MAGÁTA
di Francesca Zoppei
Baby I love you, I wander day and night
Baby I need you, vorrei vederti ma tu.
No! Non vuoi venir, solo impazzirò
senza di te.
Mirko e i Bee Hive
Dio mi parla ogni sera, ha la faccia trasparente e la voce del nonno paterno morto con il cancro, le amanti e i debiti.
Abbiamo chiuso con i traslochi sulla Ritmo stipata di borsoni a seguire i metanodotti di papà. La casa nuova è finita, la mamma ha tolto la pellicola ai vetri e ha riempito gli armadi, le credenze, le vetrine.
«Devi proprio tenere tutto?» le chiede papà.
«È tutta la mia vita».
Una vita di sacrifici e soprammobili, appoggiati sui centrini e inchiodati ai muri.
Col primo impiego da geometra, papà aveva mantenuto la madre e la sorella che alla morte del nonno aveva la mia età. Qualche volta papà si sbaglia e mi chiama col nome della sorella.
«Vedi? Vedi che sbagli sempre famiglia?» lo riprende la mamma.
«È mia madre.»
«Io mi comporto da madre, lei si comporta da amante.»
Il giorno del matrimonio la nonna le aveva detto: «Guarda che se voglio, posso farti divorziare.»
La mamma lo ripete spesso, insieme a tutto il resto: i soldi che continuiamo a darle, le porte che papà ha ritirato anche se erano sbagliate, le tegole del tetto troppo chiare, l’assenza di papà quando è al lavoro, la sua assenza quando è a casa.
In cucina, in mezzo ai libri delle ricette, tiene un vasetto con dentro dei sassi: uno grande, uno medio, uno piccolo, sono i calcoli che le hanno tolto all’ospedale. Quando viene qualche amica a bere il caffè li scuote: «Questo più grande è mia suocera, questo mio marito, questi le cognate». Ridono.
Io sono ospite in camera di mio fratello: la mia è ancora uno sgabuzzino, un deposito di scatole e giochi, con la rete e il materasso nudo al centro; la sua invece profuma del legno con cui hanno costruito l’armadio, i due letti, che uniti formerebbero un lettone, e i comodini a separare il suo spazio da quello che mi viene concesso.
Nel buio, Dio scende sul capezzale di abete, immenso come certi temporali che arrivano neri dalle montagne oltre i campi dietro casa e da lì scompaiono, e misterioso come le sere d’estate in cortile, fatte di lucciole vicino alle siepi, di canti di civette e rospi mollicci nel buio. Mi chiede della mia giornata, della scuola nuova, mi chiede se sono pronta per ricevere Gesù.
Gesù scende sotto forma di wafer bianchissimo ma senza la cioccolata e se non sto attenta si attacca al palato.
Matteo Manfrini si è infilato l’indice in bocca per scollarselo e io stavo per fare uguale, ma Suor Bruna lo ha sgridato e vergognandomi del suo e del mio gesto sono rimasta per i successivi minuti di raccoglimento con le mani giunte e immobili davanti alla bocca, cercando di staccarlo con la lingua.
Sono le prove della comunione, queste ostie non sono consacrate, il vero corpo di Cristo arriverà solo la terza domenica di Aprile. Tutto il paese che conosco si prepara per la primavera di questo Anno Santo, il restante si adopera per i Mondiali Italia ’90: stanno perfino costruendo un albergo. La mamma dice che è una speculazione: «C’è ancora l’impalcatura, impossibile che sia attivo in estate. E poi, chi vuoi che ci venga qui? Solo a tuo padre poteva venire in mente».
Ai tedeschi però viene in mente spesso, forse perché all’inizio del paese c’è il cartello: “Zona tipica di produzione del mobile d’arte” e si allungano in qua dal paese vicino che è più grande, parcheggiano le loro Mercedes davanti al capannone dell’artigiano che ritengono più adatto ad arredargli la casa.
Fraccaroli Mobili è dal dopoguerra che commercia con la Germania (alcune voci dicono anche da prima) e con il Comune hanno deciso che a Settembre organizzeranno una grande sagra: i tedeschi verranno con gli autobus ad aria condizionata, gli alpini cucineranno, l’orchestra suonerà, ci sarà un torneo di tennis, sarà tutto gratis.
