Clarice Lispector, lo splendore di avere un linguaggio

Elvira Federici, 22 dicembre 2020

 

 

Cento anni fa nasceva la più grande scrittrice in lingua portoghese: di fronte alla dismisura della vita, Clarice desidera abbandonarsi. Cercando le parole per rivelare l’incontro, terribile, con la realtà.

di Elvira Federici

Eu so’ trabalho com achados e perdidos, io lavoro soltanto con quel che capita (oggetti smarriti) leggiamo nel vasto epistolario di Clarice Lispector.

Questa frase dichiara una scrittura piantata nel mezzo del vivere, esposta al suo quotidiano accadere. Nella intervista televisiva rilasciata poco prima della malattia che l’avrebbe portata via, Lispector si definisce una scrittrice amatoriale, che scrive quando desidera e che quando non scrive “està morta”; per la quale la scrittura è disposizione a “correr o grande risco de se ter a realidade¨ (correre il  rischio di aderire alla realtà), assoggettandosi alla sua imprescindibile trascendenza.

Una scrittura unica nel panorama sudamericano e brasiliano, piú prossima e dialogante con alcune voci della tradizione europea (Woolf, Weil, Joyce ecc.) del contatto con le quali, peraltro, abbiamo solo la sua testimonianza a proposito dell´incontro con l´opera di  Katherine Mansfield.  Incontro precoce – C. ha 15 anni quando la legge – ma forse gravido di conseguenze per la sua scrittura.

In Brasile si parla di un era A. C., prima di Clarice, e D. C., dopo Clarice, per sintetizzare l’impatto di una scrittura, che non è inquadrabile nel Modernismo o nelle diverse avanguardie artistiche qui sorte e che, insieme a quella di Guimaraes Rosa, cambia il paradigma della sua giovane letteratura.

Lispector, considerata la massima scrittrice brasiliana, riceve di fatto la cittadinanza solo da adulta, ben avanti nella sua fama, grazie all’interessamento di amici e intellettuali che la amano. In realtà è giunta nel 1922, bambina di due anni, con la sua famiglia ebrea ucraina, in fuga dalle persecuzioni e dai conflitti successivi alla rivoluzione di ottobre, ennesimo dono della diaspora israelita al mondo.

È nata in un shtelt, il villaggio ebraico dell´Europa centro-orientale, dove si parla lo yddish. La bambina si chiama Haia, muterà nome come quasi tutti nella famiglia. Il suo nome sarà Clarice. La famiglia si stabilirà nel Nordeste, a Maceiò, Recife, poi si trasferirà a Rio de Janeiro, dove lei compirà i suoi studi fino alla laurea in diritto.

Lispector è tuttavia interamente brasiliana perché sceglie il portoghese come unica lingua possibile: Amo a lingua portuguesa  até queria não ter aprendido outras linguas: so’ para que a minha abordagem do português fosse virgem e limpida, “amo la lingua portoghese, al punto che quasi non vorrei aver imparato altre lingue, solo perché il mio approccio al portoghese fosse vergine e limpido “ (A descoberta do mundo).[1]

Non è secondaria questa dichiarazione di amore di Clarice, la lingua essendo per lei non un veicolo dei pensieri ma il passo che approssima all’incontro – tremendo – con la realtà.

Peraltro, attraverso la ricerca di Claire Varin [2], veniamo a sapere dalla sorella Elisa che il cuore – sacro- originario della sua lingua, la lingua materna, sia in realtà lo yiddish, che continuò a studiare e a parlare in casa: “ testi sacri erano letti a voce alta e la lingua ebraica circolava dappertutto”.

Alla lingua – anche per questo doppiamente sacra-  è affidato il passo estremo non di mediare con la realtà ma di rivelarla nella sua assolutezza – indicibile: il rischio da correre per rompere il patto di mediocrità con la vita.

Stare, aderire alla vita, meritando e sopportando “lo splendore di avere un linguaggio” senza fare della lingua uno strumento di colonizzazione o di invenzione della realtà; se nella  creazione “il nome è un’aggiunta e impedisce il contatto con la cosa”; la parola che cerca C. L. è una parola che  toglie, mette a nudo, lasciando risplendere l’evento o la cosa stessa: “sento una chiarezza così grande che mi annulla come persona (…) sto, per così dire, vedendo chiaramente il vuoto. Che ne faccio di questa lucidità? so bene che può trasformarsi in un inferno umano perché so che nel nostro quotidiano e permanente accomodamento rassegnato all’irrealtà, questa chiarezza della realtà è un rischio”.

