PERSONAGGE: Sorelle

Elvira Federici, 7 novembre 2020

Sorelle

di Elvira Federici

 

Mia sorella piccola andava soggetta spesso a lunghe e travaglievoli fissazioni, con scorno grande di nostra madre che non sapeva in quei momenti, in nessuna maniera, accontentarla.

Quell’estate caldissima, che si stava in luglio nella campagna del nonno, stesa a cuocere nella maremma più interna – grano e maggesi sterminate e tiepide –  quell’anno lei non poteva averne che tre e in quel caldo, ricordo, in quel caldo nostra madre, con reciproca tigna, la implorava di togliersi, di togliersi quel maledetto maglione rosa, così pesante tutto abbottonato e ricamato e lei no, se ne stava imperterrita, muso al sole ad abbronciarsi, stesa sul piancito secco, là dove tutto il calore della plaga si concentrava, barricata dentro all’amato golfino rosa.

Lei metteva nelle sue scelte sempre in gioco tutta la vita e le difendeva con i denti; alla fine la mamma doveva arrendersi, disperata che qualcuna la vincesse in fermezza, diceva. Zucconaggine, pensavo io.

Me, invece, era difficile trovarne una più duttile: senza troppa fatica mi lasciavo persuadere, prima che la mala pianta dei sospiri e delle materne lamentazioni – giungevano queste a infastidire nell’ultima dimora le più remote ascendenze paterne – attecchisse sulle mie possibili insubordinazioni. Essa era inestirpabile a lungo e ancor più lo era la faccia sconsolata – delusa – della mamma, che lei portava in giro con dignità per giornate intere e mescolava alla minestra durante il pranzo, che per l’appunto, non riuscivo a trangugiare. Così darle retta mi rendeva inspiegabilmente leggera. Certo, la mia anima non era così evoluta da sentirsi felice per una procurata altrui felicità; godeva tuttavia solidamente della propria, ché le cose che riuscivano a farmi fare per via dei miei esercizi di obbedienza non la toccavano poi così tanto e dentro di me sorridevo di tutti, quando si mostravano contenti di quello che senza sforzi e con lusinghevoli argomenti – amano gli oppressori fregiarsi del buon senso e della ragionevolezza – ottenevano da me.

E invero non mi impuntai mai sul desiderio di portare cappotti in estate, andare scalza in inverno, andare in spiaggia in tuta da ginnastica ma nessuno scoprì mai la giudiziosa sottoscritta a sguazzare selvatica nelle pozze d’argilla, dopo aver neghittosamente rifiutato ogni eccesso.

Mia sorella grande era veramente impeccabile. Il suo naso non era a patata, aveva lunghi capelli lisci che si lasciava pettinare docilmente dalla nonna e così silenziosamente era presente o spariva che meglio un gatto non farebbe.

Era sempre disposta a ragionare con la mamma e disponeva con cura gli argomenti sul tavolo delle trattative ma era altrettanto pronta a ritirarli quando gli occhi della mamma si facevano scuri. Si adattava e più si faceva immobile e obbediente più i suoi occhi guizzavano.

Io non ho mai capito come non avesse niente da difendere ad ogni costo; come fosse che una cosa o quell’altra per lei si equivalessero: come potesse desiderare tanto i pantaloni alla pescatora e indossare quelle smorte gonne a pieghe che nostra madre ricavava dai suoi abiti smessi. Quando ne combinavamo qualcuna e la mamma prometteva di picchiarci con il mestolo ci rifugiavamo nel bagno, chiudendoci a chiave. Io avrei resistito ad oltranza, sicura che alla fine, purché aprissimo, la mamma ci avrebbe abbonato tutto e magari sbaciucchiato, pentita. Lei avrebbe preferito le botte e finalmente essere lasciata in pace, invece di sopportare chissà quanto tempo chiusa nel cesso. La via di mezzo era quella giusta: dopo un po’ la mamma scendeva a più miti consigli ma se per caso ci avesse teso un agguato con il mestolo, beh – prova a trovarmi le chiappotte! Ero capace di dimenarmi, sguillare, scivolare via e strillare preventivamente, anche: la mamma desisteva, forse provando orrore di sé.

