nuovi orizzonti perché sempre in eccesso su se stesso.

L’eccesso è la generosità dell’opera letteraria; è qui il dono di Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante. Un ritratto delle italiane del XX secolo di Viviana Scarinci, che ricorda il saluto di Derrida al genio di Cixous costituendosi come un testo che, allo stesso modo, pur nella propria differenza, celebra le genesi, le genealogie, i generi e il genio “femminile” dell’opera (di “tutti e di nessuno”, se esso costituisce il “terzo libro” creato dall’immaginario collettivo delle lettrici e dei lettori) di Elena Ferrante – con la generosità che contraddistingue l’autrice e la sua interprete.

Le genesi

Sono effettivamente plurali le genesi dell’opera di Ferrante. Il debutto avviene nel 1992, un anno determinante per le vicende storiche, sociali e culturali dell’Italia datando la vicenda Gladio, l’emergere di Tangentopoli, l’uccisione di Falcone e Borsellino, la nascita della Lega, la pubblicazione di Petrolio di Pasolini. Nei confronti di questo contesto nazionale specifico, Ferrante compie un’altrettanta specifica scelta di campo, ponendo al centro del suo universo narrativo l’invenzione del “dispositivo finzionale” ospitale di una donna, in realtà, molte donne poste sullo sfondo di una Napoli-matrice, dove è possibile andare alla ricerca della madre, ricordare la molestia di un amore e, forse, anche costituirsi quale “soggetto” diverso.

Per Scarinci, L’amore molesto segna l’inizio politico del romanzo del “trauma”, la discesa individuale in una affettività negata, lo scontro con la brutalità di uno status quo determinato, gestito e manipolato dal maschile, dal patriarcato e dal potere. L’inizio segna l’indagine conoscitiva spinta dalla pulsione della “individuazione femminile”, che è la lotta strenua ad originare una “dicibilità” e una “visibilità” in un mondo – privato e pubblico – che rimanda il momento storico del riconoscimento della differenza femminile, creando intorno a essa il “vuoto” – che è, probabilmente, e forse polemicamente, incarnato dall’assenza voluta e ricercata di Ferrante dallo spazio pubblico se non tramite la sua scrittura.

Il romanzo del “trauma” continua ne I giorni dell’abbandono del 2002 e La figlia oscura del 2006, per arrivare, passando attraverso la fiaba La spiaggia di notte del 2007 e il ritorno de La frantumaglia (2003/2016), alla tetralogia de L’amica geniale, che nasce nel 2011 e si conclude nel 2015 (per estendersi, ancora, in L’invenzione occasionale, e infine, in La vita bugiarda degli adulti, entrambi apparsi nel 2019). Con la tetralogia, scrive Scarinci, il “dispositivo” è pronto per imporsi a un pubblico vasto; i meccanismi dell’identificazione sono stati esposti, mirati e costruiti per rendersi globali; il “terzo libro” della collettività condivisa – creato dalla penna autoriale e, insieme, dall’immaginazione di chi legge – è scritto e viene pubblicato con immenso successo di critica e di readership. Per dare conto di quanto interesse quest’opera abbia suscitato nel mondo, in particolare negli Stati Uniti ma, considerate le traduzioni e l’eco editoriale, consacrati sull’intero pianeta, Scarinci studia e pensa insieme all’immenso archivio di articoli, recensioni, interventi, dibattiti nazionali (il riferimento, a livello italiano, va a Luisa Muraro, a Elsa Morante e a Umberto Eco, in termini generali) e internazionali che si sono sviluppati intorno alla pubblicazione della tetralogia: il testo di Scarinci diviene così esso stesso l’“archivio” della produzione dell’ “archivio Ferrante”.