Io e la mamma siamo le cavallerizze della Pesca di Beneficienza della Sagra dei Tedeschi. I profitti andranno alla Parrocchia, e noi a cavallo della vecchia Cinquecento percorriamo “la via del mobile d’arte” che, passato il nostro paese, diventa sontuosa, costellata da statue di vergini nude e prive di testa, di angeli panciuti, di alani in porcellana davanti alle vetrine luccicanti Marioni Laccati, Dorigato Sedie, Ferrari Cucine.
Rallentando un pochino alla curva dei Carabinieri, la mamma mette il rimmel nello specchietto, prima un occhio poi l’altro e, senza sbavare, mette anche il rossetto. Dopo la curva, alza lo specchietto, scala la marcia e accelera.
Consegniamo lettere di richiesta o di ringraziamento che ha scritto lei con la macchina di ferro e i tasti che battono sul rullo secchi, come le sue dita.
Da quando ci siamo trasferiti, ha provato a riprendere il lavoro di segretaria, ma le cose sono cambiate in quindici anni di matrimonio: il francese è ormai considerato lingua letteraria e bisogna saper usare il computer. La sua bella grafia, che le è valsa innumerevoli dieci e altrettanti complimenti in azienda, non vale più niente.
«Se sapevo che mi faceva venire qui, a vivere come i contadini, me lo tenevo stretto il mio lavoro in città. Non c’è neanche un supermercato, figurarsi un corso di aggiornamento per il computer o le lingue straniere.».
Per ritirare le donazioni posteggiamo sul retro, carichiamo una poltroncina sul sedile posteriore, il terzo premio della lotteria.
Al ritorno mi devo sedere davanti e nella curva dei Carabinieri mi nascondo sotto il cruscotto. Insieme, io lì sotto e la mamma alla guida, preghiamo Dio.
I Carabinieri non ci fermano mai.
La camera di Gabriele è l’ultima del corridoio e confina da un lato con la mia, dall’altro con quella degli ospiti dove, nell’armadio a parete, la mamma tiene le lenzuola, le coperte, gli scampoli e pile di Burda e cartamodelli che, prima di questa casa troppo grande, aveva tempo di stendere sul tavolo per ritagliarci sopra gonne a ruota con la vita alta per sé e vestiti con colletti larghi per me.
Scivolo sul parquet del corridoio lungo tutto l’armadio di mogano, sbatto sulla ringhiera in noce; a destra c’è la camera della mamma, la stanza più bella, con il balcone e le tende in pizzo color crema, ma la muffa esce in grandi chiazze verde scuro dietro la sacra famiglia scolpita nel legno, proprio sopra la testata del letto matrimoniale.
La mamma ci spruzza la candeggina e ci passa una pezza. Prima della ristrutturazione questa era la camera dei salami, una stanza umida e buia con ganci di ferro e pezzi di carne appesi alle travi del soffitto a sudare.
«Abbiamo sbagliato anche questa» sbuffa la mamma e continua a sfregare.
Mio fratello prende la corriera tutte le mattine perché fa le superiori e non gioca più con me all’Uomo Tigre; solo qualche volta, prima di dormire, mi parla dei musicisti che gli piacciono e che io devo conoscere se non voglio diventare come quelle stupide delle sue compagne: «Le canzoni di Eros Ramazzotti sono merda. Ripeti.». Ripeto tutto, anche la parolaccia.
Delle canzoni che considera importanti, mi piace quella del pescatore all’ombra dell’ultimo sole, che mi è facile immaginare con la faccia del nostro vicino di casa, addormentato sulla sua sdraietta sotto i platani della Cava in fondo alla via, con il sole che scende dove la strada diventa di ghiaia e si restringe fino a perdersi nei campi. Dio, che se ne intende di parabole e simboli, dice che l’ombra dell’ultimo sole è una metafora così come la Donna Cannone che viene sparata nel cielo e senza ali e senza rete vola via: entrambe vogliono dire che muoiono. A me, tranne il nonno, non è mai morto nessuno, ma se morire significa andare in Paradiso al cospetto di Dio, va tutto bene, no?