La parola di Clarice sfida la rivelazione e si connota di misticismo, nel movimento del togliere (alla parola l’intenzionalità) e nell’ aspirazione ad essere pensiero che non si pensa.

L’affinità con la ricerca di Simone Weil, che parla della mutezza e dell’impersonalità è suggestiva: negazione della conoscenza e della volontà, abbandono all’Impersonale, che per C.L. è la vita spoglia della “persona”, cioè della sua maschera umana.

Restare con la cosa nuda e, insieme, con la parola nuda, l’unica che nell´accadimento imprevedibile, incastonato nella routine quotidiana, lascia intravedere la rischiosa trascendenza del vivere: “scoprire che non ho un giorno-dopo-giorno ma che ho una vita-su-vita e che la vita è soprannaturale“.

Clarice vuole scrivere senza narrare, sottrarsi all’uso esplicitamente umano della parola. E tuttavia narra. Per rivelare quello che esiste

Pure, non c’è in lei un’adesione fiduciosa all’atto dello scrivere: bisogna correre il rischio di imbattersi nella povertà della cosa detta.

Di fronte alla dismisura della vita, la scrittura come ogni umano applicarsi, sembrerebbe una rivolta o un  tentativo di addomesticarla:  in C. L – come forse in un´altra scrittrice da lei molto amata, K. Mansfield –  nei confronti della realtà non c’è rivolta, al contrario c’è acconsentimento; c’è il rischio ma non la sfida; è un rischio corso come estrema forma di amore: “scrivere come se si trattasse di salvare la vita di qualcuno. Probabilmente la mia stessa vita”.

Di cosa è fatta la perturbante scrittura di Clarice? Non di scrittura sperimentale si tratta, che stravolga tempo e spazio. È un narrare che coagula la trasformazione – istanza fondativa della narrazione stessa – intorno ad un solo evento, sostanzialmente non raccontabile, come solo può essere la rivelazione. È l´itinerario che accompagna spesso alla resa.

I personaggi di Lispector non si presentano come caratteri psicologici; abitati dall’impersonale, sono tali in quanto collocati di fronte ad un’avventura limite, ove non si tratta di perdersi in una dimensione onirica, bensì nella realtà.

La vita è “orribile”, perché vigorosa, estranea e impersonale, intrecciata al silenzio della morte, intuisce Ana, la protagonista di Legami familiari (Feltrinelli, 1989, trad. Adelina Aletti) che tenta, con le ritualità quotidiane, di tenere a bada la cruda bellezza dell’esistenza. La visione di un cieco, dall’autobus che la riporta a casa con la spesa, scardina l’ordine con cui tiene separate le cose e i sentimenti.

La vita obbliga, in forme strazianti ed estreme, a crederle. A credere nella sua trascendenza perturbante. Ana la ama con il ribrezzo che precede l’abbandonarsi (solo una donna forse può cogliere l´intensità erotica di questo sentimento): “E attraverso la pietà appariva ad Ana una vita colma di nausea dolce che saliva fino alla bocca. Amava il mondo, amava quanto era stato creato, amava con repulsione”.

L’opera di Lispector si presenta insieme compatta e variegata: un’intensa declinazione della domanda intorno a cui gira tutta la sua esperienza: “perché esiste qualcosa invece che nulla?”.

Tuttavia si rintraccia una differenza  tra i suoi racconti e i romanzi: proprio questi ultimi sembrano i più lontani dall’istanza della narratività, opere che si concentrano intorno alla rivelazione che assume persino i caratteri del sacro, come ne La passione secondo G.H. (genro humano, in portoghese) , capolavoro di Clarice, nel quale una donna colta  e affermata, un’artista, racconta in prima persona come, in un pomeriggio vuoto,  entrando nella stanza della domestica assente si imbatte in una “barata”, uno scarafaggio che istintivamente tenta di schiacciare tra gli sportelli dell’armadio, salvo restare a contemplare la sua agonia di vivente, cogliere in essa la sua propria vita, la sua propria agonia e accogliere la sconvolgente rivelazione che nell’ultimo pulsare vitale dell’ultimo degli esseri vivi resiste la stessa vita che tiene in vita lei stessa.

