La generazione delle madri distratte

Barbara Mapelli, 4 maggio 2021

Mi è piaciuto subito il titolo del libro di Liliana Moro, “Andar pensando”. Evoca l’attività del pensiero che si propone come centrale nella serie di pratiche, scritti, presenze che il testo raccoglie e che sono da una parte la storia della stessa autrice e dall’altra una storia collettiva. Si tratta della narrazione della nascita e poi del lavoro, che dura da decenni, della Lud, la Libera Università delle donne, un riferimento importante nel panorama del femminismo nazionale e centrale in particolare in quello milanese.

Liliana ne è stata tra le prime socie fin dall’inizio anni Novanta, a seguito delle esperienze nella cooperativa Gervasia Broxon – figura di donna mai esistita, geniale mi sembra la scelta del nome – con Lea Melandri, Sara Sesti e altre ancora per dare continuità al lavoro svolto nelle scuole delle 150 ore nella zona di Affori, estrema periferia di Milano e in seguito nella rivista Lapis diretta da Lea Melandri.

Liliana esordisce nella presentazione del suo libro con questa frase, sintesi a mio parere della sua percezione di sé e della generazione cui appartiene.

La mia è stata una vita come tante, ma anche unica, se la guardo attentamente, sempre più unica e sempre più comune almeno a una generazione nata alla fine della seconda guerra mondiale che ha vissuto il Sessantotto in anni giovanili. (p.7)

Il Sessantotto e il Movimento femminista, in particolare milanese, in cui Liliana è stata con continuità attivista. E lo testimoniano gli scritti raccolti nel libro, che toccano nella progressione di trent’anni i temi centrali del dibattito del Movimento.

Ma prima di entrare nel merito dei contenuti vorrei sottolineare un‘altra qualità di questo libro: la forma, anche coraggiosa a mio parere, che Liliana gli ha dato. I temi infatti si intrecciano sempre con la sua esperienza biografica, soprattutto nei momenti cruciali, con un’adesione non di facciata al partire da sé. Ci sono poi generosi riconoscimenti alle amiche e compagne delle varie tappe di scrittura, riflessione condivisa, nell’andar pensando che ha caratterizzato Liliana, i gruppi cui ha partecipato, l’attività tutta della Libera. 

Un pensiero in perpetuo movimento, non irrigidito pregiudizialmente, un pensiero-testimone capace anche di autocritica. Il pensiero che dovrebbe essere proprio del femminismo e che molte volte, però, abbiamo noi stesse tradito. In questa fedeltà invece di Liliana si rappresenta una delle parti migliori del Movimento e c’è tutta lei, riconoscibile per chi la frequenta come me, a un tempo persona modesta – “a questo punto della vita mi sono resa conto di essere il tipo adatto alle parti secondarie, di essere quella che gioca bene in un ruolo di supporto” (p.14) – e contemporaneamente ben consapevole dell’importanza dei percorsi di pensiero e pratica condivisi con le altre, condivisi con le esperienze fondanti la propria biografia. Tra cui la maternità.

Essere madre è stata l’esperienza che mi ha segnato profondamente, dispensandomi le emozioni più forti, iscrivendomi nella catena delle generazioni, strappandomi al neutro della razionalità e della cultura in cui ero cresciuta. Lasciandomi soprattutto senza parole. Grande è stata la fatica per portare quel tipo di esperienza alla scrittura, un utile strumento per districare il groviglio che è la maternità, impasto di corpo e mente, cultura e natura, amore e odio, dedizione e autoaffermazione, emozioni ambivalenti e prescrizioni assolute. (p.13)

Lamenta poi il grande silenzio del femminismo degli anni Settanta su un’esperienza che in molte, peraltro, stavamo vivendo e propone il proprio lavoro, soprattutto di storica, alla ricerca delle interpretazioni del materno in epoche passate, scoprendo importanti mutamenti. Ma la riflessione sulla maternità continua anche in altri ambiti di ricerca e di riflessione che sono presentati nel volume e che rappresentano – già lo accennavo – i più importanti percorsi di pensiero del femminismo negli anni.

Vi sono tratti del pensiero di Liliana che non posso non citare proprio a proposito di questo tema. Quando affronta ad esempio la parte degli uomini.