Il cambiamento

Ciò che importa è che l’opera segna il cambiamento nella poetica della scrittrice che, dopo l’intimismo dei primi tre romanzi, è qui alle prese con la relazione tra le donne, le due amiche nel quartiere Luzzati che funge da microcosmo degli incontri, delle aspirazioni, dei percorsi condivisi, speculari doppi e diversi, che narrano una parabola universale. Tramite la relazione, e sullo sfondo del luogo simbolico e metonimico di una generazione storicamente ben definita, si dipanano le dinamiche della crescita, le manipolazioni, gli amori (prevalentemente sotto l’egida delle convenzioni sociali), i matrimoni (fallimentari, il che non sorprende, se si pensa alla conquista popolare del divorzio degli anni Settanta), i destini e i futuri – del e al “femminile”.

La lingua di Ferrante comunica le vicende vissute – autobiograficamente, ma solo perché innervate di materiali conosciuti direttamente dalla scrittrice, e, per ciò, esponibili ed esposti alla condivisione e alla comunicabilità. L’infanzia, la maturazione, i risultati esistenziali e, insieme, le vicende dell’istruzione, del potere, le norme e i ricordi: Ferrante passa dal piano individuale a quello collettivo-mondiale. Il contraltare dell’euforia del secondo dopoguerra si costruisce sulle avventure – i percorsi, i cammini, le “frantumaglie”, le “smarginature”, le “vigenze”, le “incoerenze” (Scarinci dedica grande attenzione al ruolo di questi istanti di “non-senso” in Ferrante, che tentano di dire veramente la questione dell’eredità materna, l’identità fratturata, e la realtà negata al e del femminile) – e sulle metonimie del dispositivo creativo, riempiendo, infine, lo spazio “vuoto” col desiderio delle donne.

Donne che sono nell’ “ambivalenza” – come risposta “non-ideologica” alle forme “ideologiche” che può aver assunto il femminismo italiano (qui il riferimento va all’interessante volume curato da A.M. Crispino e M. Vitale, Dell’ambivalenza. Dinamiche della narrazione in Elena Ferrante, Julie Otsuke e Goliarda Sapienza).

Insieme all’ambivalenza, Scarinci cita la “vergogna sociale” (in relazione a La vergogna di Annie Ernaux), sottolineando come esse nascono al reale, si generano autonomamente nella Letteratura, costruiscono genealogie alternative (per Ferrante, il cuore della sua poetica pulsa insieme a Anna Maria Ortese), piegano i generi (la favola, il territorio flegreo, il mitico Vesuvio, il mitologico Averno, la saga, il Bildungsroman, il romanzo stesso, i Neapolitan Novels) al dinamismo della condivisione, concentrandosi, infine, sul genio o sulla “brillantezza” (al femminile) dell’amicizia.

L’angelo-demone, il dono o genio della relazione: il “libro di tutti e di nessuno” è finito (in realtà, La vita bugiarda degli adulti è una opera tanto palpitante e vicina che, pur arrivando per ultima, apre o ri-apre l’interpretazione-in-progress di Scarinci a un ulteriore giro di vite che illumina nuovamente, à nouveau, gli esiti della scrittura di Ferrante, che ora si concentrerebbe sul meccanismo della “verità” storica, che è insieme individuale e collettiva).

In conclusione, mi chiedo se, in realtà, questa fine non possa aprire il dibattito a una condivisione del genio non solo tra i personaggi dell’opera di Ferrante, ma anche nella relazione tra colei che interpreta e colei che legge qui la sua generosa interpretazione. Ad un certo punto della sua analisi, Scarinci dice che il genio è ciò che stimola, che mette in atto la trasformazione, «che ispira grandi opere e guasta passo passo ogni certezza». Vorrei interpretare per un istante io stessa questo demone, la genialità dell’altra, chiedendo, dall’interno della nostra recente ma intensa relazione di amicizia, a Viviana alcune cose:

  1. La lingua: Virginia Woolf, Ingeborg Bachmann, Clarice Lispector e prima, e insieme a loro, Anna Maria Ortese (per non parlare, in campo filosofico, di Luce Irigaray), hanno avvertito ed esperito la “pulsione dall’individuazione” solo e sempre all’interno della scrittura, tramite la sperimentazione di una lingua che mai ha potuto o voluto semplificarsi al fine di condividersi. Per queste scrittrici, preziose generatrici di pensiero femminile, mi sembra che l’individuazione sia sempre e solo passata attraverso l’invenzione di un’altra lingua, una lingua che non si piega ai dettami della comunicabilità in termini di convenzioni, norme, strutture, o conformità d’espressione. Sarà il ritorno di una logica arcaica, ma giusta: non esistono contenuti nuovi se non veicolati da una nuova forma.

