Avevamo un nome e un volto

Silvia Neonato, 27 gennaio 2021

di Silvia Neonato

Nel giugno 1979 andai a Mondovì a casa di Lidia Beccaria Rolfi, inviata dal settimanale “Noi donne” per guardare con lei in televisione il film americano “Olocausto”, che per la prima volta portò nelle case di milioni di persone le atrocità dei Lager nazisti. Lidia, staffetta partigiana, era stata deportata a Ravensbrück come politica. L’anno prima aveva descritto, insieme alla storica Anna Maria Bruzzone, i mesi di prigionia nel Lager: era un libro unico, il primo in Italia dove si narrava la condizione delle prigioniere politiche e quella, ancora peggiore, delle ebree. Lo avevo letto e mi aveva colpita al cuore.

Vi ripropongo quell’incontro 42 anni dopo, Lidia non c’è più dal ’96 e io non sono più quella ragazza emozionata che passò con lei due giorni indimenticabili. Mi ha inviato il mio articolo di allora (io non conservo nulla dopo tanti traslochi in varie città) il figlio di Lidia, Aldo Rolfi, che stava curando la pubblicazione degli archivi materni: e infatti è appena uscito un nuovo libro di cui vi dirò tra breve. Lo scorso anno qualcuno ha dipinto sulla porta di quella casa di Mondovì che ricordo bene, con un pennello giallo, la stella di Davide scrivendo Juden hier, ebrei qui, proprio come facevano i nazisti. Lidia Beccaria Rolfi non era ebrea, era socialista e militante dell’Udi: quel giorno del ’79 parlammo anche della legge per l’interruzione della gravidanza appena approvata e che lei si impegnava a far applicare nella sua Provincia.

Bruno Maida ha appena curato la nuova edizione del libro di Lidia Beccaria Rolfi “L’esile filo della memoria. Ravensbrück, 1945: un drammatico ritorno alla libertà” che esce oggi e contiene anche i Taccuini del Lager, vergati dall’autrice durante i mesi di prigionia.

Nel Lager femminile di Ravensbrück dal 1939 al 1945 passarono circa 110 000 donne. 92 000 di loro non fecero ritorno. Invece Lidia ritornò e scrisse. Nella nostra conversazione, vedrete, mi disse: «Esistono ancora in alcuni paesi i Lager, la persecuzione dei dissidenti persino nei paesi che si dicono socialisti. Esiste in ciascuno di noi una parte oscura di violenza, il pregiudizio razzista, la cultura sessista dello stupro, dello schiacciare il più debole, il diverso. E il diverso è ancora inferiore, non solo diverso: non lo sappiamo noi donne?».

Ecco la nostra conversazione di allora.

Mondovì, giugno 1979. Con Lidia Rolfi, deportata a Ravensbrück, abbiamo visto la prima puntata della miniserie televisiva americana “Olocausto”. Le chiedo un commento.

«Nei campi di concentramento nazisti sono morti sei milioni di ebrei e altri cinque milioni di dissenzienti politici, detenuti comuni, omosessuali o comunque “diversi”; e poi gente che per il nazismo era inferiore e quindi da eliminare, come gli zingari e in genere tutti gli schiavi che lavoravano nei lager. Anche in Italia non se ne è parlato molto, i dati sono spesso inesatti e sommari. Non credo che “Olocausto” sia un capolavoro né che possa dire tutta la verità: ma servirà almeno a far conoscere la realtà concentrazionaria? Si dirà che i deportati morti sono almeno 11 milioni e che i campi non erano solo di sterminio ma che, dall’aprile del 1942 in poi, sono diventati campi di lavoro, in cui l’aspetto importante era quello economico e non più quello politico e di sicurezza interna?».

Chi parla è Lidia Beccaria Rolfi. Abita e vive a Mondovì, una cittadina della campagna piemontese. E’ nata qui da una famiglia contadina e qui ha insegnato per quasi trent’anni. Nel 1944, aveva 19 anni, è stata arrestata dai fascisti per ragioni politiche. Il 30 giugno dello stesso anno è entrata nel lager femminile di Ravensbrück, da dove è uscita nell’aprile del 1945. Dieci mesi di campo di concentramento raccontati con lucidità quasi spietata e con coraggio in un libro pubblicato nel 1978 con la cura di una storica, anche lei di Mondovì, Anna Maria Bruzzone, che della realtà concentrazionaria non ha fatto esperienza.