Anche il corpo degli uomini è fatto per la paternità, ma nessuno pensa che un uomo debba perciò desiderare innanzitutto di essere padre. Nel senso comune a un ‘vero’ uomo basta fecondare, mentre la ‘vera’ donna, si sa, è quella dotata di ‘istinto materno’. (p.118)

E aggiunge che non c’è nulla di istintuale nelle competenze complesse che occorrono per entrare in relazione e prendersi cura di un bambino o una bambina, nulla quindi che anche un uomo non possa apprendere.

Ma anche la scuola, e le competenze come insegnante di storia, segnano un punto di interesse e vengono trattate in due capitoli del libro.

Quello dell’insegnante non è un lavoro come un altro, non era nelle mie aspirazioni giovanili, ma è poi diventato un tratto identitario, una passione – sofferta –  che forgia il carattere e l’approccio alla realtà. Come tutti i lavori di cura coinvolge l’intera personalità e deborda dalla dimensione dello scambio per entrare in quella del dono. (p.57)

E la cura, appunto, su cui lavora in un gruppo della Libera Università e di cui scrive in un volume collettivo (“L’emancipazione malata”, ed. Lud 2010).

Non può mancare nel suo contributo, ampio e che tocca diverse prospettive e contenuti, il paragrafo dal titolo “Pensare la cura, curare il pensiero”, in cui si affronta il nodo, ancora ampiamente irrisolto tra le donne, tra cura di sé e cura degli altri, impegno politico e impegno di madre, che Liliana sintetizza con un sorriso, “una fatica terribile tenere insieme riunioni e asilo, influenze e convegni”. (p.121)

E poi ancora il tema della guerra e quello della scienza, a cui si è dedicata per molti anni con Sara Sesti, nella ricerca storica e contemporanea di donne scienziate.

Concludo questa troppo rapida sintesi con alcuni riferimenti che mi stanno a cuore particolarmente – e mescolo il partire da sé di Liliana e mio – perché siamo diventate nonne quasi contemporaneamente. E insieme ad altre siamo state intervistate per un volume dedicato a questo tema (Claudia Alemani, Maria Cristina Fedrigotti, Donne e nonne, ed. Stripes, 2012). Liliana lo commenta facendone la recensione e riesce a toccare i punti salienti di una condizione particolare anche perché particolari sono, siamo, le donne intervistate. Siamo la generazione delle madri distratte, che invece nel ruolo di nonne mostrano diverse attenzioni e investimenti: le motivazioni sono molte e in gran parte note, mi limito quindi alle ultime parole scritte da Liliana su questo tema.

Essere nonna è un’esperienza del corpo e della mente, delle relazioni e degli affetti che dà una diversa percezione di sé. Non ci si percepisce come individuo singolo, astratto, libero da legami e pertanto posto al vertice della propria libertà. Ci si vive come elemento inserito in un ciclo di relazioni generazionali, si colloca la propria singolarità in una rete che attraversa il tempo. (p.36)

Un esercizio, anche, di umiltà in cui anch’io mi sono messa alla prova, muovendo, come scrive Liliana, quel passo indietro che fa crescere l’altro e gli permette l’autonomia. Un passo indietro rispetto a figli, figlie e nipoti. Un saldo positivo – se va bene – con la storia propria e della nostra generazione.

 

Liliana Moro, “Andar pensando. Donne, maternità, guerra, scuola, storia e scienza”, Ledizioni, Milano 2020

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Barbara Mapelli

Barbara Mapelli, pedagogista e saggista, da anni mi occupo, studio e pubblico testi sulle tematiche di genere e lgbtqia+. Ho insegnato Pedagogia delle differenze di genere presso la Facoltà di Scienze della Formazione, Ateneo Bicocca. Attualmente sono nel Consiglio Direttivo della Libera Università delle Donne di Milano, nel Comitato Scientifico della Fondazione Badaracco, e, con altre/i, ho fondato il gruppo di ricerca interuniversitario NUSA (nuove soggettività adulte). Collaboro abbastanza regolarmente con la rivista Leggendaria. I miei ultimi due libri sono “Nuove Intimità”, Torino 2018 e “Nel frattempo. Storie di un altro mondo in questo mondo”, Milano 2020.

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