Questo racconto fa parte di un gruppo di racconti scritti da alcune donne di Messina, raccolte in un laboratorio da una loro concittadina scrittrice che da Roma le ha seguite durante il primo lockdown. Dove sono fuggite con la fantasia? Nadia Terranova ha chiesto loro di raccontare a partire da due domande: cos’è l’identità? Che cos’è sentirsi straniere? Pubblicheremo in sequenza su LM i sette racconti che ne sono nati, felici di questo particolare incontro. Alla fine di ogni racconto potrete trovare le parole con cui Nadia stessa ci racconta il laboratorio e l’esperienza di scrittura. Buona lettura!
Paesaggio
di Maria Diamante
Il paesaggio non è definito, non lo sono neanche gli elementi del quadro, ma io sento greco a levante avanzare furioso e il fragore del mare dominare su tutto. Millenovecentootto, un bastimento a vela carico di pani di zolfo è in pericolo. Quindici marinai urlano disperati e cercano salvezza chiedendo aiuto alla popolazione di Ortigia che accorre e si dirige nello spiazzo con il parroco di S. Paolo che porta una croce. Travolti dal turbine di vento i loro tentativi falliscono. Mentre la tempesta infuria, il popolo vede a poco più di centocinquanta metri dalla costa, la morte disperata di quegli uomini. Le preghiere si alzano in cielo divorate dal vento. Il blu si tinge di nero.
Il vento di scirocco mi riporta la voce di questo tuo racconto mamma; finalmente dopo anni sono a Ortigia, nello spiazzo Belvedere S. Giacomo che è rimasto per i sirausani ro scogghiu facci dispirata.
Allargo le braccia in segno di ringraziamento e divento una di quelle donne con i piccoli attaccati alle gonne che si affacciavano da questo spiazzo scrutando preoccupate il mare, in attesa del ritorno dei loro uomini, naviganti in balia della tempesta. Fra loro zia Paolina, che era incapace di tutelare i suoi interessi, ma aveva la vocazione di fare “l’avvocato dei poveri”, anche lei aveva imparato ad aspettare che zio Ciccio tornasse dal mare. Un uomo impeccabile che indossava anche con temperature vicine ai quaranta gradi, la camicia blu a manica lunga, il bottone del colletto rigorosamente chiuso e le scarpe nere da uniforme così lucide che ti ci potevi specchiare. Quando non era in mare si prendeva cura dei suoi canarini, oppure cercava di salvare la moglie dalle imprese disperate, come quella volta che, incaricata da conoscenti di farsi ridare i regali d’oro dal fidanzato traditore, tornò malmenata e con le mani vuote.
Facci dispirata, spazio senza confini, non era soltanto luogo di attese trepidanti, ma anche di speranza perché vi si recavano le persone malate ai polmoni che cercavano respiro e guarigione. Nel soffio di questo vento che porta e toglie, che corrode il ferro dei balconi e la pietra bianca, negli anni 1938-1943 ragazzi avventurosi e sprovveduti sfidavano i venti di guerra cercando rifugio negli atri dei palazzi per ammirare i bombardamenti aerei. Trattenevano il fiato sentendo il sibilo delle bombe, poi dopo l’esplosione, urlavano felici e disperati.
Zio Santo invece non ebbe neanche il tempo di respirare perché saltò in aria nella base aerea a Messina, durante il bombardamento del 30 gennaio 1943 e quando arrivò la notizia, la nonna diventò una maschera di dolore che non tolse più. Mentre zio Santo, primogenito di cinque maschi, veniva inghiottito dal vento dello stretto, zio Salvatore dopo essere stato dichiarato disperso e pianto per morto, tornava irriconoscibile dalla prigionia in Germania, quasi impazzito. La guerra che sembrava finire, continuava. Il blu si tingeva di rosso e di altri colori ancora, mentre la gente tremava nel buio del ricovero sotterraneo durante i bombardamenti degli Alleati, prima che venisse firmato l’Armistizio a Cassibile.
La ricerca di salvezza nelle viscere delle terra non aveva però eliminato le differenze sociali perché i ricchi si erano messi in salvo nelle ville di campagna e i signori tenevano a distanza il popolo che per abitudine continuava a riverirli con “Vossia sabbinidica”.