«E Gelato al limon di chi è?» mi interroga Gabriele nel buio.
«Quale?»
«Quella che fa… Un gelato al limon, un gelato al limon, gelato al limon...»
Nessuno di noi capisce bene quale sia la metafora del Gelato al limon. Mentre rincorro nella memoria il nome giusto, trovando solo lo sgarbo del limone in bocca, mio fratello cerca con i polpastrelli il contatto con le corde, do sol do sol do batte sul materasso.
«De Gregori?»
«Mmmm, l’ha scritta Paolo Conte. Se però indovini questa te la passo: Chi è “la mano sinistra del Diavolo”?»
Chiedo a Dio, dal suo vortice onnipotente, di aiutarmi a ricordare.
Gabriele l’ha dipinto sul giubbino di jeans con il nero da stoffa della mamma, un tizio coi capelli ricci ricci, quando siamo arrivati in paese pensavano che mio fratello fosse un tifoso di Maradona.
Jimi Hendrix.
«Jimi Hendrix!» ripeto.
«Hai vinto. Adesso dormiamo»
Sabato il camino della sala è acceso perché papà è a casa, la mamma è andata ad addobbare la chiesa con i fiori del giardino e altre piante che abbiamo raccolto nei nostri giri, io disegno in cucina: lì il camino è acceso sempre. Papà riesce a stare delle ore seduto sul divano masticando semi di zucca e guardando film gialli; cambia canale alla pubblicità e quando si baciano sul finale.
Lo ritraggo con i colori lunghi della scatola che mi ha portato in regalo: ha una camicia azzurra, nella mano stringe la sua ventiquattrore di pelle, ai piedi c’è il cane sputafiamme a sei zampe dell’Eni.
Quando glielo mostro in salotto, ride del cane e mi dice: «E il cielo, lo lasci bianco?»
Al tavolo tempero l’azzurro fino ad avere sufficiente polvere e la spalmo col dito a cerchi concentrici, poi torno in salotto.
Papà guarda: il cane nero, la fiamma rossa e tutto quell’azzurro che lo avvolge.
«E il sole? Non lo fai il sole?»
Aggiungo il sole con occhi e bocca e un albero o un paio di margherite o un cespuglio, e vado avanti e indietro finché papà non mi dice: «Va bene, ma manca la firma».
A volte gli faccio indossare il soprabito beige, come quello dell’ispettore Colombo, che credo sia uno dei suoi telefilm preferiti.
Quando la mamma torna, le bucce dei semi di zucca di papà sono una collina sul tavolino del salotto: «Non si fa mai niente con te, non si va mai da nessuna parte: solo il divano e quei film dove ammazzano le donne. Non potevamo prendere un appartamento a Padova? Almeno mi facevo un giro in centro, qui non c’è neanche una pasticceria».
Quest’anno papà ha compiuto quarant’anni, ha smesso di fumare e si è messo in dieta. Mangia ottanta grammi di pasta in bianco, una scatoletta di sgombro, una ciotola di verdura, oppure mezza ciabattina di pane fresco e una bistecchina di pollo pallido e scondito.
La mamma all’inizio l’ha considerato un capriccio, ma col passare del tempo lo sta prendendo come un affronto personale.
Si sfoga col pranzo domenicale: tagliatelle fatte in casa, risotto, arrosto o lesso, verdure cotte e crude, formaggio, dolce e caffè, ma dato che a papà la pancia non scende, mangia poco anche alla domenica e ha iniziato a correre: dieci chilometri il mercoledì per i parchi di Padova o di Pordenone a seconda dell’ufficio che occupa, dieci il venerdì quando ritorna e venti la domenica mattina: «Bell’esempio che dai ai tuoi figli a saltare la Messa solo per la tua bellezza. Miscredente!».
Al pranzo della domenica viene la nonna con lo scialle da vedova sulle spalle, porta in dono una presina fatta all’uncinetto: la mamma ringrazia e la mette nel cassetto con le altre che a settembre porterà alla pesca dei tedeschi.