La popolarità, il superamento della dialettica cultura alta/cultura popolare, il margine vissuto come chance e rivendicato come potenza di condivisione, tra le donne, con l’umano, l’altro dall’umano, oltre l’umano, impegnano, secondo l’eredità e la filiazione della sperimentazione femminile, all’immanenza di pratiche innovative col corpo stesso della scrittura. Era ciò che, personalmente, trovavo e amavo nei romanzi di Ferrante che Viviana definisce del “trauma”, chiedendomi perché questa indagine, che era, anche e soprattutto, l’analisi militante del trauma della lingua stessa, sia rimasto al riparo delle ingerenze dell’editoria mondiale, che invece hanno “scoperto” e “venduto” con tanto guadagno, la Saga di Ferrante…

  1. L’assenza: mi ritorna qui in mente Emily Dickinson, la donna minuta, vestita di bianco, solitariamente dimorante nel perimento della sua stanza con finestra, comunicando con il mondo tramite la poesia, e con le lettere passate nel segreto, indecidibile e indicibile, “geniale”, del riserbo, oltre ogni spettacolarizzazione. ll ricordo e la forza del suo enigma lirico mi aiutano a difendermi dal noise assillante e invasivo del “caso” Ferrante…

  2. La condivisione: per il demone che interpreto, è qui in gioco l’ultimo e forse il più importante tratto della “differenza”. Se il presente ha sancito la capacità del “dispositivo Ferrante” di rappresentare l’individuazione comune al femminile che, in realtà, ancora oggi fa ancora fatica ad accedere alla visibilità e alla dicibilità privata e pubblica (attirando a sé, letalmente, sempre più violenza e aggressività), si potrà mai rivendicare una “singolarità” che egualmente appartiene a una generazione di donne che non possono condividere in nessun modo i percorsi dei personaggi femminili di Ferrante?

Sono nata nel 1959, nei pressi di Napoli, da una madre di famiglia contadina, povera e solidale, affettuosa e premurosa. Mia madre era una donna libera, intelligente e forte; mi ha insegnato il senso della giustizia e del rispetto. Anche lei migrata nella cultura nazionale urbana, anche lei sposa per amore e libera per disamore, non ha mai sentito e vissuto il rancore, il risentimento o il pregiudizio storico e culturale (se lo ha fatto, ha lottato una vita per superarlo) ma, da essere libero e solo, ha sostenuto indefessamente la mia curiosità intellettiva, la mia “istruzione”. Non ho conosciuto violenza da mio padre – certamente euforico per il boom culturale degli anni Sessanta, e così aderente al mito del “vitellone” da perdere progressivamente ogni fascino e affezione… Potrei continuare la mia saga – che è sicuramente meno geniale di quella di Ferrante ma che appare, alla consapevolezza della mia vita, sempre irrequieta e insofferente a conformarsi alla “tipizzazione”.

Che spazio offre il “dispositivo Ferrante” all’altra da sé? Che interesse può avere a tipizzare ciò che non può e non vuole esserlo? Quale visibilità propone se la sua individuazione si associa allo stereotipo, e alla devastante malinconia che lo stereotipo porta con sé? La serie televisiva, ancor più che il romanzo, a me si rilevava impossibile da guardare e da ascoltare; che lingua era quella? Perché risuonava così falsa? E perché proprio da Napoli doveva inviarsi al mondo quel tono malinconico, triste, affannato, così imbalsamato, rigido e severo, addirittura da “cattivo auspicio”? Le donne che ho amato e amo nella letteratura e nella vita, sono benedette dalla jouissance, insofferenti al suo dialettico e destinale opposto, il “sole nero” che ha impegnato Julia Kristeva in un’opera magistrale per la liberazione delle donne, ma che certo non ne indica l’irremovibilità e/o la condivisione globale….