Zio Ciccio incurante di tutti come un capitano nella tempesta proteggeva nel ricovero la gabbietta con il suo canarino, tenendola stretta a sé durante gli spostamenti d’aria che ribaltavano tutto. I lattanti piangevano, qualcuno intonava le litanie, i vastasi bestemmiavano.
Era tempo di guerra. Oggi vi porto con me mentre cammino tra le vie che sanno di umido e salsedine e guardo questo mare che inghiotte nuove mattanze. Adesso un po’ più a sud altri bastimenti trasportano uomini che cercano terra e il paesaggio si tinge ancora di rosso. Nuovi venti divorano carne, altre mani pietose custodiscono tracce di vita e alzano preghiere in cielo.
“O taliu” c’è ancora qualcuno che guarda e aspetta.
Incontrarsi a distanza tramite la scrittura
di Nadia Terranova
“Il mio soggiorno si trasformò per tutte noi nel regno della libertà più assoluta. Un vero paese delle meraviglie. Sedute intorno al tavolino, coperto di mazzi di fiori, entravamo e uscivamo dai nostri romanzi. Guardandomi indietro, mi stupisco ancora di quanto abbiamo imparato, e senza nemmeno accorgercene. Nabokov lo aveva descritto, quello che ci sarebbe successo: avremmo scoperto come il banale ciottolo della vita quotidiana, se guardato attraverso l’occhio magico della letteratura, possa trasformarsi in pietra preziosa”.
[“Leggere Lolita a Teheran”, Azar Nafisi, Adelphi, traduzione di Roberto Serrai]
Quando, nella primavera scorsa e in piena clausura nazionale per pandemia, Nancy Antonazzo mi contattò per chiedermi se avevo voglia di tenere un laboratorio di scrittura con un piccolo gruppo di donne messinesi, mi dissi egoisticamente che quegli incontri sarebbero serviti soprattutto a me: a sentirmi vicina al mio Stretto, al mio mare. Mi dissi che il rumore che la notte veniva a visitarmi nella mia casa romana non era il frigorifero, e no, non erano allucinazioni uditive, ma il mare che mi stava esortando a trovare il modo giusto per riavvicinarmi alla mia città. Il modo giusto, per me, è sempre la scrittura. Infatti, in clausura, stavo lavorando a un progetto su Messina. Ma adesso mi veniva incontro la scrittura delle altre, con un portato prezioso: avevo voglia di guardare dentro le vite, le case e le stanze delle donne della mia città, scoprire come passavano le giornate, cosa pensavano, cosa avevano voglia di scrivere nelle settimane in cui scoprivamo i confini delle distanze. Quanto alla formazione del gruppo, mi fidavo di Nancy, della sua competenza e del suo entusiasmo, e del gruppo “Terremoti di carta”, una bellissima realtà letteraria di aggregazione e scambio, che da anni lei ha creato e con serietà gestisce. Avevo già lavorato con i “Terremoti”, in passato e in presenza. Adesso, certo, le cose erano molto diverse.
Decidemmo che il laboratorio si sarebbe tenuto ogni sabato, per un mese. Che ci saremmo ritagliate un’ora strana: da mezzogiorno all’una. Un’ora che permetteva alle più giovani di svegliarsi con calma e a quelle con troppa famiglia sulle spalle di occuparsi del pranzo, un’ora che lasciava l’illusione di un sabato sera libero anche se non dovevamo andare da nessuna parte e non inficiava il lavoro settimanale anche se lavoravamo tutte da remoto.