Nel libro, che si intitola “Le donne di Ravensbrück” e che è bellissimo, rigoroso e commosso, unico nel genere in Italia, è ricostruita la storia del Lager, dalla sua costruzione, nel 1939, sino alla fine, e la storia delle donne che qui sono passate e in maggioranza morte, le ebree, le politiche, le ladre e le zingare di ogni paese d’Europa, attraverso la testimonianza diretta delle quattro deportate italiane che parlano insieme a Lidia Rolfi.

«Ho un figlio grande e un marito, faccio politica, ho i fiori alle finestre e amo ancora la vita», dice Lidia. «Ho una vita normale, di provincia, ma forse sono un’eccezione. Chi di noi è tornata dai campi di sterminio difficilmente si è poi inserita nella vita normale, come quella che gli altri vivono. Alcune di noi hanno disperatamente voluto vivere tutti quei mesi per poter tornare e raccontare. Ma al ritorno nessuno voleva sentirne parlare, dicevano “non è possibile”. Dicevano “mi fa troppa impressione, non voglio sapere”. Si opponeva un muro di silenzio a tutti i deportati sopravvissuti e alle donne in particolare: ci facevano capire che se fossimo restate buone, a casa, non ci sarebbe successo niente Se non fossi stata una staffetta partigiana i fascisti non mi avrebbero preso e consegnato alla Gestapo… Chi me lo aveva fatto fare?».

Parliamo ancora di “Olocausto”, abbiamo visto insieme la prima puntata. Lidia è tesa. Guardando il film scuote la testa, fa qualche rapido commento. Poi quando si accende la luce e ci rimettiamo a parlare, lei ancora più emozionata, io in imbarazzo perché è difficile fare domande a chi ha ricordi come questi da portarsi dietro ogni giorno.

Ma Lidia non ha paura di ricordare. Dice: «”Olocausto” è una finzione, l’interesse che suscita è spiegabile. Parla di gente qualunque, di una famiglia come le altre: i deportati hanno un nome, una faccia, una storia. Le foto e i documenti veri dei campi mostravano cataste di cadaveri senza volto, gente scheletrita senza nome, dei numeri: e la gente, nel dopoguerra, li ha rifiutati per orrore, perché era più facile farci restare anonimi, senza volto, senza sesso. Poi c’è la paura di affrontare la bruttura; la paura di accorgersi che alcune ideologie del nazismo sono ancora intorno a noi e non solo nei nazisti rimasti: il razzismo, i metodi di spersonalizzazione più efficaci e più raffinati di alcune istituzioni totali, come il manicomio e la galera. Esistono ancora in alcuni paesi i Lager, la persecuzione dei dissidenti persino nei paesi che si dicono socialisti. Esiste in ciascuno di noi una parte oscura di violenza, il pregiudizio razzista, la cultura sessista dello stupro, dello schiacciare il più debole, il diverso. E il diverso è ancora inferiore, non solo diverso: non lo sappiamo noi donne?».

Lidia Rolfi si interrompe. «Sapessi che vergogna, al ritorno dal Lager, avevamo noi deportate nel raccontare, quando avvertivamo nella gente una sorta di insinuazione ambigua che rimandava all’idea della violenza sessuale», sussurra. Le racconto che una ex deportata ebrea che è andata nelle scuole a fare dibattiti, (Liana Millu, autrice del libro “Il fumo di Birkenau”), si è spesso sentita chiedere dai ragazzi cosa le avevano fatto in quel senso. «Anche a me lo chiedono sempre, perché vedono i fumetti pornografici con le svastiche e i cartelloni dei film. E’ una cosa assurda, perché noi le SS non le incontravamo quasi mai. Erano gli altri deportati a controllarci, a torturarci: questo facevano i nazisti, come per fingere di essere fuori dalla logica del lager. E sapevano bene che era efficace: metterci gli uni contro gli altri, farci sentire bestie, numeri, mostri degradati: questo era lo scopo delle città concentrazionarie. Ma i ragazzi della scuola come fanno a saperlo? Chi li ha informati? I nazisti vivevano fuori del Lager con la loro famigliola, si preoccupavano solo di fare i contratti con gli industriali cui ci vendevano per dodici ore al giorno di lavoro. E ci controllavano quando uscivamo dal lager per andare a lavorare: stavano lì, fermi con i cani e le armi a vedere se tutto andava bene. Erano degli imboscati, gli individui peggiori dell’esercito nazista: si facevano mandare lì per non essere al fronte.

