La violenza quotidiana

Giulia Caminito, 10 settembre 2020

Forse è la mia adolescenza a essere stata atipica, inizio a pensarlo.

Forse i luoghi, una periferia ricca e povera insieme, una borghesia per niente colta ma pronta a comprare a figli minorenni scarpe di stilisti affermati e Rolex e viaggi a Ibiza, e molte famiglie di badanti, colf e stranieri che devono convivere con questo lusso, questo spreco ordinario. Forse la copresenza degli ospedali cadenti, delle ville gigantesche, dei calciatori e delle scuole private, forse Roma nord che non è mai solo Ponte Milvio e non è solo camice fresche di bucato, polo e Ultras allo stadio Olimpico, ma anche classi nei container senza riscaldamento, spaccio di eroina in stazione e omicidi per affogamento. Può essere tutto questo, ma se devo dirvi la verità a me non potrà mai stupire la violenza anche più estrema che si compie spesso senza una ragione.

Era la norma quando io ero al liceo, fuori dalla scuola c’era sempre qualcuno a fare la posta a qualcun altro per picchiarlo, ogni giorno. All’Istituto tecnico dove andava il mio fidanzato le poste le facevano con le catene dei motorini in mano, e non le tenevano in mano per decorazione, proprio no, le usavano per picchiare quello che aveva risposto male a quell’altro, mentre era seduto con l’altro ancora a ricreazione.

Mi ricordo miei amici con gli occhi tumefatti o i punti in testa, mi ricordo i fratelli maggiori che venivano a fare la scorta per riportarli a casa incolumi e il giorno dopo però la tiritera ricominciava, perché ci volevano mesi per far desistere quelli con le catene.

Era la norma alle feste di paese, alle serate in discoteca che si accendessero risse per ragioni banali, uno sguardo, una occhiata di traverso, un commento al bar, un saluto alla persona sbagliata ed era subito il caso di uscire dal locale e accapigliarsi, prendersi a bottiglie di vetro in faccia.

Potrei elencare molti episodi, uno su tutti: eravamo a giocare a beach volley in riva al lago, eravamo pochi per fare due squadre allora ci siamo aggiunti ad alcuni già in campo, anche loro pochi. Tra gli altri c’era un ragazzo i cui tratti non ricordo più, ricordo solo che era fidanzato con una delle ragazze in campo ed era sempre molto nervoso, agitato, inveiva, si accalorava. Un mio amico ebbe la brutta idea, quando lui e la ragazza si trovarono sotto rete insieme per scherzare di lanciarle della sabbia col piede, un gesto qualsiasi giusto per alleggerire l’atmosfera tesa. Il fidanzato scattò e raggiunse il mio amico, gli assestò una testata, nel campo di sabbia posticcia sul lungo lago mentre giocavamo a beach volley. Avevamo venti anni e la cosa non ci stupì affatto, la fidanzata scoppiò a piangere e uscì dal bar per camminare su e giù sulla strada, dicendo che andava sempre a finire così.

Era la norma accoltellarsi fuori dai locali, senza neanche conoscersi, senza essersi fatti un torto, non che il torto lo avrebbe giustificato, ma era evidente a tutti la totale assenza di movente, lo scatenamento e l’aggressione fini a se stessi, per ribadire una capacità di attacco, una certa possibilità di dominare, di incutere timore. I ragazzi di paese giravano petto in fuori e gambe divaricate, usavano il dialetto stretto per insultarsi e più avevi amici dalle spalle larghe, noti a tutti perché facili alle mani e più eri protetto, perché potevi sempre chiamarli. Ho assistito a telefonate per le adunate punitive, per andare a picchiare questo o l’altro, per stanarlo dalla macchina in cui si era rifugiato, per dargli fuoco al motorino.

Era la norma che si picchiassero anche tra amici dopo molta cocaina o molte birre, li ho visti in giornate goliardiche qualsiasi, per esempio al lago in un giorno di festa, ferirsi con rancore dopo aver discusso probabilmente su chi dovesse prendere o meno il pedalò e colpirsi con tanta violenza da svenire coperti di sangue. Persone fraterne, che condividevano la classe dall’asilo, persone che uscivano insieme ogni giorno e che però si erano attaccate comunque, non come gli animali, ma come gli affamati per un pezzo di carne.

