PERSONAGGE: Senso di necessità

Giordana Restifo, 20 dicembre 2020

Questo racconto fa parte di un gruppo di racconti scritti da alcune donne di Messina, raccolte in un laboratorio da una loro concittadina scrittrice che da Roma le ha seguite durante il primo lockdown. Dove sono fuggite con la fantasia? Nadia Terranova ha chiesto loro di raccontare a partire da due domande: cos’è l’identità? Che cos’è sentirsi straniere? Pubblicheremo in sequenza su LM i sette racconti che ne sono nati, felici di questo particolare incontro. Alla fine di ogni racconto potrete trovare le parole con cui Nadia stessa ci racconta il laboratorio e l’esperienza di scrittura. Buona lettura!

Senso di necessità

Di Giordana Restifo

 

Salgo sovrappensiero su quella scala metallica, «da qui in poi non si torna più indietro, Olivia» mi dico. Siedo al mio posto e attendo che tutti i passeggeri siano a bordo. Li guardo mentre sistemano le valigie sopra le loro teste. C’è sempre qualcuno che non ce la fa, o che mette il proprio bagaglio in orizzontale occupando anche lo spazio degli altri. Un’occasionale forma di egoismo o un’evidente mancanza di senso della misura? Non l’ho mai capito.

L’ultima volta che ho visto i miei parenti e Tirana, la città nella quale sono nata, era la scorsa estate. Quest’anno le celebrazioni della Pasqua ortodossa coincidono con quelle dei cattolici, così, ho deciso di partire.

Per l’ennesima volta mi trovo su un volo che in poco meno di due ore mi porterà da quello che dovrebbe essere il mio paese adottivo a quello che dovrebbe essere il mio paese “biologico”. Come genitori che sanno dell’esistenza altrui, ma non si sono mai incontrati, e che, quando prendo l’aereo per raggiungere uno o l’altro, litigano e si scontrano. Una voce estranea intralcia i miei pensieri: «Stiamo per partire signorina, allacci la cintura di sicurezza».

Ormai ho perso il conto di quante volte, negli anni, ho percorso questa tratta. Ogni volta è sempre più traumatica di quella precedente. Cos’è quest’ansia che mi fa tremare? È la memoria che torna prepotente, sempre sotto nuove forme, ed io non riesco a tenerla a bada.

Stranamente ho avuto fortuna, sono dal lato del corridoio e nel posto centrale non c’è nessuno, potrò leggere e dormire indisturbata.

Cerco di distrarmi aprendo il libro, Rosso come una sposa. Me l’ha regalato un’amica dicendomi che dovevo assolutamente conoscere quest’autrice albanese di nascita, come me. Mi sono ritrovata, per certi aspetti, nella storia di una delle donne del romanzo. Anch’io ho tagliato i ponti con l’infanzia e con il passato trasferendomi in un altro luogo. Anilda Ibrahimi non ha mai scritto nulla nella sua lingua madre; dice di aver perso la sintonia con la sua lingua, è qualcosa che ricollega al passato. Il presente è in un altro paese. Io l’albanese lo parlo ancora, eppure, in questo bizzarro paradosso mi ci ritrovo. Sono nata e ho vissuto per quindici anni nel paese delle aquile ma leggo e comprendo meglio testi in italiano. Di contro, nonostante i vent’anni passati a Milano, non riesco a provare del tutto quel sentimento di appartenenza che dovrebbe legarmi all’Italia.

«Clic, clic, clic, clic», le cinture di sicurezza scandiscono il ritmo del decollo.

Pensare alle origini, all’identità, mi provoca degli scompensi, delle strane sensazioni di mancanza. Qualcosa di inafferrabile di cui si sente il bisogno. Per questo motivo metto spesso da parte queste riflessioni, cerco di seppellirle sotto le incombenze quotidiane.

In aereo si ripresentano puntuali i dubbi irrisolti della mia esistenza: tornare a Tirana e restarci per scoprire cos’è quel vuoto che sento dentro? Ci penso ogni volta ma alla fine riparto sempre, credo di avere paura; fermandomi in Albania potrei scoprire di non appartenere più a quel paese che mi ha dato i natali. Sarebbe meglio continuare a vivere a Milano facendo finta di niente? Che poi, è concretamente possibile? Dovrei mescolare luoghi, azioni, persone, far interagire le parti e accettare definitivamente entrambe?

Mentre penso a trovare la risposta per uno, si accumulano tutti gli altri.