Io smuovevo gli animi con le mie folgoranti passioni, lei raccoglieva un mieloso consenso ma chissà se andava simpatica. E papà, poi, da chi si lasciava tirare i baffi o pettinare dopo pranzo, io seduta di fronte a lui, sul tavolo ormai  sparecchiato mentre mia sorella stava ancora contemplando il piatto? Non dico che non sarebbe stato teneramente paziente anche con lei. Certo è che lei era sempre impegnata nei suoi pensieri o concentrata nell’osservazione. Sembrava a tutti un po’ chiusa a fronte della sorella espansiva, come diceva la mamma descrivendo la personalità delle sue figlie. Però me la ricordo inginocchiata davanti alla mamma implorandola: – non morire, non morire mamma! – la volta che la medesima rischiò di strozzarsi per un boccone andato di traverso: lei si mosse rapidissima; passò dalla preghiera alle pacche sulle spalle della mamma, date con una forza inimmaginabile per la sua gracilità. Scampato il pericolo, ritornò tranquilla e scivolò nell’angoletto della lettura, sotto la finestra.

 

Ero inappetente. Questo fatto raccoglieva una miriade di sguardi – occhiatacce – su di me, che si trattasse di preoccupazione o di irritazione. Gli unici consulti che ricordo, con medici sussiegosi e costosi un accidente, erano al capezzale della mia inspiegabile buona salute (ma di che diavolo campa quel corpo?).

Capace, ero, capace di trascorrere con un tozzo di pane, dico pane, ché mi viene in mente l’unica cosa allora per me commestibile, insieme ad altri poverissimi piatti come i legumi – tutto il resto una sospetta paccottiglia che certe mani solerti, terminanti con una forchetta, a tavola mi facevano ingoiare con goffi tentativi di distrazione – e starmene ugualmente presente e compatta, con gli occhietti vigili e silenziosa a sufficienza per destare imbarazzo o irritazione.

Loro non seppero mai quanti buoni bocconi finivano al gatto e quanto mia sorella fosse solidale con me, ché lei per fortuna mandava giù tutto, sammartino!

A ripensarci questa mia ostinazione vera e profonda mica era da meno di quelle acute e repentine di mia sorella. La mia fissazione era infaticabile e quotidiana, snervante e sommessa. Il mio ossequioso silenzio, la mia duttile obbedienza si arrestavano sulla soglia della mia bocca schizzinosa. La zia intollerabilmente adorabile mi infilava senza ritegno certi gnocchi di purè nella bocca, odiosi quanto i suoi baci a pizzicotto e quelli toccava tenerseli ma che dire delle forze di stomaco che mi facevano strabuzzare gli occhi e ridepositare sulle manacce affettuose il subdolo contributo alla mia sopravvivenza? Quello che gli altri chiamavano profumo e accoglievano con l’acquolina a me pareva maleodorante ed igienicamente sospetto. Pensavo, tornata da scuola, davanti al piatto sempiterno, mentre il resto della famigliola era alla frutta a quante altre cose poco igieniche facevano le mani prima di tagliuzzare il minestrone.

 

 

A ben guardare lei, la mia perfetta sorella maggiore, aveva un difetto per il quale alcuni la fuggivano come la peste. Le cugine, specialmente, che venivano da noi a trovarsi un fidanzato, erano provate dal servigio che, in cambio di una calorosa e materna ospitalità, dovevano rendere alla zia, nostra madre: imboccare la mummia senza bocca. E in quella occasione sfoderavano tutte le loro abilità di seduzione, cosicché poche gliene restavano per i loro ganzi, i quali mai tennero più duro di un pomeriggio e io e mia sorella potremmo dimostralo ché la mamma ci mandava sempre a tener loro compagnia.

