Senza pretendere che il mio giudizio sia assoluto, pur se condiviso da critici della carta stampata, nonché da spettatori e spettatrici, penso che sia stata una pecca molto palese del Festival di Venezia 77 l’aver congedato Emma Dante, con il suo Le sorelle Macaluso, senza un attestato tangibile della sua grandezza.
Grandezza che si nutre della complicità della città di Palermo. Del suo groviglio di fastosa bellezza, intelligenza, edonismo e dolore senza riscatto. Quel dolore e la furiosa complessità del vivere nelle cui pieghe solo il genio narrativo e l’umano sentire di Emma Dante può insinuarsi, comprendere e universalizzare. E più geniale è la messa in scena del dolore perché scrutato, con imprevedibile maestria, nelle anse più sordide dell’umana natura, nell’ emarginazione disperata in cui forme e creature “variopinte” possono esprimersi prive delle sovrastrutture imposte dai rigorosi dettami dell’umana convivenza. Più che con la parola, la geniale artista palermitana, affascina e respinge con l’urlo dei “corpi” ai quali, il suo ormai noto rigore, imprime, come in un sortilegio, una inquietante e grandiosa movenza scenica.
Inimitabile autrice e regista di testi teatrali, con le due prove cinematografiche – Via Castellana Bandiera (2013) e Le sorelle Macaluso (2019, già successo teatrale) – Emma Dante non manca di sorprenderci.
Le cinque sorelle Macaluso vivono all’ultimo piano di una palazzina di periferia in affaccio al mare tra svolazzi di colombi, animi liberi così come le sorelle, e la simbologia del volo non è casuale. Deputati alla sussistenza delle sorelle, i colombi sono dati in affitto per cerimonie nuziali ma sempre puntuali ritrovano la via di casa. Il film inizia con un animato insieme di libertà e vitale giovinezza, come un’infanzia “pre-televisiva”, tra un mobilio dozzinale anni ’50, affastellamenti di oggetti le cui presenze sono esse stesse corpi della narrazione: un pinocchio di legno, il vecchio cavallo a dondolo, la marionetta del teatro dei pupi, il servizio buono nel comò al modo di quinta di un teatro famigliare del passato, di una possibile presenza genitoriale oggi scomparsa. Ed è l’assenza dei genitori e parenti tutti che nel film è condizione di un vivere libero dalle elaborate costrizioni del governo del mondo. Una libertà “eccentrica” che si offre come l’inatteso che altera la norma e l’invenzione di un futuro attorno ad un unico oggetto: lo scandalo della felicità.
Questa gioia è ritratta magistralmente dalla regista nelle prime sequenze del film con i preparativi di una giornata al mare. E poi i giochi nell’acqua, i balli, la musica, tutto furtivamente conquistato nel lido più “illustre” della città, il Charleston, orgoglio dei ricchi e attrazione dei poveri. Ma la pena del vivere, così magistralmente indagata da Emma Dante, incombe sull’umana avventura e assale inesorabilmente le vite delle sorelle. Metafora del dolore è un divieto infranto: l’insinuarsi della piccola Antonella attraverso una scaletta là dove non è consentito accedere, così come non è consentito assecondare la legge del desiderio, l’unica per la quale valga la pena di pagare un prezzo. Ma qui il prezzo è assai gravoso, è la tragedia della perdita della piccola. È la fine della “gloriosa” giovinezza, il divieto di assecondare il dominio del sogno e l’inizio dei passaggi d’età delle protagoniste. Il loro futuro sarà segnato inesorabilmente da quella tragedia i cui particolari ci vengono svelati alla fine del film e della vita delle protagoniste.
Con il lento disfacimento di un mondo, quello delle sorelle Macaluso, la narrazione si fa “furiosa”. Emma Dante non cede mai alle lusinghe del mercato. La sua narrazione è “suggestiva” senza essere seducente. Nulla risparmia ai suoi personaggi né fa l’occhiolino allo spettatore e alla spettatrice pur arricchendo il film di ogni sentimento dell’animo umano. Uno specchio deformato e deformante in cui chi guarda è immerso suo malgrado. Un mondo di follia e normalità si intrecciano. Dapprima amore e tenerezza, poi dolore, risentimento, sensi di colpa e rabbia. Il malessere esplode nella casa dove le sorelle, entrate nella maggiore età, si sono ormai rinchiuse segnate definitivamente dal peso della morte della minore. I sogni si sono infranti con crudezza. L’amore tra loro diventa astio. Il malessere dai corpi passa agli oggetti che lentamente si deteriorano. La tenerezza dei baci di Maria con una compagna e il suo sogno di ballerina si infrangono in un cancro. La bellezza di Pinuccia è offesa dalla volgarità del concedersi indiscriminatamente. Lia si rifugia nella follia e Katia, che viene fuori dalla casa sposandosi, non riesce a tenersene distante. Solo Antonella si porterà con sé la felicità della giovinezza e, tra le note di Gianna Nannini, il sogno di cinque “meravigliose creature”.
Antonella è rimasta viva morendo, non invecchierà, non sarà assalita dal dolore del vivere, ma cullata dal ricordo e dall’amore delle sorelle la cui vita è devastata dal ricordo e dal sentimento di colpa per quella morte. La piccola ritorna ossessivamente nei gesti che precedono la fatale giornata al mare. Non c’è catarsi nella malinconia e nel passare del tempo. Ad ogni volo di colombi incombe il passaggio d’età. D’improvviso insorge la vecchiaia: i corpi si trasformano così come gli oggetti. Si muore. La casa delle sorelle Macaluso è venduta e viene svuotata.
Nulla resta di quelle vite se non le ombre sulle pareti degli oggetti che l’hanno vissuta. Quel nulla che la cultura patriarcale aborrisce imponendo cognomi, eredità, segni di ogni possibile cimelio della memoria, barricate e baluardi contro la morte, genealogie che custodiscano la parola dei padri contro il silenzio delle madri. Ci piace pensare che di questa vanagloria maschile si faccia gioco il genio di Emma Dante, dissacratore di miti e riti, escludendoli dalla storia e narrandoci il senso più profondo della vita e il nulla della morte.
Grande film quello di Emma Dante, che ci confonde per le innumerevoli suggestioni che si rincorrono in poche giornate del vivere in una fuga che tale è il nascere, il crescere, e il morire, la trasformazione impietosa dei corpi, quasi un volo di colombi. Le sorelle Macaluso è una coraggiosa pedagogia in un mondo edonista, superficiale, immemore, ottuso, affannato per l’ossessione del vivere in un eterno presente. La prova delle attrici, che si succedono con i passaggi d’età è straordinaria. La palermitanità suggestiva e misteriosa. Ottima la sceneggiatura. Da non trascurare la sapienza del difficile montaggio e il coraggio di una produzione nell’insipiente panorama produttivo italiano.
Dopo aver visto Le sorelle Macaluso si fa fatica ad entrare in un cinema senza pregiudizi.
Le sorelle Macaluso, 2020 regia di Emma Dante, 94’. Con: Alissa Maria Orlando, Susanna Piraino, Anita Pomario, Eleonora De Luca, Viola Pulsateri, Donatella Finocchiaro, Serena Barone, Simona Malato, Laura Giordani, Maria Rosaria Alati, Rosalba Bologna, Ileana Rigano. Sceneggiatura: Emma Dante, Elena Stancanelli, Giorgio Vasta, Produttrice: Maria Stocchi Rosamont, Minimum fax, Rai Cinema, Distribuzione: Theodora
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Pina Mandolfo
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