Lettera a G

Chiara Ingrao, 13 giugno 2021

Pensieri sparsi su “L’acqua del lago non è mai dolce” di Giulia Caminito. La scrittrice, e redattrice di Letterate Magazine, con questo romanzo è entrata nella cinquina dei finalisti del premio Strega 2021

 

Di Chiara Ingrao

 

“oltre questa nebbia, oltre il temporale,

c’è una notte lunga e limpida, finirà,

ma è la tenerezza, che ci fa paura”

 

Cara G,

non ti offendere se ti chiamo solo con l’iniziale, lo so bene che il tuo nome ormai lo conoscono tutti, ma non era così quando ti ho incontrata la prima volta, e tu ancora non ti eri esposta agli sguardi, non ti eri ancora tramutata in un oggetto di carta.  Eri lì, nel baluginio di uno schermo, e mi parlavi del cortile di cemento in cui giocavi con tuo fratello Mariano, di quella casa che non era una casa e della feroce ostinazione di tua madre Antonia a conquistare per voi tutti una casa vera, per te e per lui e per i gemelli Roberto e Maicol, e per tuo padre Massimo spezzato a metà dopo la caduta da un’impalcatura in cantiere, e della sconfitta della cinica Vittoria Ragni che vi proietta in un condominio di ricchi, e poi dello scambio con la signora Mirella che vi tira fuori di lì per scagliarvi sulla riva del lago… Il lago di Bracciano, sì. Il paese che si chiama Anguillara Sabazia, la ferrovia dei pendolari su cui tu sali tutti i giorni che si chiama la Roma-Viterbo, e su quel treno si forma la fragile alleanza con Carlotta e Agata, e in quella scuola incontri Luciano, così diverso da Orso e dal Greco, e da Alessandro che ti tormentava chiamandoti Orecchie e da Andrea che ti ha fatto scoprire che sai sparare e non solo quello, e da Cristiano il vendicatore dei tuoi torti, che ti ascolta e ti porta in motorino a fari spenti… Tutti avevano dei nomi, quando ti ho conosciuta la prima volta: tu no. Tu eri “io”, io e basta, perché così era giusto che fosse.

 

Ho avuto un tuffo di riconoscimento al cuore, allora, quando alla fine di quel percorso ho letto la tua firma in calce a una lettera, scritta a chi non poteva riceverla più: ho riconosciuto perché dovevi proprio chiamarti così, e perché quel nome assurdo avevi fatto bene a tacerlo, per svelarlo solo al momento di firmare il tuo dolore impotente. Così era, così doveva essere – e così oggi mi sembra di esserti più fedele e vicina, se anch’io ti evoco ma non ti nomino, in questa mia lettera. E poi G è pure il nome dell’altra, e forse non a caso – l’altra che tesse la trama della tua vita e mi balza incontro impietosa, quando mi chiede e si chiede: “Come si dice la gelosia, come si dice la paura, come si dice la perdita, come si dice il futuro che non si realizzerà”.

 

L’altra G come si dice lo sa, anche se per saperlo ha dovuto faticare e soffrire – ma le parole le trova sempre, lei.  Perché l’altra G le parole le ama, è da tanto tempo che l’ho scoperto, ed è anche per questo che io amo lei, perché lei le parole le sceglie e le cura, lei le cesella a una a una, anche quando non sembrano cesellate affatto, quando sono aspre e grezze e ripetute ossessivamente: perché così deve essere nel dire di te. Perché la ripetitività è importante, è uno dei volti della tua vita, di quel tuo continuo dibatterti in lunghi elenchi di ricordi e di nomi e di luoghi, di troppo detto e di indicibile.

 

“Potrei dirgli che voglio tutto, tutto quello che è contenuto in quella casa e nella casa a fianco, tutte le macchine parcheggiate sulla via, tutti i motorini nei garage, tutte le antenne per la televisione, i frullatori, i forni elettrici, le borse a tracolla, i minipimer, i cuscini sui divani, i tappetini nel bagno, le ante della credenza, i vasi di gerani sul retro, le tegole del tetto”… Potresti dirgli ma non lo dici, G, non lo dici a Cristiano e nemmeno a te stessa, lo sai benissimo che la tua rabbia del non avere non puoi placarla riuscendo ad avere qualche oggetto in più, e poi è davvero solo rabbia del non avere, la tua?

