Chiudere o aprire? È tifo da stadio

Antonella Fimiani, 11 novembre 2020

Dopo aver definito la didattica a distanza la panacea di tutti i mali, ora la si demonizza e si discute di centimetri di distanza. E l’insegnamento? Solitudine di docenti e studenti di fronte a un mondo ormai mutato.

di Antonella Fimiani

In Campania il ritorno a scuola è durato solo 15 giorni. Chi come me ha vissuto in presa diretta questo sventurato inizio d’anno può affermare di avere preso parte a un’odissea. Nella mia città, Salerno, ogni istituto superiore si è regolato come ha potuto, anche il mio liceo. L’autonomia scolastica rivendicata dal Governo si è risolta in un federalismo alla carlona, in cui il buon senso, quando c’è stato, i dirigenti più o meno illuminati e una certa dose di fortuna o sfortuna hanno fatto da padroni. Alcuni istituti non sono riusciti ad aprire per la persistente carenza di aule, altri hanno dimezzato le classi nella formula metà in presenza e metà a distanza, altri ancora si sono appellati alle ormai famose “rime buccali”, ultima trovata del comitato tecnico scientifico, riportando i ragazzi nelle classi e nei banchi di sempre. Con l’unica variante di mascherine, gel igienizzanti e finestre sempre aperte.

L’inverno è sembrato da subito lo spauracchio con cui si sarebbe dovuto fare i conti, dopo il Covid ovviamente. Una formula, quella del tutti in presenza, tra le meno riuscite perché se ha provato a garantire la presenza, ha riproposto un clima davvero insostenibile. L’illusione che adolescenti possano rimanere muti per ore, immobili, imbavagliati nelle loro mascherine è la negazione di qualsiasi idea di didattica e di scuola. Fin dalla prima settimana, il corto circuito dei contagi ha portato alla schizofrenia scuole chiuse/scuole aperte, classi in quarantena, in una intermittenza che ha contribuito a diffondere un clima di panico e precarietà.

I banchi a rotelle non hanno salvato la scuola campana. In verità, non sono nemmeno tutti ancora arrivati. Difficilmente, credo, avrebbero potuto mutare gli esiti di una avventura segnata fin dal suo nascere dalla mancanza di una visione strategica unitaria. Il ricorso all’autonomia scolastica si è risolto in un boomerang contro le scuole stesse, segnando differenze tra istituti che hanno potuto mettere in campo strategie più o meno efficaci. Lo scaglionamento e/o gli orari differenziati hanno dovuto fare i conti con un sistema trasporti inalterato.

“Ragazzi ci siete? Mi sentite? Riuscite a vedermi?” da settimane sono ritornata al mantra mattutino dei terribili mesi della scorsa primavera. Dal buio della rete gli occhi assonnati dei miei alunni e alunne fanno lentamente capolino. Dopo il consueto appello e la registrazione di chi continua ad avere problemi di connessione, riesco a fatica a dare il via alla mia video lezione. Siamo ritornati in dad, oggi ddi, didattica digitale integrata, che di fatto allo stato attuale si risolve, per la gran parte, nella riproposizione di video chiamate nell’orario di classe. Dopo ore davanti al pc, il loro sguardo è alienato. Ci risiamo. A marzo come a ottobre, la rete è ancora il paracadute che tiene insieme la comunità scolastica. Otto mesi trascorsi a cercare soluzioni, misurare aule, trovare alternative per tornare punto e a capo. Il salvavita della didattica a distanza, prima amato, poi odiato è stato rispolverato come ruota di scorta senza essere stato né regolamentato né sondato nelle sue potenzialità innovative. Nessuno deve averci mai creduto abbastanza. Colpa di una crescita improvvisa ed esponenziale della pandemia che, forse, si poteva prevedere ma anche dell’assoluta mancanza di una visione strategica. L’illusione, forse, che si potesse ritornare alla scuola di sempre, con qualche precauzione in più.

Il tifo da stadio che divide una parte dell’opinione pubblica in “scuola aperte” e “scuole chiuse” rischia di spostare ancora una volta l’attenzione dalle grandi questioni che la pandemia ha portato alla ribalta. Il tentativo di salvare in questi mesi la scuola in presenza, qualora sia ancora possibile, non può prescindere da un dibattito politico e partitico su cosa significhi fare scuola. Sulla necessità di mettere in campo una visione educativa. Oltre a domandarci se si tornerà o meno in aula, chiediamoci oggi che tipo di scuola stiamo costruendo.

L’illusione del ritorno alla normalità con gli esami di stato in presenza, i dibattiti sui banchi a rotelle, i plexiglass, i centimetri più o i centimetri meno hanno costantemente deviato l’attenzione dai veri temi in gioco. Problemi atavici riproposti con urgenza oggi in cui tutto va ripensato. Uno fra gli altri, la questione dello spazio. Se c’è una cosa che l’emergenza scolastica ci ha insegnato, questa è l’urgenza di ridisegnare nuovi e più autentici spazi di relazione educativa. Teatri di interazione, non contenitori asettici di corpi. Un ripensamento della scuola non solo come luogo fisico ma come scena della trasmissione di sapere. In questi tempi inediti, l’assenza fisica della comunità scolastica come imprescindibile tappa del processo di crescita ci mostra con violenza ciò che sapevamo da sempre, ma che per pigrizia abbiamo preferito non vedere. Ci rivela la sua insostituibilità, ma anche l’urgenza vitale di un suo ripensamento.

La politica dei piccoli passi, della misura del centimetro, della toppa su toppa non ci poterà lontano. Perché non è vero che andrà tutto bene, come ci siamo autoconvinti nei mesi estivi. Non è vero che il mondo tornerà come prima. Questo tempo di convivenza con il virus ci rivela che ogni cosa è cambiata. È una occasione preziosa, difficilissima, in cui tutto va ripensato. Il lavoro, la scuola, la nostra vita.

 

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Antonella Fimiani

Classe 1978, dopo la laurea in filosofia, Antonella Fimiani ha conseguito il dottorato in “etica e filosofia politica” e collaborato come research fellow presso il Kierkegaard Research Center di Copenaghen. Studiosa del pensiero femminile, con un particolare riferimento al Novecento, ha pubblicato: “Sentieri del desiderio. Femminile e alterità in Søren Kierkegaard”, (Rubettino 2010) e “Donna della parola. Etty Hillesum e la scrittura che dà origine al mondo” (Apeiron 2017, vincitore premio “Nabokov” 2018, finalista premio “Carver” 2019). Collaboratrice di “Leggendaria”. Gli attuali interessi vertono sul tema della memoria con particolare riferimento alla diaristica. Insegna filosofia e storia nei licei. Vive a Salerno con suo marito Massimo, in compagnia di due gatti.

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