Continuo a leggere ma ogni pagina è una fitta allo stomaco. Ricordo bene le lacrime versate quando sono andata via con la certezza che sarei stata per sempre albanese. I parenti, la casa, la scuola, i compagni, il ragazzo più grande che mi piaceva e gli amici, ho dovuto dire addio alla mia vita e iniziarne una nuova. Il tempo e la distanza hanno affievolito la sofferenza.

Mi rendo conto che per i miei genitori è stata molto più dura. Abituarsi a una situazione del tutto nuova sotto ogni aspetto, alla loro età, non è stato semplice. Non sapevano nemmeno una parola d’italiano al contrario mio e di mia sorella, non possedevano una casa, non avevano un lavoro né conoscenti ai quali rivolgersi. Noi facevamo forza a loro e viceversa. In questo modo siamo andati avanti per molti anni, chiudendoci in noi stessi, senza rivolgere un solo pensiero al passato. Quel tempo, però, era dentro di noi, che lo volessimo o no. In casa si parlava solo la lingua dei miei genitori. I miei nonni materni erano musulmani e le pietanze che mia madre preparava erano quelle tipiche della sua cultura, un mix tra cucina albanese e araba.

Se stavo in casa sentivo l’odore dei fegatini, della ricotta e dei peperoni, ma bastava uscire sul ballatoio perché gli odori cambiassero in un attimo. Diversi mesi dopo ho capito di cosa si trattava: qualcuno cucinava il ragù, qualcuno faceva un soffritto, altri preparavano intrugli provenienti da un lontano est.

Il sapore forte delle spezie che ti rimaneva appiccicato al palato anche dopo aver lavato i denti, mia madre avrebbe potuto cucinare un piatto solo con le spezie, contrastava con quello della torta carote, arance e noci che aveva preparato la nostra vicina siciliana per darci il benvenuto. La musica pop adolescenziale albanese che ascoltavamo io e mia sorella, i nostri genitori dicevano di detestarla ma ce la lasciavano mettere solo perché almeno capivano le strofe, non coincideva con quella che usciva dalle finestre degli appartamenti limitrofi. Ero, come dire?, confusa. Mi sentivo smarrita e, al tempo stesso, elettrizzata.

L’italiano lo conoscevo già da prima, lo sentivo spesso in radio, in televisione. Con gli amici ripetevamo le parole più buffe. Certo non era la stessa cosa parlarlo con i miei connazionali rispetto all’impararlo seriamente e raffrontarmi con delle persone che ci erano nate con quella lingua. L’imbarazzo di essere giudicata per la mia pronuncia o per un errore grammaticale non era l’unico problema, a scuola ho faticato molto per raggiungere il livello dei miei compagni. Inoltre, non ero sicura che ai miei genitori facesse piacere che io imparassi e parlassi di più un altro idioma. Era come se li stessi tradendo, come se stessi rinnegando tutto ciò che ero stata fino allora. Da un lato mi sentivo legittimata perché la situazione richiedeva questo mio sforzo per apprenderlo e potermi ambientare. Dall’altro, il suono linguistico di alcune parole, come comunità, famiglia, opinione, caratteristica, e altre, era talmente simile a quello albanese che lo percepivo come un ammonimento.

Per me e mia sorella è stato comunque più facile mettere da parte le remore e vivere. Mami e babi si sono adattati, anche se a fatica; adesso lavorano entrambi, escono con gli amici e spiccicano le parole sufficienti per farsi comprendere. Non ho il coraggio di chiedere loro se siano felici.

Il cigolio del carrellino delle bevande mi riporta sull’aereo, tra poco sarò in quella terra che tanta sofferenza ha arrecato ai miei avi e ai miei genitori, e a me? Guardo fuori dall’oblò e vedo tutto bianco. Non riesco nemmeno a concentrarmi sulla sensazione di benessere emanata da quel candore, che l’areo inizia a tremare, le spie rosse si accendono, il messaggio dall’altoparlante avverte: «Si prega di mantenere allacciate le cinture di sicurezza, stiamo attraversando una lieve turbolenza». Le oscillazioni aumentano, la mia mano sinistra completamente sudata si aggrappa al bracciolo del posto libero a fianco, la destra, invece, la sfrego sui jeans. Ci scambiamo un’occhiata veloce con il signore seduto lato finestrino ma nessuno dei due dice nulla. Non voglio morire così, quassù nei cieli di nessuno e di tutti. O è proprio qui che dovrei?

