Kate Raworth disegna una ciambella per rappresentare, con i suoi cerchi concentrici, i limiti che non possiamo superare per non stressare il pianeta e la specie umana oltre la soglia della sopravvivenza.
Di Elvira Federici
L’economia è da tempo studiata dai movimenti delle donne in tutto il mondo; è diffusa la consapevolezza della pervasività, della vischiosità del sistema simbolico e del discorso patriarcale costruito sulla separazione di produzione/riproduzione a calco del dualismo uomo/donna. Una consapevolezza che, a partire dalla cognizione di causa che nasce anche dalle lotte per i beni comuni, guarda al predominio della finanza, allo sfruttamento e alla messa a valore economico del bios, delle qualità personali, delle implicazioni degli affetti e delle emozioni. Lotte che hanno visto in prima linea le donne sud americane, le comunità native di tutto il mondo ma anche le/i giovani di Occupy Wall Street.
Prendere in esame il libro di Kate Raworth, peraltro non è a supporto di quanto scritto fin qui. E’ piuttosto qualcosa che possiamo porre accanto e vicino alle elaborazioni politiche femministe almeno per un elemento interessante e, appunto, contiguo: per un cambio radicale del modo di pensare l’economia come sta ancora trionfando nell’assetto sociale e politico del mondo.
Si tratta di rivedere paradigmi che non permettono di leggere i cambiamenti del XXI secolo.
Rawort propone questa revisione in sette passaggi, sintetizzandoli nel titolo bonario, accattivante e domestico di “economia della ciambella”. Ciò che è interessante anche per noi è proprio la necessità di modificare le immagini con cui ci rappresentiamo l’economia e nelle quali siamo intrappolate/i al punto che, condizionando la nostra visione ed epistemologia, continua a produrre danni, tanto che buona parte del libro si concentra su diagrammi assolutamente nuovi.
Ecco i sette passaggi significativi proposti da Raworth:
1.Cambiare l’obiettivo 2.Vedere l’immagine complessiva 3.Coltivare la natura umana 4. Acquisire la comprensione dei sistemi 5. Progettare per distribuire 6. Creare per rigenerare 7. Essere agnostici riguardo alla crescita. Questa impostazione comporta un cambio radicale dei paradigmi su cui si è edificata l’economia moderna e richiede di:
a) abbandonare il concetto di PIL, che ignora nella sua misura di prodotto interno lordo, tutto quello che è essenziale alla vita e ad una vita buona, a partire dalla sostenibilità ambientale;
b) rinunciare alla rappresentazione riduzionista lineare ed elaborare una visione della complessità e della ricorsività dei sistemi, tale che il dato di valore produttivo economico si costituisca a partire dalla qualità della retroazione sull’ambiente naturale, sulle forme di relazione tra viventi, sulle forme di partecipazione politica e di cittadinanza, sul significato dei beni comuni;
c) ribaltare la narrazione dell’homo oeconomicus, davvero obsoleta e radicata nella cultura del XIX e XX secolo, basata su competizione, egoismo, individualismo, identitario e statico ; questa impostazione non ci ha permesso di cogliere l’evidenza che pure basterebbe il linguaggio a dimostrare: l’essere la specie umana e non solo quella umana, fortemente sociale; l’essere il vivente, in quanto vivente, interconnesso, fluido, interrelato, interdipendente, relazionale;
d) passare ad un approccio sistemico, ricorsivo e multifattoriale rinunciando alle rappresentazioni del XIX secolo mutuate dalla meccanica classica, per valutare i processi economici dove le disuguaglianze, il degrado ambientale sono considerati come costi intollerabili oltre che insostenibili per la specie umana e per tutto il vivente; significa prendere in carico la complessità e moltiplicare le leve su cui agire, disarticolando il meccanismo – meccanicismo – dell’economia/mercato;
e) considerare la redistribuzione prima finalità del progetto; la questione della disuguaglianza resta al centro proprio come errore epistemologico, da cui scaturiscono le cattive conclusioni come quelle legate all’idea di una crescita per accumulazione e delle disumane politiche estrattivistiche, sulle terre, sulle acque, sui saperi, sui sentimenti e le relazioni umane, sul vivente intero. Perché ci sia equità occorre immaginare reti di flussi e una reale redistribuzione non del reddito ma della ricchezza stessa costituita oltre che dei beni naturali – comuni – dei saperi, delle tecnologie, delle conoscenze sociali;
f) pensare alla rigenerazione dell’ambiente che non è una funzione della “crescita”, secondo cui solo spingendo su questo acceleratore alla lunga avremo un ambiente pulito. L’economia circolare, non lineare, è la risposta alla processualità ciclica e ricorsiva della vita sulla Terra.