Chiesi a Nancy di condividere con le iscritte un racconto di Rina Durante che mi commuove sempre, ogni volta che lo leggo. Rina Durante è una delle tante grandi scrittrici sottovalutate del Novecento, era nata a Melendugno, in provincia di Lecce, nel cuore della Grecìa salentina, e poco prima che l’Italia chiudesse ero stata, con un mio libro per ragazzi, a tenere un incontro proprio lì, in una scuola elementare che porta il suo nome. Durante non praticava il griko, la lingua discendente dal greco, parlata a lungo da una comunità di quelle parti, poi ricusata e oggi studiata grazie a un prezioso lavoro di recupero e salvaguardia (sempre durante quel viaggio avevo conosciuto i soci dell’associazione Kalimera e il professor Salvatore Tommasi). Quel racconto bellissimo racconta del rapporto tra Melendugno e Calimera, dove invece il griko era diffuso. Si intitola “Le nostre parti” e fu pubblicato in origine sulla Gazzetta del Mezzogiorno; inizia con un racconto di Rina bambina, la nonna la redarguisce, le suggerisce di guardarsi dai calimeresi, che son gente “con due lingue”, e lei s’immagina che le due lingue siano concrete, non figurate, come quelle di un mostro medievale. Il racconto finisce poi davanti al mare, con il ricongiungimento di un griko con la terra madre, la Grecia, e un coro di saluto sulla spiaggia salentina, che d’improvviso appare del tutto simile a un’isola che guarda il Peloponneso, come se il mare che separa una costa dall’altra non fosse altro che un’illusione o una strada, e come se le due parole fossero sinonimi.
Nel primo incontro, chiesi del racconto. Era piaciuto a tutte. Ma il gusto è inafferrabile e soggettivo: piuttosto, sentii che aveva parlato a tutte, che era arrivato in fondo, che aveva sconquassato gli animi. Questo mi interessava. Questo, di solito, è ciò che mi interessa nella vita e nella scrittura (e non sempre so il confine). Chiesi di interrogarsi su due polarizzazioni: che cos’è l’identità e che cos’è sentirsi straniere. Non davo risposte, io stessa non ne avevo e non ne ho, davo domande e mi interessava genuinamente la risposta: io ero una migrante messinese in terra capitolina, reclusa e confinata da un evento mondiale che non avevo previsto, e loro, invidiatissime perché sullo Stretto, chi erano? Non lo sapevo, anche se ne conoscevo alcune, perché avevano partecipato ad altri miei incontri e perché Messina è una città di provincia, dove ci si conosce un po’ tutti. Ma chi erano quelle donne, e perché volessero rubare un’ora alla settimana alle loro vite, alle loro clausure, era un mistero che andava indagato oltre l’apparenza.
Ci siamo viste ogni settimana, come pattuito. E loro non lo sapevano, ma io spiavo gli angoli, i vestiti, le voci che venivano dalle altre stanze, le ritrosie. A volte mi sembrava di annusare l’odore di cucinato o di un crogiolante nulla festivo. Chi siete? Vi sentite straniere in terra nostra? Come abitate la vita che avete scelto e vi è stata data? Queste erano le domande che non formulavo, ma, credo, esprimevo.
Il gruppo era straordinario. L’attenzione non calava mai. I racconti crescevano, cresceva il coraggio, spuntava come erbaccia la voglia di mettersi in gioco, una voglia inestirpabile. Il gruppo si formava e l’energia passava attraverso lo schermo, attraverso le distanze: io ero lontana e loro vicine, eppure, anche se avessero voluto, non si sarebbero potute vedere. Stavo riuscendo a trasmettere calore anche in quella buffa modalità? Ogni tanto sbagliavo e giravo lo schermo verso la mia stanza anziché su di me. E loro vedevano vestiti accatastati su una sedia, libri in disordine, rossetti, la mia solitudine, le mie ore affollate. Mi sentivo nuda: un’ora a settimana, nuda. E i loro racconti, così feroci nell’esercizio di empatia o di svelamento, mi denudavano ancora di più.
Eccoli, quei racconti: non potevo che raccontarne la genesi. Non capita spesso di pensare che gli esiti di un laboratorio debbano essere pubblicati, ma qui c’è qualcosa di più. C’è una strada che donne diverse per età e interessi hanno trovato per sentirsi vicine e per dirsi qualcosa, per bucare le pareti di casa in un momento in cui non si poteva. L’insieme di questi racconti ha il fragore di una piazza di consorelle, e ognuno di loro ha dignità in sé, nella sua differenza. Quanto a me, sono stata semplice testimone di queste scritture, al massimo levatrice maieutica, ed è una di quelle poche autentiche posizioni che sono orgogliosa di aver ricoperto.
PASSAPAROLA:








Maria Diamante

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