Io vivevo il mio momento di gloria, portata a sfavillante esempio di vitalità e di salute a quella smorta sorella ostinatamente bocca-chiusa e raccoglievo, tramutati in baci e carezze di aperto sollievo tutta l’irritazione che come lei il cibo, le cugine avevano lasciato dentro quel piatto. Mangiavo di tutto, ma preferivo una cucina ricercata, disdegnavo i piatti poveri – gli unici che mia sorella amasse – il pesce più infido non aveva segreti per me mentre lei, le volte che ne mandava giù un pezzetto, finiva sempre per strozzarsi.

 

 

Quando veniva l’estate e per ogni altra festa un po’ lunga i genitori mi spedivano dai nonni. Letteralmente: la mamma mi accompagnava alla corriera che portava dalla mia città al paesino dove vivevano, saliva sulla corriera, certa di incontrare qualche compaesana o una parente e mi lasciava con lei, con la mia piccola valigia, le treccine con i fiocchi e, finalmente, i pantaloncini alla pescatora. All’arrivo, scendendo dalla corriera avrei trovato il nonno. Amavo quell’avventura come poche altre cose e del resto c’erano poche altre cose con cui confrontare questo viaggio da sola. E adoravo stare con i nonni. Costoro, probabilmente normalissime persone, me le ero dipinte come arcangeli e ardevano per me come divinità di onnipotenza ed amore. Dal vero, la nonna era grande, altissima, ancora bella ma cagionevole di salute; aveva, sì, capelli bianchi di incredibile luce, sempiterne preghiere sulle labbra ma anche qualche innocente furbizia, con la quale riusciva a ottenere attenzioni ansiose e devote da tutti.

Il nonno, eh, il nonno rimpiangeva Mussolini e pur considerando il re un traditore al referendum aveva votato per la monarchia. Quando mi prendeva sulle ginocchia, canticchiava un ritmato faccetta nera e io credevo che l’avesse inventata per me che ero scura di pelle e con due occhi di carbone.

Il nonno, per fortuna, morì prima dell’affiorare della mia coscienza politica ma anche dopo la memoria di tutti me lo restituì giusto e generoso e pieno di umorismo.

 

 

Dei nonni non so altro che quello che lei mi raccontava. Sì, durante l’estate ci si trovava tutti insieme nella casa di campagna ma c’erano pur sempre mamma e papà. Era mia sorella maggiore a trascorrere la maggior parte del tempo di vacanza sola con loro: d’inverno la chiamavano a passar natale e a pasqua, persino, quando il tempo invitava ad andare in giro e mamma e papà, tutti per me, incontravamo gli amici. A ripensarci, avevo un po’ la fissazione dell’esclusiva – mamma e papà sempre sotto i miei occhi, perché non cominciassi con le mie furie. Rimproveravo la mamma perché non teneva inchiodato papà: tu, che lo lasci uscire! Anche se lei mi mancava, era una pacchia avere tutte le loro attenzioni. E papà sembrava aver dimenticato che, dopo la primogenita, avrebbe voluto un maschio.

Invece, lei se ne stava al paesello, ritagliando presepi di carta o dipingendo le uova con i nonni. Chissà se la sua contentezza era finta. Io non ci sarei stata manco un’ora, però loro tre erano strani: lei diventava mossa e baldanzosa, rideva e chiacchierava e raccontava le mille imprese di libertà che erano possibili là – starsene per strada tutto il giorno, fare gare di corsa in squadre agguerrite di maschi e di femmine; andare a casa delle amiche, ma anche delle prozie che la riempivano di dolcetti e soldini; arrampicarsi sugli alberi dell’orto; ascoltare a veglia le storie terrificanti della Lucia – invece che sotto le tenere  grinfie della mamma. Eppoi i nonni la guardavano con fierezza, con gli occhi che brillavano.

