L’utopia di Bridgerton

Nadia Tarantini, 18 gennaio 2021

Serie tv tra le più seguite e discusse del momento. Inghilterra, primi dell’800: una giovane bianca innamorata di un duca nero, una famiglia, i Bridgerton, composta da 4 fratelli e 4 sorelle belle e intelligenti, come la maggior parte delle personagge. E poi appunto camerieri bianchi e signori colored. Irrealistica, certo. E allora?

Di Nadia Tarantini

 

L’America colonizza la vecchia Inghilterra. E Hollywood porta i modelli della fiction moderna sui pattern di Jane Austen, la società Regency dai dialoghi impeccabili, le giovinette (anche le più brillanti) schiave della ricerca del marito giusto, i costumi ammirevoli. Creando una amalgama di notevole fascino e piacevolezza.

Tutte (tutti, piace anche agli uomini) in fissa per Bridgerton, otto episodi consumati in Italia su Netflix fra Natale e la Befana, mentre continuano a fervere le discussioni, le polemiche, le contrapposizioni.

La più vivace riguarda il preteso non realismo della fiction, che sulla base del Blind Casting (anche detto: Color-Blind casting), contemporanea evoluzione del politicamente corretto, ha immaginato una società ottocentesca degna del più estremo melting pot newyorkese odierno: abbiamo duchi black, servitù rigorosamente bianca, persino la regina è colored (ma questa pare anche ai detrattori la scelta più accettabile, visto che storicamente la regina Carlotta, moglie del re pazzo Giorgio III, era portoghese e, pare,  di madre africana).

Lascerei ai/alle coloured stesse/i la parola riguardo all’impatto (positivo, negativo, inutile), sui destini pratici e immaginari, che deriva dalla scelta del Color-blind, accennando al fatto che il Blind Casting non riguarda solo le etnie, ma può essere una riscrittura di qualsiasi differenza (l’esempio forse più recente è il film “C’era una volta a Hollywood” di Quentin Tarantino, che riscrive gli anni Cinquanta e Sessanta dando spazio a omosessuali maschi e femmine, a stravaganti e originali esclusi/e nella realtà di allora, colored o meno).

Favorevole al Blind, troviamo il commento su FB di Igiaba Scego: “(…) il blind casting mischia persone di appartenenze diverse. Infatti questo da un tocco di surreale ad una serie che chiaramente non ha le pretese di essere un capolavoro. Ma anche ci porta davanti ad una pratica molto comune nei teatri di lingua inglese che io trovo fantastica, mischiare le carte, dare così più chance e più ruoli ad attori black e non white in generale”. Mentre la parte oppositiva ce la offre, nell’episodio numero 5, la serie stessa, in un dialogo meta-narrativo fra il protagonista duca di Hastings (non estraneo, col suo fisico palestrato e gli occhi dolcissimi nel viso dai lineamenti perfetti, al successo della serie) e il suo amico pugile black. In cui il duca addirittura critica la propria situazione sociale, ribattendo all’ottimista compagno di ring che lui non si accontenta delle “briciole” lanciate dal sistema ad alcuni di loro, sulla base di regole e principi che sente non appartenergli né convenirgli.

Dal punto di vista narratologico – comunque – avere duchi e baroni neri in un’epoca in cui al massimo facevano i camerieri non è tanto diverso dall’ambientare una storia su Marte, si tratta di fantasia, si tratta di immaginazione. E a volte (spesso) l’immaginazione può diventare motore propulsivo di cambiamenti mentali e reali. Purché si rispetti il patto di “sospensione dell’incredulità” con chi legge ascolta o vede, e il racconto sia coerente con il genere dichiarato (in questo caso, il Colour-Blind Casting)

Per tornare poi con piacere a parlare della serie, e del perché io pure me la sia bevuta in pochi giorni, subito rammaricata di aver fatto così presto – e di esserne rimasta orfana. Di dovermi solo sognare, da oggi in poi, i meravigliosi occhi blu, la bocca carnosa e le battute imperdibili di Daphne, protagonista insieme al duca di Hastings della storia d’amore al centro di Bridgerton. E di molte altre donne della serie, protagoniste assolute del fascino delle scene e dei dialoghi.

Il ritmo innanzitutto, felice contaminazione fra dialoghi e scene serrate da una parte, e la lentezza cartografata del mondo in cui sono ambientate. La forte, perfetta caratterizzazione delle personagge e dei personaggi (che d’altronde, in inglese e americano, si chiamano characters, e questo forse aiuta gli sceneggiatori/le sceneggiatrici a profilarli meglio).