Non è lei a possedere la vita, è il contrario: “a vida se me è”, la vita mi è. E la rivelazione si trasforma in sconvolgente comunione mistica, quando la donna assumerà i resti dello scarafaggio come pasto.

Il gesto si colloca nello stesso ordine simbolico dell’antropofagia, forse, da molti intellettuali considerato tra i miti fondativi dell’identità brasiliana, secondo il quale la vita e le prerogative dell’altro passano in noi con il mangiarle, ma anche della comunione mistica che partecipa di un evento non raccontabile: il fatto di essere vivi.

La sua professione di giornalista, il ruolo di moglie di diplomatico che la porta in numerosi paesi europei, Italia compresa, la necessità di lavorare, l’hanno avvicinata a diversi tipi di scrittura: dalla cronaca, al quotidiano, persino alla posta di un settimanale femminile, oggi raccolta in un bellissimo volume uscito in occasione delle commemorazioni del trentennale della sua morte. Vale la pena leggere le sue risposte a giovani donne e signore della buona società sulle questioni più disparate: dare consigli su come preparare la tavola per un banchetto offre a Clarice l’occasione di un’epifania, mentre descrive colori, profumi, sapori della rustica tavola di una amica durante un pranzo in campagna.

Sempre amorevolmente vicina ai suoi due figli Pedro e Paulo, per prendersi cura dei quali impara a lavorare con la macchina da scrivere sulle ginocchia, scrive anche storie per l’infanzia, illustrandole talvolta con i suoi disegni.

Clarice nel corso delle sue dolorose vicissitudini umane (la separazione dal marito, la schizofrenia di un figlio, il rogo della suo appartamento in cui rischierà di morire, la malattia che implacabilmente la sottrae nel giro di pochi mesi, a 57 anni) passa da una scrittura difficilmente catalogabile a quella narrazione perfetta, forse nell’ordine di quella resa (abbandonarsi alla vita) che sarà una parola guida della ricerca, realizzata nel racconto lungo L’ora della stella.

In esso conosciamo la storia di Macabea, dattilografa nordestina, la cui innocenza l’avvicina alla pura condizione di vivente, condizione da cui Clarice Lispector è insieme attratta e spaventata.   Nella storia di Macabea, raccontata da un uomo, Rodrigo, ci sono tutti gli elementi di un racconto: un personaggio collocato in un contesto riconoscibile, il suo incontro, stranito e sbilenco, con una città e i suoi abitanti che non la vedono, il sopraggiungere di un innamorato, Olimpico; infine la morte. Che arriva da un’automobile che la investe, proprio uscendo dalla casa della  cartomante – l’ incontro con il destino luminoso che  le era stato profetizzato –   a chiudere il cerchio della sua esistenza di creatura.

Il personaggio di Macabea, dal nome  insolito e maiuscolo,  se comparato con la pochezza della sua vita – si avvicina ad altri della tradizione letteraria mondiale, come il príncipe Minski, dell’Idiota di Dostoévskij; Simon, dei Fratelli Tanner di Robert Walser; Valentin, de La domenica della vita di Queneau. Per quanto diversi tra loro, tutti sembrano tuttavia abbandonarsi senza resistenza alla vita: per il fatto di non capirla, non tentare di plasmarla alla propria volontà, pare non possedere un’idea chiara della propria individualità. Per essere, semplicemente, solo creatura tra le cose create.

Il tema di essere cosa, creatura, di non possedere parole con cui arrischiare un senso possibile del mondo, essere cosa viva e niente altro, è ricorrente nell’ opera di Clarice. In quest’ ultimo scritto è messo a fuoco, in forma insieme drammatica e metalinguistica, nella relazione impossibile tra il narratore, Rodrigo, con il suo personaggio. Egli si compiace di immaginare esiti differenti per lei: padrone della parola, inventore di Macabea, scrittore maschio, in fondo.