 

L’altra G ci accompagna passo passo, lungo i sentieri e le curve della tua rabbia che monta, delle rotule che spezzi senza placarti, della furia inesorabilmente mischiata al dolore e dell’affannarsi sui libri che quella furia non riusciranno ad ammutolirla mai, e poi della voce che si fa acidula, quando tuo fratello Mariano ti chiede di quella che si è ammazzata, quella chi? Quella che di notte “diventa un mostro nero, un’arpia” quella che è tradimento e amicizia e amore strappato, e tutto ciò che tu rifiuti di essere, quella che “ha inghiottito i segreti, quelli finti, quelli veri, quelli inascoltati” ma i tuoi segreti quali sono, perché tuo fratello non riesce più a decifrarli? “Nella mia pancia abitano solo pietre”, ti dici e ci dici.

 

Ho avuto paura di quelle pietre, G. Della violenza, della ferocia, della frustrazione, della cattiveria. Di tutto quello che attraversa la tua storia e il tuo corpo e il tuo cuore, seminando squarci che non riescono mai a rimarginarsi. Ne ho patito con te e per te, ma anche per me, e per l’altra dietro e dentro di te. L’altra G, che ha camminato a lungo nei tuoi pensieri, e che un giorno ha scritto di quel suo cammino impervio, in un post su facebook: “non so se sono riuscita a essere abbastanza cattiva”. O qualcosa del genere, non ricordo di preciso; ma ricordo bene il mio sobbalzo, a leggere quella parola, e la paura che mi ha incistato dentro mentre sentivo parlare lei attraverso te, o te attraverso lei, fa lo stesso. Perché lo confesso, a te non posso non confessarlo:  io provo quasi disgusto, G, per quelle storie oggi così di moda e acclamate, il cui tratto dominante è la convinzione pervicace che la cattiveria vince sempre, non solo nelle cose e nei rapporti di forza ma anche nell’animo umano, che in un mondo di merda chi ha in sorte di abitarlo con più difficoltà e fatica non possa alla fine che impregnarsi di merda, perché gli umani alla fine questo sono – merda e cattiveria, e null’altro. Avrei dovuto saperlo – anzi nel profondo lo sapevo – che nel compiacimento cattivista l’altra G non sarebbe caduta mai, che la tua non era soltanto una storia di cattiveria, o almeno non in quel senso, perché tu… Tu cosa? Che cos’è, che vorrei dirti e non riesco?

 

Il fatto è che tu sei così disperatamente giovane, G. Detta così è una cosa idiota, lo so benissimo – ma è vera. Io ti incontro, vi incontro, so che il mondo in cui vivete e in cui vivo anch’io oggi è questo, mi ci tuffo dentro tentando di afferrarne il senso ma in realtà annaspo, non mi sembra mai di raggiungerti, mi sento annegare. Perché il mio mondo, quello da cui provengo e che mi ha plasmata, non è il tuo, cara G, è un altro: è quello di Antonia. E d’accordo, lo so benissimo quanto tua madre è diversa da me, io non ho mai avuto verso le mie figlie la stessa durezza, e soprattutto la vita non ha avuto con me nemmeno un minuscolo frammento della durezza che ha avuto con lei, ma che vuol dire? Anche l’altra G è diversa da te, lo sa e lo dice e lo sappiamo tutte e tre, ma il suo su di te è “il racconto degli anni in cui sono cresciuta”, mentre quelli in cui sono cresciuta io, quegli anni lontani e straordinari e sconfitti, sono anni in cui ce n’erano a migliaia ovunque, di gesti di sfida come quello di Antonia, di mettersi in mutande per giorni nel cortile vietato dai condomini a una bambina disabile, per far valere il suo diritto ad un angolo al sole. E lo so, certo che lo so, che lei quel gesto lo compie da sola, mentre noi li compivamo insieme, parte di un noi che ci comprendeva e ci riscaldava il cuore, ma insomma…

 

Insomma io mi ci sono vista subito, in mutande in mezzo a quel cortile di ricchi, io e le mie figlie. Quante volte in quei tempi lontani le ho trascinate alle manifestazioni, le ho bombardate di prediche sul dovere di rispettare le cose di tutti? E quella volta a Villa Borghese, che ho quasi aggredito uno che non era nemmeno mio figlio, solo perché aveva strappato alcune rose da una parete fiorita? “Ma le ho prese per la mia fidanzata…” balbettava lui senza capire. Era convinto di aver fatto un gesto romantico, e come fa questa tipa isterica a non farsi commuovere, avrà pensato di certo, come fa a sbraitare questa frase insensata, “quello che è di tutti non si tocca”, proprio come Antonia quando la rosa di tutti l’hai colta tu? E poi comunque che accidenti vuol dire, “di tutti”?