La vicenda s’inquadra nel famosissimo incipit di Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen (“È una verità universalmente riconosciuta che uno scapolo provvisto di un ingente patrimonio debba essere in cerca di moglie. Per quanto al suo primo apparire nel vicinato si sappia ben poco dei sentimenti e delle opinioni di quest’uomo, tale verità è così radicata nella mente delle famiglie dei dintorni, da considerarlo legittima proprietà dell’una o dell’altra delle loro figlie”); e mette in scena – secondo la più consolidata tradizione – un conflitto sul campo della conquista matrimoniale, agito da due famiglie che più differenti non potrebbero essere: la famiglia Featherington, composta da tre figlie femmine bruttine (e una sola intelligente), padre finanziariamente dissennato, e madre; e la famiglia Bridgerton, appunto, con quattro figlie femmine (oltre a quattro maschi), e una sola, bellissima e intelligente madre vedova. Le/gli Bridgerton sono tutti/e belle/i e intelligenti, e anche dotati/e di desideri originali, che siano la ricerca di una amore vero benché peccaminoso, di un’arte (pittura, scrittura, musica), che possa riempire la vita, di una concezione del mondo non convenzionale.

Attorno e dentro uno schema in fondo classico, Bridgerton inserisce una serie di elementi di rottura che ne animano la storia: dalla parente povera e (apparentemente) dissennata che irrompe in casa Featherington, alla già detta regina dal carattere arguto e capriccioso (ma sapiente), a Lady Danbury, vera dea ex machina, che in tutta la vicenda esistenziale del tenebroso duca di Hastings interviene nei momenti giusti e imprime svolte salvifiche; e infine al mistero che si annida nelle cronache quotidiane di Lady Whistledown, che riescono a condizionare la vita delle nostre e dei nostri protagonisti e protagoniste.

Una personaggia secondaria ma assolutamente non di seconda fila è Eloise sorella di Daphne, destinata a debuttare in società – riottosa a seguire il destino imposto dai tempi, creativa e accanita lettrice, sempre con un taccuino in mano a prendere appunti, dalla battuta pungente e riflessiva (alias di Jane Austen?).

Convenzionale (ma assai piacevole da guardare ed ascoltare) la movimentata relazione fra Daphne e Simon duca, segnata all’inizio dagli inevitabili equivoci che fecero soffrire Elizabeth Bennet e Darcy, di differente natura e non legata a ceto e posizione sociale – bensì a sottili e profonde differenze psicologiche e di storia familiare. E animata da un patto singolare, da uno sviluppo prevedibile ma giocato impeccabilmente.

Confortante la galleria delle donne, tutte tranne le due stupide Featherington e la dannosa Cressida Crown. Donne dedite – nonostante i lacci del tempo – a mostrare il talento nascosto, la sapienza osservatrice, la forza dell’elemento femminile, in un mondo in cui molti uomini fanno figure poco onorevoli; e si salvano solo e quando ascoltano/dialogano, assumono i valori dell’elemento femminile: il pugile con il suo bel rapporto con la moglie, il principe prussiano Federico con la sua dolcezza, Benedict fratello di Daphne ed Eloise con la sua vocazione artistica. E pure Hastings e Anthony (fratello-custode dell’orfana di padre Daphne) – si riscattano cedendo alla sapienza dell’altro sesso.

Shondaland, la casa di produzione di Shonda Rhimes ha giocato di nuovo con la forza intrinseca delle personagge, aldilà dei differenti generi esplorati (dall’originario successo di Grey’s Anatomy a Scandal), puntando su quel bisogno di passato che i tempi grami del presente forse pretendono – ma rivisitandolo con gli occhi dell’oggi.

(Dovessi fare un appunto critico a Bridgerton – parlerei delle abbondanti scene di sesso, la maggior parte delle quali vincolate ad una meccanicità che smonterebbe qualsiasi spinta erotica, vuoi per la cinepresa estetizzante; vuoi per l’ignoranza di quel legame fra il gesto e le intenzioni che rende eccitante anche un semplice sguardo. E non per la prima volta, di fronte a prodotti statunitensi, mi chiedo: ma lo sanno fare, l’amore, gli americani?)

Bridgerton è una serie televisiva statunitense creata da Chris Van Dusen, basata sui romanzi di Julia Quinn, ambientati nel mondo dell’alta società londinese durante la Reggenza inglese. La serie ha debuttato in Italia il 25 dicembre 2020 su Netflix

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Nadia Tarantini

Nadia Tarantini Scrittrice e giornalista. Esploratrice di molti mestieri, sin da giovanissima ha cercato la scrittura in molti luoghi, dalla vendita rateale di libri, al giornalismo e infine all’insegnamento… della scrittura, sia privatamente (“Le vie dei Cinque Sensi”) che nelle università. Solo nel 2017, a 71 anni, dopo una decina di altri libri, ha pubblicato il suo primo romanzo, “Quando nascesti tu, stella lucente” (L’Iguana), storia ambientata nel lontano 2346. Con Iacobelli, nel 2011, ha ripubblicato “Il risveglio del corpo. Dai sintomi alle emozioni l’arte della salute”, romanzo-saggio uscito nel 1996 presso La Tartaruga, che ha avuto quattro edizioni. A fine maggio 2019 il suo secondo romanzo, “Amore Inquieto”, nei Leggendari di Iacobelli. È vissuta fuggendo e cercando le storie dentro di sé e ha combattuto furiosi dubbi sul proprio valore attraverso la relazione con altre donne. La rivista Leggendaria e la Sil sono stati i luoghi privilegiati della sua “autorizzazione alla scrittura”.

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