Durante il pranzo, la nonna e il papà parlano di diete e di calorie; la nonna si accerta:
«L’hai fatto col burro?»
«No, io cucino tutto con l’olio. L’ho imparato al sud.»
«Anche il coniglio?»
«No il coniglio no, ma questo è manzo».
La mamma guarda papà e papà guarda il piatto, allora si alza per sparecchiare. Il papà e la nonna si buttano sul divano, lei si tira lo scialle sulla pancia: «Cosa sarà mai tutto questo cucinare? Fammi un canarino, va là, che ho mangiato troppo.»
La mamma sbuccia un limone e una lacrima le corre lungo la sua guancia profumata. Poi sbatte i piatti nella lavastoviglie e papà riaccompagna la nonna a casa, che è lungo la via dei mobili nel paese vicino.
«Tua nonna pensa solo a sé stessa, mai una volta che faccia qualcosa per gli altri, per noi. E adesso: c’è bisogno che si rifaccia il bagno di nuovo? Ci deve ancora dei soldi».
Quando papà torna, l’unica cosa che vorrebbe è recuperare il divano e sonnecchiare con la testa penzoloni davanti a Peter Falk e al suo occhio di vetro.
«Era tenera la lingua?» gli chiede la mamma.
«Mmm…»
«E la pearà era giusta, vero?»
«Ti è scappato il sale.»
«Cosa ti faranno cinque calorie in più? Andiamo a fare un giretto?»
«Dove?»
«In città?»
«C’è traffico e figurati se troviamo parcheggio»
«Andiamo a trovare i Povolo allora»
«Cosa vuoi andare in casa della gente a quest’ora»
«Perché per te la giornata è già finita vero? Non c’è neanche buio e hai già chiuso gli scuri.»
«Vuoi litigare, Gigliola?»
«Ah sono io che voglio litigare? Non tua mamma?»
«Abbassa la voce»
«Non mi difendi mai»
«Abbassa la voce»
«Voglio un marito»
«Sono qua»
«No tu vivi da scapolo tutta la settimana e torni che fai finta di essere ancora scapolo! Io voglio un marito che mi porti sottobraccio a fare una passeggiata, un marito che mi consideri, che mi faccia i complimenti, non uno che sta sempre a sminuirmi».
«Ti ho chiesto di abbassare la voce»
«E io ti ho chiesto di difendermi davanti a tua madre»
Giro su un film di Stanlio e Ollio, ma non fa ridere. Gabriele suona la chitarra in cucina, senza amplificatore, fa delle facce strane ogni volta che sbaglia o durante un passaggio difficile. Tutto ci urla intorno e lui sente solo la musica vibrargli in testa. Lo invidio.
Strizzo gli occhi fortissimo.
Padre Nostro che sei nei cieli
scendi sulla terra
e falli smettere.
Padre grande che tutto hai creato
Fai morire la nonna
Se lo fai…
mi faccio suora.
Alla mattina mi sveglio con gli occhi ingabbiati da squame dure di muco aggrappate alle ciglia. Il dottore dice che bastano gli impacchi di camomilla per ammorbidirle e poco alla volta si possono rimuove col cotone.
La mamma prepara il pentolino prima di svegliarmi, così la camomilla è già tiepida e, ancora stesa nel letto con un vecchio asciugamano sul cuscino, di quelli lisi e ruvidi che piacciono al papà, faccio gli impacchi.
Quando siamo di fretta non ce n’è il tempo, e in macchina, correndo verso la scuola, gratto via brandelli microscopici di caccole che rimangono impigliati nelle unghie insieme a qualche ciglio.
La mamma prende una curva e poi un’altra, frena davanti alla scuola, alza il sedile, mi fa scendere e mi saluta con un bacio. Odio il suo ritardo e odio lei quando mi fa arrivare tardi, e odio correre su per le scale, aprire la porta della classe già chiusa per espormi allo sguardo di tutti.
Passo dietro alle sedie dei miei compagni tenendo alta la cartella, attenta a non inciampare nelle loro, raggiungo il mio banco, estraggo i quaderni e l’astuccio, volto la testa nella direzione dell’insegnante. È inutile: Matteo Manfrini mi ha smascherata, si infila un dito all’angolo dell’occhio e sollevandolo, come a dimostrare lo schifo che ci ha trovato dentro, con quei suoi denti appuntiti mi sillaba: «Magàta».