Nella fila accanto c’è agitazione, una ragazza urla: «Presto, un medico!». Noto con la coda dell’occhio che l’anziana zia con la quale viaggia (il grado di parentela l’ho deciso dopo attente analisi basate su supposizioni) si è adagiata sulla sua spalla. Non sono albanesi, ho un occhio allenato per riconoscerli a prima vista, la conferma di ciò arriva dall’accento. Mentre ci lasciamo alle spalle il turbine che abbiamo attraversato, la ragazza si alza dal suo posto e attorno alla signora si forma un capannello di persone. Una dice di essere un’infermiera, un’altra un medico, oculista per la precisione, un’altra ancora non ha bisogno di dare spiegazioni, è un ragazzo con l’uniforme dei carabinieri, nel caso servissero ulteriori indagini oltre quelle già svolte mentalmente da me.

La voglia di sdrammatizzare mi passa non appena vedo la donna accasciata sui sedili. Ha perso conoscenza e sembra non volerla riprendere più. Cercano di metterla dritta, ma non c’è nulla da fare, ricade, svenuta, sugli altri posti. Guardo quella signora che, inconsapevole, ha distratto le mie angosce, o, almeno, così credo, ma la mente ricomincia a viaggiare veloce attraverso lo spazio e il tempo.

Mi sembra di vedere mia nonna, la mamma di mio padre, che giace senza vita appoggiata al muro di un palazzo per strada. Quante volte ho immaginato questa scena, che nella realtà non ho visto, ma ne ho sentito il racconto dai parenti talmente tanto che gli ho dato una forma. Il suo viso mi è chiaro grazie alle foto conservate, gli unici oggetti che ho del passato della mia famiglia. Era il 1997 e in Albania si respirava una brutta aria. A volte nemmeno quella perché si era costretti a stare chiusi in casa e giungevano echi di spari che facevano pensare a una festa, ma era tutt’altro. In alcuni giorni la situazione era più tranquilla. Proprio durante uno di quelli mia nonna, ortodossa, stava andando al mercato quando un proiettile vagante l’ha uccisa. Così, senza che lei potesse controbattere, lanciare qualche imprecazione o una maledizione. Senza avere il tempo di pensare a cosa stesse lasciando. Per celebrarla, ogni anno, proviamo a riunirci tutti per la sua Pasqua.

Avevo sette anni quando è morta. Se penso a lei, non mi viene in mente granché, i miei ricordi sono sbiaditi e si sovrappongono con altri. So che non aiutava molto mia madre in casa ma si prendeva cura di noi bambine e ci portava ogni domenica in chiesa a seguire la messa. Quando entro nella sua casa, dove adesso vivono i miei zii, per quanto mi sforzi, i cimeli non scatenano in me alcuna reazione. Non so se si possa parlare di un qualche trauma, ma se l’ho avuto, ci ho lavorato eliminando ogni traccia di mia nonna dalla memoria.

I miei parenti non hanno di certo aiutato; quando chiedevo loro a chi fosse appartenuto quel paio di occhiali vecchi, quella sciarpa, o chi fossero determinate persone nelle foto che scovavo in casa, la risposta era sempre la stessa: «Ma come, non ricordi?!». Questo accadeva anche con le informazioni più serie, più intime. E succede ancora oggi. Ma come potrei ricordare qualcosa se avevo solo sette anni e nessuno ha mai provato a chiarirmi le idee?

Nel libro di Anilda Ibrahimi la storia del paese fa da sfondo a quella delle generazioni di donne della famiglia Buronja, che sembrano, almeno all’apparenza, sapere bene qual è la cosa giusta da fare e il momento in cui farla. Non solo, sembra anche che conoscano la storia dei loro progenitori. Beate loro! Io, invece, mi sento come se memoria non ne avessi mai avuta, né ricevuta. I personaggi sono legati alle tradizioni, le rispettano senza dimenticarle (o crearne di nuove), ma i tempi cambiano per tutti e nel finale potrebbe esserci un distaccamento dalle usanze del passato.

Come posso onorare le tradizioni se l’unica che ho è questa della Pasqua (non sempre possibile)? Più che altro, come posso comprendere un paese e la sua storia se non conosco nemmeno quella della mia famiglia?

«Signori, siete pregati di sedervi ai vostri posti, stanno iniziando le manovre d’atterraggio», dice una voce alle mie spalle. Non riesco ad andare avanti con la lettura, scoprirò come finisce una volta arrivata a Tirana, anche se credo già di saperlo.

Volgo lo sguardo verso l’anziana zia esanime sui sedili, mi accorgo che sto piangendo e sudando freddo. No, non è paura.

Chiudo gli occhi e, non so come mai, penso a un discorso incentrato sul longevo rapporto tra albanesi e italiani, fatto qualche anno fa dall’allora presidente della Repubblica italiana. Riteneva la “preservazione delle antiche origini” un valore aggiunto, ma che cosa sono le antiche origini? Perché dovrei preservarle se nessuno me le ha lasciate in eredità? In fondo, non credo di essere solo io a pensarla così, mi pare che in molti, in Albania, abbiano avuto un blackout rispetto a quel caos degli anni ’90. Man mano che passa il tempo, solo gli anziani ricordano, a modo loro, cosa sia successo. Potrebbe essere una conformazione genetica tipica di noi nati albanesi: siamo predisposti all’oblio.