Ma, nell’incipit de L’ora della stella leggiamo: “tutto al mondo cominciò con un Sì. Una molecola disse sì ad un’altra e nacque la vita”. La piccola creatura di nome Macabea, l’insignificante vergine alagoana dice il sì al Destino che, alla fine, sarà solo suo. Macabea, agonizzando sull’ asfalto diventa ogni momento di più Macabea, come se finalmente giungesse a se stessa.

Il destino di morire, che arriva dopo un sì e un abbandonarsi alla vita.

Il destino di esistere, di fronte allo sguardo onnisciente, impotente del narratore.

E tutto accade nell’ora ultima, l’ora della stella. La creatura diventa cosciente di sé stessa nella scena magniloquente della morte. Lei non è dunque semplicemente esistita: Macabea si consegna al destino che l’ha fatta Macabea.

Ma anche per lo scrittore è necessario dire un sì, perché l’opera nuda corra ben oltre l’intenzione. Così, nel racconto più perfetto e più semplice di Clarice, emerge ciò che lei, scrittrice, lancia nel mondo, che altrimenti sarebbe solo un enorme, insensato vuoto – A matéria opaca e sem melodia cantavel, materia opaca e priva di melodia cantabile. Gratuità, libertà, irrilevanza: esistere non è logico. Scrivere è esistere. Il narratore onnisciente, che nasconde la scrittrice Clarice e la vergine dello stato di Alagoas, condividono lo stesso destino.

L’ora della stella uscirá postumo, come gli appunti curati amorevolmente dall’amica Olga Borelli: Um sopro de vida, del 1978, e A descoberta do mundo, curato dal figlio Paulo nel 1984.

Amata e venerata dagli amici intellettuali e scrittori, divenuta quasi un personaggio di culto in Brasile, Lispector è altresì un punto di riferimento del pensiero delle donne,  essendo la sua scrittura e la sua esperienza  all´insegna di una differenza irriducibile.

 

 

Bibliografia essenziale

Legami familiari. 1986; La passione del corpo, 1987; La mela nel buio 1988; L’ora della stella, 1989; La passione secondo G.H. 1991. Un apprendistato o il libro dei piaceri, 1992 tutti editi Feltrinelli

 

Vicino al cuore selvaggio. Adelphi, 1987

Acqua viva, Adelphi, 2017

 

N.B. Le frasi in portoghese sono estratte (e da me tradotte) dalla mostra commemorativa dei 30 anni dalla morte, tenutasi in S. Paolo presso il Museo da Lingua Portuguesa nel 2007 e dall’ultima intervista, visibile da YouTube.

 

[1]              Con questo titolo uscì  nel 1984, curati dal figlio Paulo Gurgel Valente la raccolta de gli articoli pubblicati  nel Jornal do Brasil dal 1967 al 1973, per la Editora Nova Fronteira
[2]              Claire Varin, Clarice Lispector. Rencontres brésiliennes. Triptyque, 2007

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Elvira Federici

Elvira Federici è nata e vive a Viterbo. Laureata in filosofia alla Sapienza, ha insegnato nelle medie e nei licei, ha fatto la preside ( poi dirigente scolastica) in istituti medi e superiori impegnandosi sui temi del genere e della differenza; dal 2007 al 2011, ha lavorato in Brasile per conto del M.A.E.,. È cultore della materia per Linguistica Italiana –Università della Tuscia. ed è stata contrattista per Didattica delle lingue moderne. Ha pubblicato due manuali scolastici per Mondadori e Mursia. Ha scritto per Riforma della Scuola, Insegnare, Il Filo, Mosaico ( Comunità Italiana in Brasile). Nel 2005 ha pubblicato per la IDC PRESS di Cluj Napoca (RM), la raccolta di versi "Oriente Domestico". Collabora con la rivista Leggendaria. Di recente, oltre alla organizzazione del ciclo di filosofia Lineamenti di femminismi, genere, differenza, con Federica Giardini e le docenti del Master pari titolo di Roma3, ha progettato e curato per la Biblioteca Consorziale di Viterbo il ciclo "Elogio della Poesia", incontri con undici grandi poeti e poete della contemporaneità. È femminista ed ha attraversato il movimento a partire dalla differenza sessuale. Trova stimoli di fronte alla complessità emozionante del mondo, anche nel pensiero di Gregory Bateson, che frequenta da anni con il Circolo omonimo.

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