E perché, questa “insormontabile malinconia” condivisa dalle donne del globo, è così dolorosamente associata, all’interno della Tetralogia, alla scrittura stessa, al Libro, che, invece e diversamente, come mi hanno insegnato le dee della differenza sessuale, vola/ruba in singolarità e in differenza, facendosi progetto totale, già e sempre, inscritto nella vita delle donne avvenuta prima di ogni genesi, e sempre futura, ancora a-venire… ?

Quanti passi il genio vorrebbe ancora percorrere, forse un po’ provocatoriamente a mettere in discussione ogni certezza… Rimane, infine, l’evocazione di Derrida che, parlando della Tout-puissance-autre della Letteratura, conclude affermando che il genio è ciò che accade – contro, oltre, fuori da, e in rottura con ogni omogeneità familiare genetica, generazionale, e genetica, costituendo il gettito imprevedibile e incontrollabile di ciò che arriva a portare con sé la mutazione e la discontinuità, l’imprevedibilità e la contingenza:

Geniale non è un soggetto, né un soggetto immaginario, né un soggetto della legge o del simbolico, un soggetto possibile, ma ciò che succede […] Geniale è l’unicità di una arrivance impossibile alla quale ci si indirizza, che non è che l’improbabile destinazione dell’indirizzo – e è sempre “tu”… (p. 91)

Grazie per l’arrivo della tua generosità, Viviana.

1. J. Derrida, Genèses, généalogies, genres, et le gènie. Les secrets de l’archive, Paris, Galilée, 2003 (mia traduzione).

Viviana Scarinci, Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante. Un ritratto delle italiane del XX secolo, Iacobelli editore, 2020

e-Pub 7,99 euro


Tra donne l’altra economia relazionale

Risposta a Silvana Carotenuto dalla terra e dalla lingua che ci ha alimentate e delle quali il “dispositivo Ferrante” si è nutrito per oltre un trentennio. Su Leggendaria n. 147

di Viviana Scarinci

Inizierò a scrivere una risposta a Silvana Carotenuto come faccio nei casi in cui mi metto a scrivere perché un testo, affrontato da lettrice quale rivendico di essere in primo luogo, mi spinge a un’adesione quasi corale verso qualcosa che mi riguarda da vicino. Così sono stati i libri di Elena Ferrante per me. Così questo generoso scritto di Carotenuto che riguarda l’opera di Ferrante e l’ottica in cui l’ho inquadrata ne Il libro di tutti. E ancora, così come è stato importante e saturo di conseguenze, l’altro testo/incontro in cui Silvana inquadra un romanzo importante per entrambe noi lettrici, La vegetariana di Han Kang, in quel libro fondamentale che è Femminismi futuri. Teorie, poetiche, fabulazioni a cura di Lidia Curti e Marina Vitale (Iacobelli, 2019). In quel saggio Carotenuto declinava il controcanto fusionale e ambivalente offerto dalla prossimità dell’altra nel binomio autrice/lettrice ma anche sorella/sorella (è una sorella l’interlocutrice chiave nel caso del romanzo di Han Kang) definendo letteralmente questo controcanto come una sorellanza arborea e con ciò mettendo in esergo proprio l’Hélène Cixous della quale Jacques Derrida celebra l’opera: «Ero il giardino, ero dentro, ero fatta di diamanti unici e io non avevo nome. Terra, terra, ho gridato».

Da lettrici, i movimenti, gli spostamenti sotterranei dei nostri radicamenti più pervicaci generano visioni subatomiche in cui la soggettività è autorizzata a dimenticare un nome a cui l’io è obbligato a rispondere. Ciò vuol dire discendere in quella cocente fusionalità che è anche l’humus che ci ha generate in termini culturali perché è la terra/lingua che, nel bene e nel male, ci ha alimentato dalla nascita. Per quanto ognuna ne abbia tratto qualcosa di diverso, è la terra inevitabilmente condivisa che deve interrogarci come un fatto in ogni caso catartico e capace di nuova conoscenza nonostante questo processare la lettura in altri termini sfugga di continuo a una definizione.