Ma dentro il lager vivevamo noi, solo quelli abili e idonei al lavoro; gli altri, i vecchi, i malati, i bambini, venivano sterminati subito come improduttivi: la logica era razionale ed era l’estrema conseguenza di quella capitalistica. I campi di sterminio erano anche questo: dal l942 poi, con la circolare di Oswald Pohl, un generale delle SS, si è smesso di sterminare e basta. Si sterminava chi non serviva; gli altri venivano venduti come schiavi all’industria, anche gli ebrei. Io e molte altre di Ravensbrück lavoravamo per la Siemens, per esempio. Ma anche di questo non si è data informazione: le connivenze tra il potere economico e quello politico erano grandissime e sono continuate anche dopo la guerra: a chi faceva comodo tacere? Così i ragazzini fanno domande spaventose e la gente continua a conoscere solo una parte del sistema concentrazionario. Affrontarne l’aspetto razionale vuol dire fare i conti davvero con il nazismo e smetterla di liquidarlo come un delirio di pochi, che non ci riguarda, che con le nostre società (capitalistiche) non c’entra».

Siamo sedute nel suo salotto, Lidia parla, racconta di come si viveva nel lager.

«Si spendevano le poche energie rimaste per trovare un cucchiaio, per non essere costrette a leccare le gamelle come bestie. Ma c’era anche solidarietà tra di noi: io devo la vita alle donne che a Ravensbrück mi hanno aiutato, regalato un po’ di zuppa, un pettine, costretto a lavarmi per resistere all’annientamento. Là fuori la gente ha paura di sapere che c’era anche solidarietà tra di noi, che quelle larve umane che si trascinavano in fabbrica tentando di sabotare l’industria bellica nazista potessero non odiarsi tra di loro. Sapessi come eravamo ridotte! Altro che le donne che ho visto in alcune sequenze di “Olocausto”, alla televisione: loro sono in carne, pettinate, vestite… Noi eravamo coperte di stracci e di piaghe, ridotte a 30 chili, rasate, con gli occhi deliranti. Come può, un film, rendere tutto questo? Ciononostante, spero che serva a far discutere, parlare, capire, almeno una parte di quello che è stato il lager. Pochi di noi ex deportati si ritroveranno in quello che è descritto. Sono delusa dal film, non posso nasconderlo. Ho combattuto tutta la vita per far conoscere queste cose, perché se ne parlasse diversamente, per modificare il mondo attuale. Ho cercato di essere tutto ciò che il campo in me avrebbe voluto distruggere: una persona senza barriere ideologiche, senza schemi. Mi sento libera, senza età, mi piace vivere. Amo la gente, ho visto che anche nel lager si può non diventare dei mostri. Ho visto come riescono a reagire le donne, quanta forza e dignità abbiamo, quanta capacità di adattarci e modificarci. Ma, per chi nel lager non c’è stato, è difficile pensare che io sono normale e che credo ancora che sia possibile cambiare».

 

“Noi donne”, n. 24, 15 giugno 1979, Sopravvissute e cancellate

Le donne di Ravensbrück. Testimonianze di deportate politiche italiane, Lidia Beccaria Rolfi, Anna Maria Bruzzone, Einaudi Tascabile 2020

Lidia Beccaria Rolfi, “L’esile filo della memoria. Ravensbrück, 1945: un drammatico ritorno alla libertà”, a cura di Bruno Maida, Einaudi 2021

 

“Olocausto” (Holocaust) è una miniserie televisiva statunitense del 1978 diretta da Marvin J. Chomsky che racconta l’olocausto attraverso la storia di due famiglie tedesche, una ebrea, i Weiss, ed una, i Dorf, il cui padre di famiglia, spinto dalla disoccupazione, si arruola nelle SS. L’argomento era un’occasione per rappresentare sullo schermo l’atrocità dei crimini nazisti contro gli ebrei e parlava della creazione dei ghetti e dell’uso delle camere a gas.

Lo sceneggiato fece il giro del mondo (in Italia arrivò nel 1979), innescando una serie di dibattiti sui Lager nazisti in un periodo in cui non veniva trattato apertamente dall’opinione pubblica. La sua proiezione in Germania fu l’occasione per riparlare e rivedere le responsabilità del popolo tedesco.

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Silvia Neonato

Silvia Neonato, giornalista, genovese, vive a Genova. Organizzatrice di eventi culturali, è socia della SIL, di cui è stata presidente nel biennio 2012-2013. Ha debuttato su il manifesto, ha diretto il magazine Blue Liguria ed è nella redazione di Leggendaria. Ha lavorato a Roma per molti anni, nella redazione del giornale dell’Udi Noi donne, a Rai2 (nella trasmissione tv Si dice donna) e Radio3 (a Ora D), per poi tornare a Genova, al Secolo XIX, dove ha anche diretto le pagine della cultura. Fa parte di Giulia, rete di giornaliste italiane. Ha partecipato con suoi scritti a diversi libri collettanei.
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