Una cosa che, invece, conosco bene è la confusione che creano italiani e albanesi, indistintamente, quando l’aereo atterra. Attendo che la maggior parte dei passeggeri sia scesa, costringendo anche il signore della mia fila ad aspettare, poi mi alzo, senza fretta, e lo faccio passare. Prende la sua valigia e, mettendola a terra, mi pesta il piede con una delle ruote. Voltandosi distrattamente mi dice: «Më fal». Faccio finta di non capire, non sono certa di voler scusare lui, né gli altri. Prima voglio sapere la verità e non ci rinuncerò stavolta. Con quest’unica convinzione scendo dalla scala metallica e salgo sulla navetta dell’aeroporto.

 


 

Incontrarsi a distanza tramite la scrittura

di Nadia Terranova

 

“Il mio soggiorno si trasformò per tutte noi nel regno della libertà più assoluta. Un vero paese delle meraviglie. Sedute intorno al tavolino, coperto di mazzi di fiori, entravamo e uscivamo dai nostri romanzi. Guardandomi indietro, mi stupisco ancora di quanto abbiamo imparato, e senza nemmeno accorgercene. Nabokov lo aveva descritto, quello che ci sarebbe successo: avremmo scoperto come il banale ciottolo della vita quotidiana, se guardato attraverso l’occhio magico della letteratura, possa trasformarsi in pietra preziosa”.

[“Leggere Lolita a Teheran”, Azar Nafisi, Adelphi, traduzione di Roberto Serrai]

 

Quando, nella primavera scorsa e in piena clausura nazionale per pandemia, Nancy Antonazzo mi contattò per chiedermi se avevo voglia di tenere un laboratorio di scrittura con un piccolo gruppo di donne messinesi, mi dissi egoisticamente che quegli incontri sarebbero serviti soprattutto a me: a sentirmi vicina al mio Stretto, al mio mare. Mi dissi che il rumore che la notte veniva a visitarmi nella mia casa romana non era il frigorifero, e no, non erano allucinazioni uditive, ma il mare che mi stava esortando a trovare il modo giusto per riavvicinarmi alla mia città. Il modo giusto, per me, è sempre la scrittura. Infatti, in clausura, stavo lavorando a un progetto su Messina. Ma adesso mi veniva incontro la scrittura delle altre, con un portato prezioso: avevo voglia di guardare dentro le vite, le case e le stanze delle donne della mia città, scoprire come passavano le giornate, cosa pensavano, cosa avevano voglia di scrivere nelle settimane in cui scoprivamo i confini delle distanze. Quanto alla formazione del gruppo, mi fidavo di Nancy, della sua competenza e del suo entusiasmo, e del gruppo “Terremoti di carta”, una bellissima realtà letteraria di aggregazione e scambio, che da anni lei ha creato e con serietà gestisce. Avevo già lavorato con i “Terremoti”, in passato e in presenza. Adesso, certo, le cose erano molto diverse.

Decidemmo che il laboratorio si sarebbe tenuto ogni sabato, per un mese. Che ci saremmo ritagliate un’ora strana: da mezzogiorno all’una. Un’ora che permetteva alle più giovani di svegliarsi con calma e a quelle con troppa famiglia sulle spalle di occuparsi del pranzo, un’ora che lasciava l’illusione di un sabato sera libero anche se non dovevamo andare da nessuna parte e non inficiava il lavoro settimanale anche se lavoravamo tutte da remoto.

Chiesi a Nancy di condividere con le iscritte un racconto di Rina Durante che mi commuove sempre, ogni volta che lo leggo. Rina Durante è una delle tante grandi scrittrici sottovalutate del Novecento, era nata a Melendugno, in provincia di Lecce, nel cuore della Grecìa salentina, e poco prima che l’Italia chiudesse ero stata, con un mio libro per ragazzi, a tenere un incontro proprio lì, in una scuola elementare che porta il suo nome. Durante non praticava il griko, la lingua discendente dal greco, parlata a lungo da una comunità di quelle parti, poi ricusata e oggi studiata grazie a un prezioso lavoro di recupero e salvaguardia (sempre durante quel viaggio avevo conosciuto i soci dell’associazione Kalimera e il professor Salvatore Tommasi). Quel racconto bellissimo racconta del rapporto tra Melendugno e Calimera, dove invece il griko era diffuso. Si intitola “Le nostre parti” e fu pubblicato in origine sulla Gazzetta del Mezzogiorno; inizia con un racconto di Rina bambina, la nonna la redarguisce, le suggerisce di guardarsi dai calimeresi, che son gente “con due lingue”, e lei s’immagina che le due lingue siano concrete, non figurate, come quelle di un mostro medievale. Il racconto finisce poi davanti al mare, con il ricongiungimento di un griko con la terra madre, la Grecia, e un coro di saluto sulla spiaggia salentina, che d’improvviso appare del tutto simile a un’isola che guarda il Peloponneso, come se il mare che separa una costa dall’altra non fosse altro che un’illusione o una strada, e come se le due parole fossero sinonimi.