È partendo da questo presupposto che rispondo a ciò che mi è apparsa subito come una matassa dai fili cangianti che Carotenuto lettrice mi ha fatto l’enorme piacere di disporre su un piano lustro e luminoso come quello della sua scrittura/analisi, in modo di poter continuare un ragionamento, una condivisione e la nostra vicinanza.

Un’alterità incondizionata ovvero l’archivio della lettrice

La lettrice si definisce nel momento in cui si smarca da un percorso canonico e da un indirizzo gerarchico dato, e qualora dia notizie di sé in quanto entità terza, titolata da nient’altro che non sia il suo essere lettrice. Entità, quella della lettrice, che si colloca in modo abusivo e spensierato tra l’opera e l’intero mondo di lettrici e lettori effettivi e possibili dell’autrice che sta leggendo. Dare conto di questo percorso puramente individuale nell’opera di Elena Ferrante per me non è significato mai esercitare un ruolo (come ad esempio quello di critico letterario che per altro non mi appartiene) semmai è significato far prevalere su tutto una certa passione archivistica, e un amore da collezionista per il reperto eterodosso che, in tutto ciò che riguarda il “dispositivo Ferrante” – libri, temi, interviste rilasciate dall’autrice, interventi accademici, recensioni, articoli dedicati, strategie, fiction – è molto più presente di quello che apparentemente può sembrare.

Dev’essere stato appunto l’approccio dovuto a questo modo di essere lettrice ad alimentare per tanti anni il mio interesse per Elena Ferrante, nonostante la mia personale storia familiare sia ben altra da quella descritta nei romanzi napoletani e io, come donna, appartenga a una generazione che non è quella del “trauma” ossia quella delle nate intorno agli anni Cinquanta del Novecento, né tanto meno quella de La vita bugiarda degli adulti, delle nate intorno agli anni Ottanta. Dunque, anche la mia singolarità non può condividere i percorsi dei personaggi di Ferrante salvo che per via di quella terra di cui sopra che ha generato me come lettrice, un canone letterario inevitabile e fortemente orientato che vorrebbe precludermi l’ascolto di un discorso letterario davvero illimitato, e Ferrante come “dispositivo”. Perciò il punto di partenza per me doveva essere giocoforza l’Italia e le sue lingue, ossia la nazionalità che condivido con l’autrice e il condizionamento determinato da alcuni linguaggi che hanno generato altrettante narrazioni fortemente connotate interne al discorso letterario e alla storia del nostro Paese.

Dal trauma all’apparenza della semplificazione

Ne Il libro di tutti ho ipotizzato che il passaggio dalla visione soggettiva e isolata del trauma dei romanzi precedenti a L’amica geniale e la risoluzione di questo passaggio in un racconto solo apparentemente di immediata fruizione, non abbia risolto il trauma subito dalle protagoniste Delia, Olga e Leda, che restano impigliate nell’incapacità discorsiva di comprendere se stesse. Ma che abbia mutato l’espressione di questo trauma, di concerto ai mutamenti politici, civili, globali occorsi nel frattempo che hanno portato un romanzo italiano a costituirsi come un racconto che potesse soddisfare le esigenze dei fruitori/lettori in termini globali. Vale a dire, di un pubblico per lo più nato spettatore a prescindere che si tratti di politica, economia, libri, serie TV o social media.