g) mettere una forte ipoteca critica sull’idea di crescita. La crescita è il fine e il paradigma dell’economia moderna e ha come obbiettivo il continuo accrescimento del PIL. Abbiamo verificato peraltro che la pur aumentata crescita del PIL dei paesi più poveri dall’inizio della globalizzazione non ha migliorato anzi ha peggiorato irreversibilmente la vita degli umani e della natura: inquinamento, aumento delle malattie, degrado e distruzione delle comunità, cancellazione dei saperi e persino, restando nella misura del reddito, l’inverosimile polarizzazione tra pochissimi ultraricchi e immense popolazioni impoverite. Del resto, niente in natura cresce indefinitamente e questo dovrebbe convincerci che crescere e prosperare non sono sinonimi: “ quello di cui abbiamo bisogno sono economie che ci facciano prosperare, che crescano o meno” .
Ed ecco il modello della ciambella, fin dal nome facile e cordiale ma capace di rappresentare la complessità delle questioni: la ciambella rappresenta con i suoi cerchi concentrici i diversi limiti che non possiamo superare per non stressare il pianeta e la stessa specie umana oltre la soglia della sopravvivenza. Il confine esterno rappresenta i limiti ambientali; la limitatezza delle risorse naturali, messe alla prova estrema dagli oggetti dell’Antropocene. Oltre questo limite esterno, c’è il degrado irreversibile cui peraltro stiamo già assistendo.
Il confine interno, che circoscrive il buco della ciambella è “livello sociale di base” oltre il quale si entra in una insostenibile deprivazione umana. Entro questi due confini che costituiscono la ciambella deve svolgersi l’azione dell’economia: “mettere in conto” come valore, la natura, la civiltà umana contro il paradigma monetario. La contabilità deve essere in primo luogo ecologica oltre che economica. La ricchezza che dobbiamo far prosperare è quella e del capitale naturale, costituito dalla ricchezza della natura e della vita sul nostro pianeta: la composizione dell’atmosfera, i sistemi idrici, la biodiversità, la fotosintesi, le culture umane mentre la linearizzazione dei processi circolari che hanno alimentato la vita sulla Terra è il prodotto dell’agire umano con la conseguente produzione di scarti e rifiuti, fra cui le stesse comunità umane.
Far saltare i confini disciplinari tra economia e scienze naturali, sostiene Raworth, significa ridefinire i termini dell’uso delle risorse e lo stesso concetto di valore: “l’economia ha purtroppo ragionato molto sulla natura del valore ma non sul valore della natura. Il capitale naturale non può essere di fatto “invisibile” all’economia, ma è centrale e fondamentale per la sopravvivenza dell’intera civiltà umana”.
Non ci sono, nella proposta di Raworth, né indicazioni né prescrizioni: il suo lavoro non dà conto di processi sociali portati avanti dai movimenti sociali e femministi; il suo è solo un modello con il quale rilevare un numero più alto di variabili e di interazioni. Una mappa che ha bisogno di tanti contributi, di politica, di pratiche dei movimenti, di tecnologia per avvicinarsi alla complessità ma che può orientare il viaggio.
PASSAPAROLA:








Elvira Federici

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