Le streghe e il lavoro di cura

Viviana Scarinci, 21 aprile 2021

In febbraio The New York Times Magazine pubblica un lungo articolo sul futuro del lavoro titolando: “Il lockdown ha mostrato come l’economia sfrutta le donne. Silvia Federici mette in guardia da decenni su ciò che accade quando si sottovaluta il lavoro domestico”. Lo commentiamo con gioia

Di Viviana Scarinci

 

Oggi il movimento vede come violenza lo stupro, il femminicidio, ma anche l’esproprio dalle terre, l’imposizione della miniera, la gentrificazione che ti costringe a vivere per strada, e ormai capisce che è un rapporto che si dà in forme diverse ma a livello globale[1]. Silvia Federici

In “Calibano e la strega. Le donne, il corpo, e l’accumulazione originaria”, edito negli Stati Uniti nel 2004 e in Italia nel 2015, Silvia Federici illustrava già quei temi e la loro collocazione storica, geografica e politica che oggi a quasi cinquanta anni dall’inizio della ricerca che ne è stata la genesi, la confermano come una studiosa di grande lungimiranza. Ne è testimone l’attuale diffusione mediatica del suo pensiero, in particolar modo negli USA ma non solo. Insomma i temi dell’attivista, femminista e docente universitaria, si dimostrano ineludibili specialmente in questo ultimo periodo contraddistinto dalla pandemia e da una profondissima crisi economica, sociale e culturale non esclusivamente provocata dall’emergenza globale e dall’urgenza di fare fronte alla minaccia costituita dal covid.

A chi ne conosca anche solo un minimo, non sorprende affatto che i contenuti della ricerca di Federici trovino una ulteriore diffusione in un momento in cui il lavoro di cura è inevitabilmente al centro dei riflettori. Federici sostiene infatti da sempre che il lavoro domestico sia un lavoro non salariato cioè una forma di sfruttamento economico di genere su cui poggia un capitalismo al limite della sua mancanza di limiti. E in “Calibano e la strega” ne indaga le possibili motivazioni politiche e le evidenti azioni sociali poste in essere a questo fine, fin dentro al cuore di una storia femminile che si configura in questi termini anche come una vera e propria catastrofe culturale.

All’origine

Il primo concepimento di “Calibano e la strega” deriva da un progetto di ricerca sulle donne nella “transizione” tra il feudalesimo e il capitalismo, intrapreso a metà degli anni Settanta con Leopoldina Fortunati. Nella prefazione Federici descrive come il suo interesse nascesse dal dibattito interno al movimento femminista statunitense che si interrogava sulle forme di oppressione di cui le donne sono state storicamente l’oggetto e sulle strategie politiche da adottare per dare maggiore efficacia al movimento di liberazione. Tuttavia per Federici, il femminismo radicale e il femminismo sociale di allora mostravano uno stesso limite: quello di “non riconoscere la sfera della riproduzione come fonte di sfruttamento e creazione di un plusvalore e quindi di attribuire alla differenza di potere tra donne e uomini l’esclusione delle donne allo sviluppo capitalistico”. La tesi che prese le mosse da questo contesto ispirando la ricerca era stata data da alcuni controversi documenti stilati tra le altre da Mariarosa Dalla Costa e da Selma James.

Poco prima della pandemia

All’apertura del numero 140 di Leggendaria, marzo 2020 intitolato La natura delle Streghe, cioè un attimo prima dello scoccare dell’anno pandemico (il 10 marzo scattava il primo lockdown italiano) la rivista apriva con due articoli, a mio avviso fondamentali, per superare lo shock che le italiane e gli italiani per primi, dopo le cinesi e i cinesi hanno subito con la comparsa del Covid come calamità. Articoli fondamentali per capire quanto alcune soggettività appartenenti ai movimenti ecofemministi e all’attivismo globale avessero compreso profondamente, e da tempo, la gravità del rischio cui un certo modo di intendere l’economia e lo sfruttamento delle risorse, ci stava esponendo. Fondamentale è provare a riconnettere la deflagrazione di una inaspettata epidemia che ha fermato buona parte dei motori economici e sociali del mondo, con quello che era il mondo prepandemico per come descritto da alcune di quelle soggettività di cui sopra, da tempo incapaci di giustificare l’ingiustificabile in termini di disuguaglianza, sessismo, razzismo. Soggettività avvertite di ciò anche per via di un sempre crescente impegno politico di tipo ambientalista.