Tuttavia, porsi il problema di compilare un discorso letterario che si prefigga a monte lo scopo di essere recepito il più largamente possibile, con Ferrante ha messo in campo una serie di strategie che non possono essere liquidate facilmente parlando di semplificazione, perché attengono in ogni caso al senso e alla funzione politica della letteratura scritta da donne, come scrittura storicamente estromessa, come sguardo lungamente espropriato anche dal vedere il colore dei propri stessi occhi. Per indicare questo nodo, ne Il libro di tutti ho ragionato in parte da poeta, scavando nei meccanismi di una collusione, non so se fortuita ma a volte schiacciante, tra il Faust di Goethe e un certo rovesciamento programmatico al femminile di alcuni aspetti il cui solo concepimento come possibilità narrativa data a un romanzo, ha del picaresco. Picaresco, farsesco, amaro lo ritrovo nella zia Vittoria de La vita bugiarda degli adulti e nelle avventure di Giovanna quando scopre che la menzogna è il cavallo di battaglia della realtà soprattutto nel momento in cui il linguaggio non mostra deficienze.

Da lettrice ho trovato una sfrontatezza emotiva direi dolorosa nell’esposizione del pensiero ossessivo e monologante di Lenuccia. Lenuccia, che è sempre la voce narrante dei romanzi napoletani, si esprime in un linguaggio a volte povero, a volte raffazzonato, come quello iper-espressivo della quotidianità non letteraria. L’enormità del numero di personaggi ed eventi che caratterizzano L’amica geniale potrebbe offrire un’opportunità descrittiva sterminata per una narratrice letteraria, eppure l’autrice di questo monologo non esibisce la tanto agognata istruzione superiore nella costruzione linguistica del suo racconto. La lingua di Lenuccia coincide con un destino di subalternità, chiusura, perdita di sé e malinconia, e lo denuncia. Perché, per quanto i suoceri la ritengano socialmente un’arrivista, per quanto sia un personaggio di successo, lei non ha occhi che per l’altra, la quale immancabilmente latita. Come se ciò che realmente latita non fosse una definizione di Lila ma l’accordarsi il permesso, da parte di Lenuccia, di focalizzare la propria lingua esclusivamente sulla vicenda di se stessa.

Esiste un assoluto della scrittura femminile capace di immanenza e trascendenza, ed è quello che può e sa Lila, ma non lo leggiamo ne L’ amica geniale, ne abbiamo notizia solo dal rovello di Lenuccia che lo conosce, lo invidia, lo copia e lo comprende inarrivabile. È vero, quella di Ferrante non è una lingua confidente, come quella di Lispector, Bachmann, Ortese, Woolf, Morante. Non è una scrittura fiduciosa che lo scavo linguistico dentro l’indipendenza utopica di una scrittrice sia in grado di esercitare tutti i poteri, compreso quello di mutare le contraddizioni, le ossessioni, la paura e l’esproprio (tipici di una storia governata da un destino legato al genere cui appartengono Lila e Lenuccia) in quella forma di letteratura sublime e necessaria in cui, invece, alcune altre scrittrici hanno a ragione creduto.