«È colpa tua se stamattina non sono riuscita a togliermi le magàte, è colpa tua se Matteo Manfrini mi chiama così» le urlo quando sono di nuovo in macchina.
«Ma va là» dice «i maschi fanno così con chi gli piace, invitiamolo a fare i compiti da noi»
«No»
«Gesù ha detto: porgi l’altra guancia».
Dopo aver chiuso i quaderni dei compiti, la mamma manda me e Manfrini fuori a giocare solo col berretto, perché non fa più così freddo. Andiamo alla casetta che mi sono costruita vicino al pollaio con le assi avanzate dalla ristrutturazione e alcuni secchi vuoti della pittura: lui è il dottor Robinson perché fa ridere tutti come Bill Crosby e io la bella Claire, sua moglie.
«Dimmi che ti piaccio» gli chiedo storcendogli il braccio dietro la schiena. E dato che non parla, insisto.
Dio arriva a fermarmi, silenzioso e onnipresente.
«Ma non si lamenta» protesto.
Gli fai male.
«Ma non piange».
Lascialo.
Manfrini si asciuga il naso e poi corre nel campo, urlandomi che prima devo riuscire a prenderlo e, dato che vince sempre a maschi contro femmine, non saprò mai se gli piaccio davvero.
A sera la mamma riceve la solita telefonata di papà, poi si rabbuia, Gabriele è alle prove col gruppo: «Ti lascio mezz’ora da sola, la nonna ha la febbre e ha finito la Tachipirina». Davanti a Kiss Me Licia, io e Dio cantiamo con il telecomando come microfono.
“Da grande farò la suora” scrivo sul tema il giorno dopo. Le mie compagne ridono, a Manfrini pare non importi proprio niente. La mamma dice che sono proprio una bambina buona, piena di sentimento.
Per il pranzo della domenica, invece, la nonna è guarita e siede a capotavola nel posto che papà cede solo a lei, avvolta nel suo scialle rosa polvere.
Dopo averla riaccompagnata papà si ferma da alcuni amici, torna un po’ ubriaco e si prepara per uscire di nuovo. Da solo.
La mamma non vuole e prende le chiavi della Ritmo. Il papà gliele strappa dalle dita, la mamma le riprende. Litigano.
Quando papà finalmente riesce a rimpossessarsene è solo perché l’ha sfregiata sulla guancia: un graffio che la attraversa dall’occhio al mento.
«Ti denuncio» dice la mamma, gli occhi fissi sulla mano sporca di sangue.
«Non l’ho fatto apposta» risponde lui ed esce.
Lei si asciuga con il fazzoletto che tiene sempre nella manica, poi si sgonfia sul divano e accende la tv.
Le porto il disinfettante, il cotone e una pezza bagnata che le ho visto tante volte tenere sugli occhi quando ha pianto a lungo. Nella televisione sono a casa di Chiara e gli altri, Ottavia Piccolo e Alessandro Haber hanno divorziato, la loro figlia ha la mia età, e sembra cavarsela molto meglio.
«Gabriele è grande e anch’io: se volete separarvi, noi capiamo» le dico.
La mamma si alza sul gomito, solleva la pezza e mi guarda con un solo occhio spaccato in mille rivoli rossi come avessi bestemmiato: «Non si può dividere ciò che Dio ha unito».
Perché?
Silenzio.
La mia anima è rivolta a te, Signore.
Silenzio.
Alzo gli occhi al cielo, ma c’è solo il lampadario, le gocce di cristallo oscillano appena per le urla di poco fa.
In camera Gabriele suona seduto sul letto.
«Chi canta via via vieni via con me?»
«Battisti?»
«No»
Accorri, Signore, in mio aiuto.
«Baglioni?»
Degnati, Signore, di liberarmi.
«Ramazzotti?»
«Hai perso».
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
Durante la notte, vengo svegliata da un urlo, seguito da un altro più sommesso: è la voce della mamma.