Che non sia morto nessuno mentre io ero lì credo sia un puro caso, pura fortuna, perché nessuno sembrava in grado in quei momenti di capire il senso di quello che stava facendo, di interrogarsi sui motivi e le conseguenze, c’era altro in ballo, qualcosa che da donna incapace di schiaffeggiare persino una pianta, io non ho mai capito fino in fondo e continuo a non capire del tutto. L’unica cosa che so è che non serve delimitare questi atti di violenza a bestiali, a occasionali, a mostruosi perché operati da individui incivili e fuori contesto, un piccolo manipolo di pazzi. Purtroppo è da molto tempo che il problema è radicato e radicale, non è affatto laterale, non è affatto sporadico, è spesso presente nelle scuole e fa parte dell’educazione di molti a come si sta al mondo, a come ci si difende, a cosa serve per evitare di venire schiacciati dagli altri, a come si viene considerati con favore. È una questione di riconoscimento, e la voglia di riconoscimento può portare a lotte estreme, sanguinarie, ferocissime.

Certo, ci sono gli eccessi, ci sono individui che hanno reso la violenza parte della loro quotidianità, e che la operano fino alle estreme conseguenza, come se fosse un rito tribale di scatenamento comune, ma resta il fatto che tutta la mia gioventù io queste persone le ho avute a un passo, nessuno le ha mai fermate, nessuno le ha mai rieducate, nessuno le ha mai condannate, nessuno le ha mai arginate.

Io sapevo che quando vedevo uno di loro dovevo andarmene, era proprio automatico prendere e andare via, girare la faccia o cambiare strada, risultargli invisibile era l’unico modo per non farsi notare. A questo mi sono e ci siamo autoeducati da adolescenti: a subire questa violenza, a vederla accadere e a non dire nulla. E come me molti e molte altri, che pur di non avere problemi seri, perché non si trattava di semplici discussioni, ma di persone che se alterate potevano mandarti in ospedale, si fingevano assenti, non pervenuti.

Le colpe sono quindi individuali, ma il problema è collettivo, è sociale, e non è solo delle borgate, non è solo cosa da ragazzi di periferia o da tipi palestrati e tatuati, ma di molti ragazzi, anche giovanissimi, che pensano quello sia l’unico modo per valere qualcosa nella loro vita, quello di saper picchiare, di poter volendo ammazzare qualcuno.

Io non so come si possano liberare bambini-adolescenti-uomini da queste convinzioni, come si possano fermare dall’aggredirsi pensando che ferire sia la maniera giusta per crescere e diventare magari degli assassini in una sera qualsiasi contro un ragazzino inerme qualsiasi giusto per il gusto e la facoltà di farlo, non so davvero, ma la me di diciassette anni sa per certo che non è una novità e che queste cose purtroppo le conosce molto bene e non le ha mai dimenticate.

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Giulia Caminito

GIULIA CAMINITO è nata a Roma nel 1988 e si è laureata in Filosofia politica. Ha esordito con il romanzo "La Grande A" (Giunti 2016) che ha vinto il Premio Bagutta opera prima, il Premio Giuseppe Berto e il Premio Brancati giovani. Ha poi pubblicato con Bompiani “Un giorno verrà” nel 2019 e “L’acqua del lago non è mai dolce” (2021) con cui è arrivata finalista al Premio Strega e ha vinto il Premio Campiello 2021. Ha scritto inoltre due libri per bambini "La ballerina e il marinaio" (Orecchio Acerbo 2018) e "Mitiche" (La nuova frontiera junior, 2020). Nella vita lavora come editor e si occupa di narrativa italiana. È nella redazione di Letterate Magazine. Cura un festival letterario che si tiene a Roma nelle scuole, Under - festival di nuove scritture. Ha portato i suoi laboratori di scrittura in librerie, biblioteche, scuole e carceri.
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