Proprio nel recente seminario Sil del 3 ottobre scorso, a proposito di Ferrante, Isabella Pinto ha proposto il concetto teorico della “diffrazione”, tratto dalla fisica quantistica, come luogo produttivo anche per l’analisi della letteratura contemporanea. Silvia Ricci Lempen parla dello stesso concetto nella postfazione autoriale al suo libro: «Le storie che avete letto sono tutte inventate, le personagge non mi somigliano e le loro vicende non hanno nulla a che fare con le mie; eppure tutte queste storie mi appartengono, sono agganciate alla mia da luoghi, momenti, stati d’animo, sogni miei e di altri, palinsesti di ricordi che si dipanano nell’arco di tutta la mia vita. Sono come una diffrazione infinita di me stessa, fatte dalla stessa pasta di emozioni, anche spostate, disgregate o rovesciate, come nei sogni».
Il libro intreccia le storie di cinque donne, non parenti ma legate da relazioni, con continui richiami alla Storia dai giorni nostri (anzi dal futuro), a ritroso fino alla prima guerra mondiale. La documentazione è scrupolosa, la costruzione del romanzo vede le donne che quasi si passano un testimone, una conoscenza, un rapporto personale, nel cambiamento di luoghi, classi sociali, ambienti e culture. Da Roma a Glasgow Federica, a Losanna Sabine, Gabrielle a Niort, Saint-Jean d’Angély e Ginevra, Clara a Bellinzona, Lugano e ancora Ginevra, infine nuovamente in Italia, a Carpineto Romano e Roma, Anna, i cui straordinari sogni danno origine al titolo al volume.
Ogni storia è costruita con tratti peculiari, riconoscibile nelle caratteristiche del tempo, nell’ambiente sociale, nei modelli culturali e nel linguaggio specifico. Storie raccontate a ritroso si sono già viste in numerosi libri, ma qui sono incatenate l’una all’altra da elementi soggettivi e oggettivi, da ricorrenze: alcuni episodi si ripetono, sono raccontati da punti di vista diversi, vengono ricordati e deformati dalla memoria, ritornano come “oggetti” di una nuova storia. Come ad esempio il disegno fatto da Raffaele, marito di Anna, su un sogno della stessa Anna, una immagine di donna che ricorda un quadro (esistente) della pittrice svizzera Aloïse Corbaz, quadro visto da Sabine e Gabrielle al Museo dell’Art Brut di Losanna, in un intreccio di realtà e immaginazione che dislocano i piani narrativi oltre la stessa narrazione.
Anche la narratrice in questo libro è problematica, assai lontana dal narratore onnisciente di cui abbiamo lunga esperienza come lettrici e lettori italiani. La narrazione è franta, molteplice, complessa, varia. Silvia Ricci Lempen si cala nelle diverse storie e le restituisce dal basso, dalla vita concreta, con diverse sfaccettature, attraverso frammenti, immagini non lineari, composizioni di voci e memorie spesso in presa diretta che ci assalgono disordinatamente: spetta a noi lettrici ordinare, consapevoli della nostra esperienza del mondo, come faceva anche Virginia Woolf. Accade ad esempio nel racconto della svizzera aspirante teologa Sabine che scende solitaria da una gita in montagna prendendo casualmente un percorso in linea retta in mezzo ai prati, la strada più difficile, non un sentiero segnato ma uno selvaggio, intricato da alberi e rami, pericoloso, in cui più di una volta ha paura per la sua vita, mentre riflette che, quella sera stessa, incontrerà Moritz, suo docente di teologia e amante, nella intricata vicenda amorosa collocata nell’ambiente severo e moralista della religione riformata della Svizzera. Noi lettrici percepiamo la tensione della narratrice che sta guardano con apprensione una scena in tempo reale, ma la frase finale ci rivela che è immaginazione. A volte la voce narrante è un flusso di pensieri, a volte sembra una narratrice esterna lontana dai fatti, a volte è una voce impersonale che parla con una evanescenza e frantumazione dello statuto del narratore che rende fluida e complessa la stessa narrazione.
Il ritmo è un altro aspetto che rende suggestivo questo libro. La fluidità del discorso, la molteplicità dei punti di vista, le diversità delle storie legate da fili (oggetti, luoghi, impressioni, emozioni, immagini) che si muovono da un ambiente all’altro, fanno capolino, si svelano del tutto, si mostrano nascostamente. Sono rimandi che danno compattezza alle diverse narrazioni, non le disperdono nella discontinuità, e tuttavia le lasciano libere, agili a muoversi nelle dimensioni differenti del senso, a esplorare realtà non comuni.
Altro aspetto che dà agio e libertà alla narrazione è la scelta dei tempi cronologici in cui le vicende delle diverse storie si dipanano: generalmente pochi mesi. Poi, come vanno a finire le singole particolari storie? Non lo sappiamo perché quello che conta sono gli intrecci, gli accadimenti che legano le diverse vicende delle diverse donne, e consentono i rimandi da una storia all’altra. Eppure si narrano eventi che coprono l’arco temporale di un secolo: sì, ma attraverso brevi frammenti di altre storie, che conducono a un finale a noi sconosciuto.
Il romanzo, premiato con una borsa letteraria della Fondazione Pro Helvetia, è già uscito in francese e questa stesura italiana non ne è la traduzione, ma una nuova scrittura con notevoli divergenze, come in uso da parte di alcune scrittrici contemporanee, ad esempio la turca Elif Shafak, che secondo Pamuk è la più importante scrittrice turca odierna, e che scrive indifferentemente in turco e inglese, e ha pubblicato versioni differenti nelle due lingue del medesimo romanzo.
Dicevo prima dell’ottica della diffrazione con cui è composto il libro, segnalata dall’autrice nella postfazione, in cui dà conto delle rigorose documentazioni storiche e relazionali che supportano le diverse narrazioni, e degli rapporti più o meno diretti con la sua vita personale. L’autrice è italo svizzera, perfettamente bilingue, (vive a Losanna), e, ad esempio, conosce bene l’ambiente religioso in quanto ha sposato un pastore della Chiesa Evangelica Riformata, questo a suffragare la storia di Sabine, e così per le altre.
La stessa scelta di fare una puntuale postfazione come luogo di presentazione dei supporti storici e sociologici che sorreggono la narrazione di un secolo di Storia del libro e ne documentano lo spessore, e insieme come scioglimento di alcuni nodi con la sua vita personale e famigliare, viene a mescolare invenzione e memoria, racconto privato e Storia, offrendo a chi legge prospettive stranianti. Ancora una volta le narratrici si rivelano capaci di oltrepassare i canoni e le modalità consuete della scrittura narrativa, aprendo i romanzi a inediti e suggestivi orizzonti.
Silvia Ricci Lempen, “I sogni di Anna”, Vita Activa, Trieste, 2019.
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Gabriella Musetti
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