Invisibile ma non come Emily

La poeta Emily Dickinson entra nel mio discorso su Ferrante quasi per caso. Dickinson è poeta che ho amato moltissimo e della quale ho scritto a più riprese. Un giorno del 2016, cercando su web tracce digitali delle parole di Elena Ferrante (nei primi tempi del suo successo globale reperibili più spesso su siti esteri che italiani), mi sono imbattuta in un libro in cui tra la voce di molte donne di rilievo spiccava quella di Elena Ferrante. La casa editrice Simon and Schuster pubblicava, con un titolo che era tutto un programma, un’antologia a cura di Anthony Holden e Ben Holden che si intitola Poems That Make Grown Women Cry. Da Yoko Ono a Judi Dench, passando per Ferrante, veniva chiesto a cento donne che si sono distinte nei campi delle arti, delle scienze e dei diritti umani di indicare quale poesia le avesse più intimamente accompagnate lungo il loro percorso di crescita. Il fatto che Elena Ferrante scegliesse un brano di Emily Dickinson mi colpì, ma non per via di una scelta di invisibilità che potesse mettere le due autrici in qualche modo sullo stesso piano. Dickinson è stata una poeta che scriveva lettere a un mondo che non le avrebbe mai risposto mentre lei era ancora in vita, perché inadeguato a comprenderla. Tuttavia, la condizione di invisibilità di Dickinson era una conseguenza della sua essenza creaturale, non l’oggetto di una poetica. Allora mi parve invece che attraverso la scelta della poesia di Dickinson, Ferrante delineasse alcuni aspetti legati all’identità di genere che fino ad allora non avevo osservato con la dovuta attenzione. La Dickinson scelta da Ferrante in quel contesto dichiarava: «I took my power in my hand / And went against the world; / ’T was not so much as David had, / But I was twice as bold. // I aimed my pebble, but myself / Was all the one that fell. / Was it Goliath was too large, / Or only I too small?». Un’identità che specula febbrilmente per costruire sul piano teorico la propria difficile emancipazione si pone nella periferia disagiata in cui fa da padrone soprattutto il dubbio di non farcela. Da dove viene quella tendenza “sociale” che conduce a marginalizzare ciò che è in vari modi incontrollabile, dubitativo oltre che spaventoso per la sua coriacea imprevedibilità, quando il movimento emancipatore si attiva davvero nell’esistenza di una donna? E quando parlo di emancipazione non parlo solo in termini sociali, politici ed economici ma anche e soprattutto in termini psicologici. Come non pensare a Lila, e alla prepotenza dei suoi tentativi? Forse è proprio quell’affacciarsi, inevitabile, sul tremendo – che si viva al margine o al centro di un universo imposto o scelto, che si sia ottenuta o meno la desiderata o indesiderata visibilità – ad avere consentito quella “individuazione comune” se non a tutto il femminile, comunque, e di fatto, a moltissime donne di tutte le età e nazionalità.

Il genio non è un soggetto, scrive Silvana Carotenuto, neppure un soggetto immaginario per le leggi o per il simbolico, un possibile soggetto, il genio è ciò che succede. Credo che questa sia l’essenza effettiva della genialità dell’opera di Elena Ferrante che tanto ha saputo generare, trasformare, produrre senza uscire da una parzialità apocrifa che non ha fatto che rendere costruttiva e feconda ogni plausibile e circostanziata querela che chiedesse all’opera e non all’autrice, di scagionare se stessa.

 

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Silvana Carotenuto

Silvana Carotenuto è Professore Associato di ‘Letterature in lingua inglese’ all’Università di Napoli L’Orientale, dove dirige il Centro di Studi Postcoloniali e di Genere (CSPG). La sua produzione scientifica si colloca nell’ambito degli studi culturali e postcoloniali, della decostruzione e della écriture feminine, e degli studi visuali. Le sue recenti pubblicazioni includono: “Il (Libro in) cammino di Jamaica Kincaid nel ‘Paradiso’ reclamato”, «Scritture migranti. Rivista di scambi interculturali» vol. 14 - Turismo e migrazione, a cura di P. Musarò, E. Piga Bruni (2021, in corso di stampa); “Events of Thought in Chinese Contemporary Female Art”, in Falsework Smalltalk. Political Education, Aesthetics Archives, Recitations of a Future in Common (Some Beloved, Inc., Richmond, Massachusetts, and Folio Books, Lahore, Pakistan, 2021); “La scrittura ‘vegetariana’ di Han Kang,” in L. Curti (a cura di), Femminismi futuri (Roma, Iacobelli, 2019); “La Dea della Differenza sessuale”, Leggendaria, Passo a due, n.129, 2018; Le “figure stringa” nella fantascienza di Nnedi Okorafor, Leggendaria, n.124, Pensare il futuro, 2017; “Il ritorno della ‘Grande Straniera’: interrogazione, scrittura e condivisione della Letteratura” in Ritorni Critici (Roma, Meltemi, 2017). E’ responsabile del gruppo di ricerca M.A.M, e dell’archivio digitale “Matriarchivio del Mediterraneo” (www.matriarchiviomediterraneo.org). Il suo La pupilla di Demetra. La decostruzione e le arti esce nel 2021 per i caratteri di Archive Books (Berlino-Milano).

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