 

Nemmeno io lo so più davvero, cosa vuol dire oggi quella parola. E nemmeno mi riconosco più in quel principe Myškin di Dostoevsky, che quando avevo la tua età amavo tantissimo e che tu invece vorresti prendere a schiaffi. Pure mi assale un moto di tenerezza, mia piccola G, quando tu indossi la tua corazza di latta per dichiarare spavalda, parlando di lui: “Io odio gli innocenti”. Cosa c’è di più innocente, di una dichiarazione così? Quanto è disperatamente innocente, quel tuo unico momento di felicità piena, quando ti convinci che “anche a me è dovuta la beatitudine” e ti senti lievitata, come un impasto coperto da un panno: “Andrea mi ama – certo che mi ama – Iris si è pentita di quei dieci motivi per farsi odiare. Elena è un proiettile in fuga, lo slancio verso il futuro, è evidente adesso che io posso agire ed essere ogni cosa”.

 

Agire ed essere ogni cosa, ma scherziamo? L’ho sentito immediatamente, che la tua storia non poteva finire così, e nemmeno lo avrei voluto. E forse nemmeno l’Antonia che è in me, avrebbe accettato quella ricetta di felicità così semplice: studio, amore, amicizia, e chi ti ha ferita e hai ferito tramutata in un proiettile in fuga, verso un sogno di onnipotenza tinto di rosa, in cui “l’acqua del lago è sempre dolce”… o no? No, non è con un lieto fine intriso di zucchero, che l’altra G poteva sfuggire al cattivismo letterario da me tanto odiato, solo per sposare il suo opposto; ma come farà, mi chiedevo, come farà a evitare la trappola, dove accidenti la porterà, questa storia? Non riuscivo a intuirlo, davvero. È anche così, non solo con le emozioni e con l’empatia, che lei mi ha inchiodata a ogni giorno e ogni riga e ogni pagina, alla cattiveria e al bisogno d’amore, alla crudeltà e al lutto, ai sogni spezzati, alla malattia e alla lettera all’amica perduta, e a quei tuoi ultimi passi sul molo, dopo aver attraversato le stradine e le piazzette e i pensieri cattivi, i ricordi dei litigi e della bicicletta e delle orecchie bucate, e di un inutile sacchetto di limoni lasciato a terra a marcire, mentre marciva anche una vita e un pezzo di te.

 

Così alla fine ti ho seguita correndo, G, ansimando verso una fine che non è una fine, che non dà risposte e non chiude il cerchio, non agghiaccia né consola, non svela il futuro: apre solo alla tua fatica di cercarlo, mia giovanissima amica, un cammino nuovo senza di lei ma con lei, con dolore ma senza ferocia, con un urlo e una parola magica che ha lasciato anche me sospesa nel vuoto, prima di sprofondare nel lago. Buon viaggio nel mondo, Gaia.

 

Giulia Caminito, “L’acqua del lago non è mai dolce”, Bompiani 2021

 

 

 

 

 

 

PASSAPAROLA: FacebooktwitterpinterestlinkedinFacebooktwitterpinterestlinkedin GRAZIE ♥
The following two tabs change content below.

Chiara Ingrao

Chiara Ingrao, scrittrice e animatrice culturale nelle scuole, ha lavorato come sindacalista, interprete, parlamentare, programmista radio, consulente su diritti delle donne e diritti umani. È impegnata da anni nel femminismo, nel pacifismo, nel movimento anti-razzista. Ha scritto tre romanzi per adult*, ultimo “Migrante per sempre”, oltre a libri per bambin*, saggi, testi biografici e autobiografici. Per saperne di più: www.chiaraingrao.it

Ultimi post di Chiara Ingrao (vedi tutti)

Categorie
0 Comments
0 Pings & Trackbacks

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.