Il vuoto non pretende di essere colmato

Viviana Scarinci, 24 luglio 2021

«Le storie sono all’inizio tutte uguali, poi avviene l’incontro con il mondo», scrive Gabriella Musetti nella sua nuova raccolta poetica con prefazione di Chiara Zamboni. Nel mimare la morte di queste molte donne/poesia (che lei compone con una delicatezza fuori dal comune), esiste un afflato insopprimibile all’irregolarità.

 

di Viviana Scarinci

 

«Quando da Bambina passavo molto tempo nei Boschi, mi si diceva che il Serpente mi avrebbe morso, che avrei potuto raccogliere un fiore velenoso, o che gli Spiriti Maligni mi avrebbero rapita, ma io non rinunciai e non incontrai altro che Angeli che erano ancora più timidi al mio cospetto, di quanto lo fossi io al loro, per questo non ho quella sicurezza nella menzogna che molti invece praticano». Emily Dickinson, Lettere (271)

  

Cos’è il non avere questa sicurezza nella menzogna di cui parla la poeta? Con questa premessa presa in prestito da Dickinson, Musetti schiude a lettrici e lettori un testo che somiglia alla possibilità di percorrere o meno quel Bosco che alla poeta di Amherst era raccomandato di non frequentare. Monito annoso rispetto a un pericolo certo, sicuro come una menzogna la quale spaventi per sottrarre vita a quelle che trasgredendo, si possano inoltrare proprio nel folto di quel Bosco.

 Premesso che inoltrarsi nel Bosco significa anche e soprattutto inoltrarsi nella natura non addomesticata, questa prima parte del libro ha per costante in ogni poesia la descrizione della morte di una donna. Non propriamente la descrizione di una morte biologica ma piuttosto quel morire legato alle credenze che la paura eccita e che la poesia di Musetti effigia rendendo, quel terrore, un sentire iconico che riporta la nostra memoria ancestrale all’orrore di una morte per asfissia. Una morte, a volte autoinflitta, altre inferta che ha per oggetto la menzogna/certezza in merito ai molti pericoli del vivere. 

 

«lei era morta mangiandosi/ da dentro – sempre più/ smagriva si assottigliava/ la sua battaglia incalzante/ dissipava le energie/ tenacemente si consumava» (p. 30).

 

Le storie sono all’inizio tutte uguali dice Musetti, poi avviene l’incontro con il mondo in piena coscienza o mancanti di coscienza del proprio status. Nel mezzo agisce la menzogna/certezza mai decaduta, con la quale si voleva convincere la Dickinson dell’esergo di Musetti a desistere dall’addentrarsi, spaventarla più con lo spauracchio del serpente infernale che facendole balenare la viva realtà di angeli boschivi, dei quali nonostante tutto Dickinson appurò l’esistenza attraverso la lente della poesia.

Ma l’inaddomesticato è non ritorno scrive ancora Musetti nella seconda parte del libro, quella che si apre con alcune poesie dedicate alle poete e scrittrici morte suicide. Plath, Rosselli, Pozzi e le altre per le quali l’esperienza della propria scrittura/natura nasce da un corpo straniero sessuato il cui vuoto non pretende di essere colmato. Qui ci dobbiamo soffermare sul significato altro di questo vuoto cui consegna l’inaddomesticato. Ossia un corpo per cui non esiste nomina o luogo per così dire originario, dentro un ordine simbolico monolitico per cui il vuoto è semplicemente qualcosa che deve essere colonizzato attraverso una definizione che lo renda non più tale. 

 

È la prefazione di Chiara Zamboni a mettere su questo avviso dando una lettura de Un buon uso della vita che proviene da una posizione politica profondamente vissuta e spiritualmente consistente. Come non pensare all’aspetto ulteriore di questo vuoto privo di richiami, se leggiamo le parole che Zamboni dedica allo scarto che sussiste tra la realtà e il reale nel suo ultimo libro Sentire e scrivere la natura (Mimesis, 2020): «Si tratta di un passaggio dalla realtà all’emergere del reale, carico di onirico. Dove, per realtà possiamo intendere ciò che rientra nel mondo dei fatti, mentre il reale intrattiene un rapporto con il visibile non visto». (p.19)

 

Ecco, credo che rientri proprio in questo scarto, il significato del vuoto e della morte che Musetti tratta come esperienze di genere, relative al genere di quel corpo straniero e sessuato che nel mondo dei fatti non trova il proprio precipuo riconoscimento simbolico e materiale.


Le donne che muoiono nella poesia di Musetti si lasciano guardare non attraverso la loro dipartita effettiva, come accadrebbe appunto nel
 mondo dei fatti ma seguendo una fuoriuscita diversa. L’evasione dal binario di quelle che non hanno incontrato e affrontato l’esperienza non più spaventosa dell’inaddomesticarsi. 

 

Nell’ultima parte del libro Musetti introduce con una breve nota un corollario di citazioni che servano da legenda all’opera poetica ma hanno anche il compito di chiarire in modo diretto quale sia la posizione politica di questa poesia e il suo legame con l’esperienza di genere attraverso la riconoscenza a una genealogia di scrittrici e pensatrici che hanno illuminato, con le loro parole, il percorso collettivo di vita e il pensiero di innumerevoli donne. «Dall’eccezionalità dei loro scritti e comportamenti sono partiti le riflessioni, gli atti di ribellione, lo spostamento di visuale, i posizionamenti da cui le donne contemporanee si muovono». (p.66)

Tuttavia specie nella prima parte del libro, come ho provato sommariamente a illustrare, mi pare che ci sia di più. Nel mimare la morte di queste molte donne/poesia che Musetti compone con una grazia e una delicatezza davvero fuori dal comune, esiste un afflato insopprimibile all’irregolarità che sfugge anche alla buona pratica filosofica di spiegare, di spiegarsi. È quella grazia che apre il campo fuori dalla salvezza promessa da certe menzogne, verso il morire episodico di trovarsi realmente dentro un’esperienza non ponderabile altrimenti che da un vissuto genuinamente raccolto nella propria soggettività. La soggettività di ciascuna donna comune o scrittrice ritratta da ogni singola poesia nel modo esclusivo di un morire che le è soltanto proprio. 

Ciò non poteva essere espresso altrimenti che dalla poesia di Musetti la quale sa parlare della morte come fosse un cadere per un istante con la propria coscienza dentro quella dismisura senza limiti conosciuti che in effetti somiglia a morire. In cui però a volte c’è più vita e meno menzogna di quanta ce ne sia nel così detto mondo dei fatti. 

Gabriella Musetti, “Un buon uso della vita”, Samuele, 2021

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Viviana Scarinci

Viviana Scarinci è autrice di saggistica con Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo (Iacobelli, 2020), Neapolitanische Puppen. Ein Essay über die Welt von Elena Ferrante trad. tedesca Ingrid Ickler (Launenweber, 2018), Elena Ferrante ( E-book Doppiozero, 2014). Si occupa del progetto Contemporanea Fondo Librario e fa parte del consiglio direttivo della Società Italiana delle letterate. Per la poesia ha pubblicato Annina tragicomica (Formebrevi, 2017) La favola di Lilith trad. inglese Natalia Nebel, Libro e CD con musiche originali di Edo Notarloberti per l’etichetta discografica ARK Records 2014, Piccole estensioni (Anterem Edizioni, 2014). Il suo blog è https://vivianascarinci.blog/

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