Nel primo incontro, chiesi del racconto. Era piaciuto a tutte. Ma il gusto è inafferrabile e soggettivo: piuttosto, sentii che aveva parlato a tutte, che era arrivato in fondo, che aveva sconquassato gli animi. Questo mi interessava. Questo, di solito, è ciò che mi interessa nella vita e nella scrittura (e non sempre so il confine). Chiesi di interrogarsi su due polarizzazioni: che cos’è l’identità e che cos’è sentirsi straniere. Non davo risposte, io stessa non ne avevo e non ne ho, davo domande e mi interessava genuinamente la risposta: io ero una migrante messinese in terra capitolina, reclusa e confinata da un evento mondiale che non avevo previsto, e loro, invidiatissime perché sullo Stretto, chi erano? Non lo sapevo, anche se ne conoscevo alcune, perché avevano partecipato ad altri miei incontri e perché Messina è una città di provincia, dove ci si conosce un po’ tutti. Ma chi erano quelle donne, e perché volessero rubare un’ora alla settimana alle loro vite, alle loro clausure, era un mistero che andava indagato oltre l’apparenza.

Ci siamo viste ogni settimana, come pattuito. E loro non lo sapevano, ma io spiavo gli angoli, i vestiti, le voci che venivano dalle altre stanze, le ritrosie. A volte mi sembrava di annusare l’odore di cucinato o di un crogiolante nulla festivo. Chi siete? Vi sentite straniere in terra nostra? Come abitate la vita che avete scelto e vi è stata data? Queste erano le domande che non formulavo, ma, credo, esprimevo.

Il gruppo era straordinario. L’attenzione non calava mai. I racconti crescevano, cresceva il coraggio, spuntava come erbaccia la voglia di mettersi in gioco, una voglia inestirpabile. Il gruppo si formava e l’energia passava attraverso lo schermo, attraverso le distanze: io ero lontana e loro vicine, eppure, anche se avessero voluto, non si sarebbero potute vedere. Stavo riuscendo a trasmettere calore anche in quella buffa modalità? Ogni tanto sbagliavo e giravo lo schermo verso la mia stanza anziché su di me. E loro vedevano vestiti accatastati su una sedia, libri in disordine, rossetti, la mia solitudine, le mie ore affollate. Mi sentivo nuda: un’ora a settimana, nuda. E i loro racconti, così feroci nell’esercizio di empatia o di svelamento, mi denudavano ancora di più.

Eccoli, quei racconti: non potevo che raccontarne la genesi. Non capita spesso di pensare che gli esiti di un laboratorio debbano essere pubblicati, ma qui c’è qualcosa di più. C’è una strada che donne diverse per età e interessi hanno trovato per sentirsi vicine e per dirsi qualcosa, per bucare le pareti di casa in un momento in cui non si poteva. L’insieme di questi racconti ha il fragore di una piazza di consorelle, e ognuno di loro ha dignità in sé, nella sua differenza. Quanto a me, sono stata semplice testimone di queste scritture, al massimo levatrice maieutica, ed è una di quelle poche autentiche posizioni che sono orgogliosa di aver ricoperto.

PASSAPAROLA: FacebooktwitterpinterestlinkedinFacebooktwitterpinterestlinkedin GRAZIE ♥
The following two tabs change content below.

Giordana Restifo

Laureata in Lingua e Cultura Italiana con una tesi su "Cosa Nostra" e in Scienze Internazionali con una tesi su “Globalizzazione e violenza nel XXI secolo. Il caso del Messico”. Ama la letteratura in generale, quella sui Balcani e sull’America Latina in particolare, detesta le violazioni dei diritti umani e ne studia tutte le sfaccettature per non rimanere intrappolata nei pregiudizi e negli errori del passato”.

Ultimi post di Giordana Restifo (vedi tutti)

Categorie
0 Comments
0 Pings & Trackbacks

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.