 

Con gli anni, ne sono passati tanti, ho letto e riletto, dentro di me, quella mia predilezione a stare con i nonni. Senza che ne avessi perso un grammo – un deposito aureo speso per la vita e per il passaggio che mi aspettava – quella felicità che ricordavo incondizionata avevo cominciato ad interrogarla. A quali altre cose – il piacere di andarmene libera per il paese dei nonni, quando diventavo d’incanto loquace, spiritosa e vorace e la gioia di brillare come un sole per il loro amore – a quali altre cose facevano velo?

Vivevo distrattamente il fatto che i miei genitori mi lasciassero così spesso  ma, a distanza di tempo, un messaggio prima indecifrabile si faceva chiaro: i miei genitori e mia sorella piccola, alleggeriti della mia presenza, viaggiucchiavano, vedevano amici, facevano comunque una vita di cui non ho mai saputo nulla; di cui non ero parte;  niente a che fare con l’esclusivo rapporto di mamma e papà con la mia sorellina capricciosa e piantagrane. A quell’età non mi facevo domande: era troppo evidente ai miei occhi il mio privilegio – persino adesso mi sembra tale, salvo rilevare l’atteggiamento dei miei genitori, che non vidi più come disinteressato da quella volta che – unico, mai più ripetuto ma inquietante indizio – ebbi una crisi di panico al separarmi da loro che correvano a Roma per un impegno di mondo, insieme alla sorellina. Mi sentivo precipitare, senza respiro e li implorai: non lasciatemi, ho paura di morire! Mi guardavano interdetti, la mamma soprattutto, ché mai e poi mai questa figlia un po’ sfuggente ma in fondo docile aveva armato un numero di quel genere: morirò! – gridavo – sento che morirò! e nello sguardo della mamma cresceva ad ogni mio grido la sua distanza, un raccapriccio per qualcosa di inaudito e inquietante. La mamma si tirò dietro la porta di casa, sempre con quello sguardo, senza nemmeno una parola di rassicurazione. Mai più, per tutta la vita, parlammo di quell’episodio. Del resto, subito le attenzioni dei nonni mi fecero dimenticare quella paura. Accoccolata sul petto vasto della nonna, mentre il nonno ne inventava una delle sue per farmi ridere – titoloni di prima pagina che mi vedevano brillante protagonista – presto, più che dimenticare, riformulai: per me era che, mentre stavo per morire, mamma e papà mi avevano abbandonato ma i nonni mi avevano salvato. Per me era che non avrei più avuto paura di morire, sentendomeli al fianco.

Ed è stato così, quando è accaduto.

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Elvira Federici

Elvira Federici è nata e vive a Viterbo. Laureata in filosofia alla Sapienza, ha insegnato nelle medie e nei licei, ha fatto la preside ( poi dirigente scolastica) in istituti medi e superiori impegnandosi sui temi del genere e della differenza; dal 2007 al 2011, ha lavorato in Brasile per conto del M.A.E.,. È cultore della materia per Linguistica Italiana –Università della Tuscia. ed è stata contrattista per Didattica delle lingue moderne. Ha pubblicato due manuali scolastici per Mondadori e Mursia. Ha scritto per Riforma della Scuola, Insegnare, Il Filo, Mosaico ( Comunità Italiana in Brasile). Nel 2005 ha pubblicato per la IDC PRESS di Cluj Napoca (RM), la raccolta di versi "Oriente Domestico". Collabora con la rivista Leggendaria. Di recente, oltre alla organizzazione del ciclo di filosofia Lineamenti di femminismi, genere, differenza, con Federica Giardini e le docenti del Master pari titolo di Roma3, ha progettato e curato per la Biblioteca Consorziale di Viterbo il ciclo "Elogio della Poesia", incontri con undici grandi poeti e poete della contemporaneità. È femminista ed ha attraversato il movimento a partire dalla differenza sessuale. Trova stimoli di fronte alla complessità emozionante del mondo, anche nel pensiero di Gregory Bateson, che frequenta da anni con il Circolo omonimo.

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