In uno dei due articoli “Mettersi in relazione come condizione per sopravvivere” Marina Vitale, illustrando il pensiero della statunitense Donna Haraway espresso in “Chthulucene: Sopravvivere su un pianeta infetto”, indicava tra l’altro il tradursi in slogan del pensiero della filosofa come un elemento per rallentare e alleggerire il processo di distruzione del Pianeta. L’altro articolo di Sara Pollice e Federica Tomasello, intitolato “I costi sociali del paradigma unico di sviluppo”, indicava l’urgenza di divincolarsi dalla narrazione patriarcale che vuole che il lavoro di cura globale debba storicamente toccare alle donne. Pollice/Tomasello nell’articolo ripercorrevano il tracciato che dagli anni Ottanta hanno segnato ricercatrici e attiviste ecofemministe iniziando a analizzare la connessione fra sfruttamento della natura, delle donne e dei popoli non occidentali attraverso cui il modello capitalista si riproduce.

L’emersione di sempre nuove soggettività maggiormente consapevoli delle problematiche globali ha evidenziato quanto non fosse riconosciuto il lavoro svolto dalle donne in ambito domestico e di cura e quanto questo abbia contribuito all’accumulazione capitalista. Queste nuove soggettività secondo Silvia Federici “hanno ampliato la critica marxiana dell’economia politica, portando alla luce la centralità del lavoro non salariato”. Ma anche “il movimento operaio e studentesco, durante gli anni Sessanta e Settanta, hanno sovvertito le strutture fondamentali dell’organizzazione capitalistica del lavoro, quelle gerarchie produttive che si fondavano su una serie di divisioni operate all’interno del proletariato, giustificate ideologicamente con il razzismo e il sessismo”[2]. La grande novità prepandemica è stata quindi l’emersione di queste nuove soggettività e la constatazione che la crisi che la pandemia ha messo sotto gli occhi di tutte e tutti era permanente e acuta già da molto tempo per la sensibilità di alcune e alcuni.

Febbraio 2021

Mercoledì 17 febbraio 2021 The New York Times Magazine pubblica un lungo articolo sul futuro del lavoro titolando: Il lockdown ha mostrato come l’economia sfrutta le donne. Silvia Federici mette in guardia da decenni su ciò che accade quando si sottovaluta il lavoro domestico[3]. L’autrice Jordan Kisner traccia un ritratto di Federici, dialogando con lei delle sue radici italiane e ripercorrendo alcune delle motivazioni che hanno portato all’elaborazione dei temi della studiosa. Nella stringente attualità la constatazione, stavolta evincibile da un dato di realtà che la pandemia ha reso trasversale, di come il lavoro femminile non retribuito abbia da sempre costituito una fetta enorme dell’attività economica in ogni paese. Inoltre l’intervistatrice indica come: “man mano che l’esaurimento e l’insicurezza causati da queste condizioni economiche si sono approfondite, sempre più persone si stanno avvicinando all’idea che il pantano dei mali sociali americani potrebbe essere riconducibile a un rapporto errato con il lavoro e alla questione di quale lavoro sia prezioso”.

Insomma Federici induce a interrogarsi non tanto su cosa sia una donna o cosa debba, possa o voglia essere: “Io parlo delle donne proletarie e anche nelle donne proletarie c’è una continua costruzione che viene dalle lotte, che cosa vuol dire essere donna è sempre diverso ed è una lotta continua per stabilire chi sei, chi non sei, che cosa vogliamo essere. È una cosa che ridefiniamo continuamente”[4] ma sul significato del lavoro come cartina di tornasole Federici non transige. Il lavoro non riconosciuto è un discrimine crudele usato culturalmente e storicamente a discapito soprattutto delle donne, delle immigrate e delle popolazioni non occidentali, un’indagine che Federici articola dentro una pluralità avvincente e con una sensibilità fuori dal comune già in quell’opera intitolata “Calibano e la strega”.

Calibano il figlio della strega

Ne “La tempesta” (1612) Shakespereare regala una descrizione per bocca dell’antagonista Prospero, di Calibano, ribelle indigeno e figlio di una strega. Calibano è un’entità con caratteristiche non del tutto umane, che avrebbe potuto prevalere su Prospero ma che invece soccombe rivelandosi “un mezzo diavolo, figlio bastardo del diavolo”, scrive Federici nel suo libro. Nella sua qualità di figlio di strega Calibano è un tipo di individuo che deve essere disciplinato, come la strega è una donna che non si riduce, e deve essere indotta con qualsiasi mezzo a ridursi: al lavoro non riconosciuto e al consenso verso l’esproprio. La storia di Calibano è tanto paradigmatica da inserirsi nel titolo dell’opera di Federici che sottolinea, e ricerca capillarmente nella storia europea immediatamente successiva alla “transizione” tra il feudalesimo e il capitalismo, come l’utilizzo della schiavitù di fatto, esistente in precedenza all’arrivo dell’importanza del denaro, sia stata anche in seguito uno strumento dell’accumulo, sotto mentite spoglie, ma fondamentale. Questo perché periodicamente e sistematicamente, ogni qual volta il capitalismo è stato minacciato da una crisi economica, ha messo in atto forme molteplici, più o meno esplicite di colonizzazione e riduzione in schiavitù su larga scala.