Esco nel corridoio che per fortuna non è così buio: la luce arriva azzurra dal piano di sotto, affacciandomi alla ringhiera, vedo la televisione accesa, ma il divano vuoto. La porta della camera è accostata, la sua voce arriva come un rantolo.
Dentro papà sta sopra alla mamma nudo e azzurro; con la sua grossa pancia preme quella di lei, le tiene le braccia aperte e immobili nel letto. La mamma sta sotto, il corpo nascosto da un groviglio di lenzuola. Guardo la pancia rotonda che sta schiacciando la mia mamma. Si fermano e i loro occhi sono quelli dei gatti sorpresi dai fari in mezzo alla strada.
«Mamma? Stai bene?» chiedo.
«Va’ in camera tua» risponde. La sua voce mi spinge in corridoio, è un pozzo buio e in fondo c’è il mio letto.
È questo il tuo disegno, Dio?
Una donna, lontanissima nella televisione in sala, litiga con qualcuno.
Il Paradiso deve essere disabitato e freddo, come il mio letto.
Quando mi sveglio, del papà e di Gabriele restano solo le ciabatte davanti alla porta e le loro tazze per la colazione sul tavolo.
«Vestiti ché siamo in ritardo» dice la mamma come se fosse la mattina di un lunedì qualsiasi, quando il papà parte con la valigia e a scuola cambiamo la maestra. La nostra è rimasta incinta o qualcosa di simile e ogni settimana proroga la malattia e ce ne mandano una nuova.
La Cinquecento attraversa la piazza veloce, ma io vedo appannato. Le cispe! Gratto quello che riesco, ma il tragitto è breve e le croste dure. Salgo le scale con il solito peso della cartella sulla schiena, solo che oggi sento pesare anche le gambe, come se qualcuno mi avesse schiacciata per tutta la notte.
La maestra nuova non è ancora arrivata, ma i miei compagni siedono ai loro banchi silenziosi, e ridacchiano. Si passano un giornale sopra le ginocchia, quando arriva sulle mie, guardo la mia compagna di banco interrogativa.
«L’ha trovato per strada Manfrini ieri» risponde.
Nell’immagine, papà sta sopra la mamma, non la schiaccia con la pancia, la schiaffeggia con il pisello dei maschi, che in questa foto è molto più grande di quello dei miei cugini. Vedo male, mi gratto un pochino agli angoli degli occhi e provo a mettere a fuoco, l’uomo è troppo lucido e non ha la pancia azzurra di papà, la mamma è troppo bionda, ma ha lo stesso sguardo triste e guarda nella mia direzione chiedendo aiuto.
Matteo Manfrini ride del mio silenzio: «La Magàta non la le sa mia cosa l’é un porno, parché no la riesse a vedar un cazzo!»
Tutti ridono ma io non vedo le loro bocche aperte e disgustose. Sono sola nello spazio circoscritto dai banchi, sola nella grande casa nuova, sola nel paese dei mobili d’arte: le lacrime scavalcano le cispe e scorrono fino al collo.
Mi strofino gli occhi sulla manica, alcune croste ammorbidite rimangono nel grembiulino stirato per la settimana, quanto basta per mettere a fuoco Manfrini e darmi la forza di alzarmi in piedi. Lui mi sfida: «La Magata l’è ‘na suora, no le mia bona de ciaparme!» e mentre scavalco il banco, è già scivolato via, perché lui è il più veloce della classe e io sono solo la bambina nuova, la bambina brava della mamma, la bambina brava del papà, la bambina che distingue la musica giusta da quella sbagliata, la bambina santa che farà la comunione e riceverà il Signore.
Infila la porta ma io gli sono dietro e lui fa l’errore di non prendere il lato delle scale, perché il corridoio è lungo ma chiuso, e quando arriva alla scrivania dei bidelli è in trappola. Ci si nasconde sotto, lo raggiungo. Alzo il braccio per dargli un pugno e poi un altro e un altro ancora, glieli do dritti in cima alla testa, dove da piccoli avevamo la testa molle aperta all’infinito, glieli do forti, con le nocche delle dita. Sono il Redentore e non c’è nessun altro Dio a fermarmi.
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥
Francesca Zoppei
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