Lo sviluppo produce anche sottosviluppo

In un’ampia intervista di Paola Rudan a Silvia Federici pubblicata il 30 gennaio 2020 sul “Manifesto” e in formato integrale su connessioniprecarie.org rilasciata in occasione dell’uscita di Genere e Capitale. Per una lettura femminista di Marx. (DeriveApprodi, 2020) tra i molti temi affrontati dalla studiosa c’è quello della tecnologia guardata dall’ottica di quelle regioni del mondo come Somalia, Libia, Iran, Yemen, Afghanistan che si prevede diventino presto un’unica grande miniera volta all’estrazione mineraria richiesta dalle tecnologie digitali.

È questa problematica che Federici cerca di portare nel discorso della critica femminista a Marx: “Non si tratta più solo di recuperare la casalinga anche se questo problema continua (…) Non ci si rende conto non solo che la riproduzione sociale nella casa continua, ma che molto lavoro riproduttivo sta tornando nella casa in forme nuove. Per esempio, non so se succede in Italia, ma negli Stati Uniti molte delle cure mediche, molte delle terapie che una volta si svolgevano nel pubblico, nell’ospedale, nella clinica, oggi vengono sempre più ributtate nella famiglia. Addirittura, l’industria medica produce aggeggi per la casa, perché si tende a spostare la dialisi in cucina o in camera da letto, quindi oggi succede che ti mandano a casa tre o quattro giorni anziché due settimane dopo un’operazione, e che istruiscano la moglie, la figlia, un parente ad accudire il malato. Tutto questo ha creato un sovraccarico, cioè il ritorno di gran parte del lavoro domestico in casa o l’ingresso in casa di lavoro domestico che una volta non esisteva. Si tratta della tendenza neoliberale a ributtare su chi lavora, sul proletariato, il peso della propria riproduzione e questa è una cosa che secondo me non si vede”[5]. Ma che senz’altro ora in regime di pandemia si avverte molto di più nelle case con l’accumularsi del lavoro domestico aumentato, delle problematiche psicologiche, relazionali e educative emerse dalla sostituzione della didattica tradizionale con quella a distanza, della malattia e della cura di chi si infetta o di chi è già ammalato di altre patologie. Per Federici il capitalismo produce lavoro informale e inoltre è grande produttore di gerarchie. La cosa non è mai stata così evidente come ora in cui la mano d’opera che compone la piramide sociale è sguarnita di molte unità in precedenza date per scontate e in quanto tali rese invisibili. In che modo quest’anno sarebbe potuto essere diverso, si chiede Jordan Kisner: “se il lavoro che svolgiamo per prenderci cura gli uni degli altri, noi stessi e il mondo che ci circonda, fosse stato correttamente valutato e premiato? Come sarebbe diverso il futuro se, come suggerisce Federici, “ci rifiutassimo di basare la nostra vita e la nostra riproduzione sulla sofferenza degli altri”, se “ci rifiutassimo di sentirci distanti da loro”?

Silvia Federici, “Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria”, Milano, Mimesis, 2015

Leggendaria, n. 140/2020

Donna Haraway, “Chthulucene: Sopravvivere su un pianeta infetto”, traduz. di Claudia Durastanti e Clara Ciccioni, Not edizioni, 2019

 

[1] https://ilmanifesto.it/silvia-federici-quello-che-marx-non-ha-visto/
[2] https://ilmanifesto.it/silvia-federici-la-riproduzione-della-nostra-vita-e-la-lotta-contro-il-capitale/
[3] https://www.nytimes.com/2021/02/17/magazine/waged-housework.html
[4] http://www.connessioniprecarie.org/2020/01/30/silvia-federici-quello-che-marx-non-ha-visto/
[5] http://www.connessioniprecarie.org/2020/01/30/silvia-federici-quello-che-marx-non-ha-visto/

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Viviana Scarinci

Viviana Scarinci è autrice di saggistica con Il libro di tutti e di nessuno. Elena Ferrante un ritratto delle italiane del XX secolo (Iacobelli, 2020), Neapolitanische Puppen. Ein Essay über die Welt von Elena Ferrante trad. tedesca Ingrid Ickler (Launenweber, 2018), Elena Ferrante ( E-book Doppiozero, 2014). Si occupa del progetto Contemporanea Fondo Librario e fa parte del consiglio direttivo della Società Italiana delle letterate. Per la poesia ha pubblicato Annina tragicomica (Formebrevi, 2017) La favola di Lilith trad. inglese Natalia Nebel, Libro e CD con musiche originali di Edo Notarloberti per l’etichetta discografica ARK Records 2014, Piccole estensioni (Anterem Edizioni, 2014). Il suo blog è https://vivianascarinci.blog/

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