Non è mia abitudine scrivere dei libri a cui lavoro come editor e credo sia una buona creanza condivisa quella di rimanere nell’ombra rispetto ai libri di cui ci occupiamo. Nel mio caso però ho anche la fortuna di poter parlare in pubblico a volte dei romanzi a cui lavoro, così doveva essere per l’incontro che si sarebbe dovuto tenere venerdì 7 marzo alla Casa delle donne di Roma durante la fiera di Feminism. In quella occasione avrei dovuto parlare di “Tre vivi, tre morti” (Voland 2020) di Ruska Jorjoliani, un romanzo che ho seguito come editor e a cui mi sono molto appassionata.
La fiera è stata rinviata per i problemi sanitari nazionali che ci stanno colpendo tutti e tutte in questa difficile primavera, allora ho pensato di scrivere qualcosa in merito e condividerlo.
Non prendete quindi questa come una recensione, sia perché io non sono brava a scriverle, sia perché avendo lavorato al libro, la mia è sicuramente una posizione privilegiata e di parte rispetto al risultato finale.
Però qualcosa vorrei scriverlo perché credo che questo libro abbia rappresentato un tassello importante della mia crescita professionale, una sfida vivida con cui confrontarmi.
La prima volta che ho letto il romanzo di Ruska sono rimasta molto colpita intanto dalla sua capacità linguistica, dal modo in cui usa la lingua, dalle immagini che crea, dalla costruzione dei periodi. Una scrittura che non è mai troppo frammentaria, ma che invece è musicale, ha un suo ritmo interno e soprattutto crea metafore inattese e rimandi segreti intra ed extra testuali. Cosa voglio dire con questa ultima affermazione? Voglio dire che la sua scrittura gioca su più livelli durante la narrazione e quindi solo dopo almeno una seconda lettura si possono cogliere tutte le sfumature di questo romanzo, tutti i rimandi tra i vari capitoli, le scene incrociate e soprattutto i riferimenti extra testuali, come citazioni implicite, implicazioni storiche.
Quindi come prima cosa io avevo davanti a me una giovane donna che scriveva molto bene e in maniera complessa. Quando questo accade, io personalmente, mi entusiasmo da una parte e dell’altra inizio a diventare molto scrupolosa, perché è qualcosa di cui ho pagato le spese anche io: più il linguaggio è creativo, a volte, meno è controllato nel dettaglio, più le immagini sono ardite più è necessario vivisezionarle e capire se funzionano tutte. Nella maggior parte dei casi funzionano, ma c’è quella percentuale che invece va letta e riletta e smembrata e vanno proposti nell’editing dei cambiamenti per risolverla. Questo è stato un piano del lavoro: valorizzare la ricchezza della scrittura di Ruska cercando di non farsi trascinare dalla bellezza ma tenere ferma l’analisi in modo da renderle un servizio preciso.
Il libro inoltre ha una struttura anch’essa ardita perché è diviso in blocchi temporali che si muovono tra la Seconda guerra mondiale e la fine della stessa e in cui appaiono personaggi apparentemente scollegati tra loro, o quanto meno la cui continuità viene scoperta pienamente solo nel finale del libro.
Su questo punto la stessa autrice ha lavorato molto anche a prescindere da me, perché pure in questo caso ciò che andava preservato era l’originalità della struttura narrativa, coniugata all’originalità della scrittura, in modo che venisse recepita al meglio ma mai abbassata di tono.
Questa in effetti è stata la mia guida rispetto a tutto il lavoro: non abbassare il tono di quello che lei aveva scritto, preservarne tutta la forza e determinazione cercando esclusivamente di rendere più manifesti alcuni passaggi già impliciti nel testo.
Per fare un esempio più chiaro: io e l’autrice abbiamo condiviso le sue fonti storiche, questo è un passaggio che faccio sempre se lavoro su romanzi che si muovono nella storia, per capire quali sono stati i materiali di partenza; oltre a questi abbiamo anche condiviso una completa timeline degli eventi storici e dei personaggi e tutti i riferimenti a fatti realmente avvenuti che erano presenti nel testo.
Ci siamo quindi interrogate, insieme, sul modo migliore per dare alcune coordinate in più nel testo senza però incorrere nel problema “spiegone”.
È un tema che mi è molto caro, quello dell’implicito storico. Credo fermamente che anche Ruska volesse raggiungere quel livello di elaborazione storica per cui i fatti storici, come faremmo in una narrazione di fatti contemporanei, vengono dati per noti e impliciti, è qualcosa che faccio molto anche io quando scrivo, appartiene al modo più nuovo e più fertile (a mio avviso) che si sta manifestando in questo momento nella narrativa di riferimento storico. Vuol dire abbandonare il canone della scrittura piana e dei riferimenti storici ben identificabili, che appartiene alla tradizione del romanzo storico, per entrare nella sperimentazione linguistica e nella sussunzione del materiale storico.
Il problema è che chi legge spesso non ha questi riferimenti così chiari come li avrebbe se si parlasse del presente e quindi si rischia di fargli perdere dei legami intratestuali e delle coordinate di spazio e tempo mentre legge.
Anche qui, come fare? In questo caso abbiamo cercato di rimanere in equilibrio, inserire alcuni dati e riferimenti che già appartenevano ai materiali di Ruska e mischiarli nel testo evitando di eccedere, perché giustamente la sensazione dell’autrice altrimenti sarebbe stata quella di aver denudato completamente il corpo della sua narrazione, rendendolo troppo palese.
Mentre “Tre vivi, tre morti” è un libro di non detti, di segreti, di azioni improvvise, di dettagli perduti, di continui cambi di scena, di movimenti narrativi serrati. E tale doveva rimanere.
Tempo fa ero a una cena con degli amici e tra questi c’era il marito di una amica, che io conosco, ma con cui non sono in particolare confidenza, la conversazione a tavola è finita su un romanzo molto letto quest’anno e alcuni di noi che lavoriamo nell’editoria abbiamo espresso la nostra perplessità su delle parti del libro che a nostro dire andavano considerate meglio con l’editor che l’aveva seguito (secondo me nessuno ha fatto microediting a quel libro, ma comunque). A quel punto questo ragazzo si è risentito dicendo in poche parole che il lavoro dell’editor è superfluo e che i libri sono belli perché sbagliati e perché pieni di insicurezze, errori e naturalezza.
Sorvolando il fatto che non ho trovato garbato che a una cena mi si dicesse che il mio lavoro è inutile (cosa che purtroppo capita in varie occasioni, perché si dà per scontato che una donna giovane non sia all’altezza di lavorare sui testi altrui), il suo discorso va tenuto in conto.
È effettivamente un punto dolente e da non sottovalutare, quello dell’aspirazione alla pulizia assoluta del testo, della perfezione e della manipolazione testuale altrui.
C’è una parte di me che sempre si pone il limite entro cui agire e sempre cerca di trovare il modo per lavorare sul testo in linea col testo e non contro il testo, con l’idea di portare in superficie ciò che il testo contiene già e non stravolgere a mio gusto e aggiungere fatti, misfatti e personaggi che non appartengono a chi ha scritto.
Questa sottile linea tra la perfezione e l’imperfezione credo vada mantenuta e credo sia necessario essere vigili rispetto a quello che proponiamo agli autori e alle autrici, evitando l’eccesso.
Il microediting puntuale permette secondo me proprio questo, la segnalazione interstiziale nel testo di quello che si potrebbe (non si dovrebbe) modificare, aggiungere, orientare; per poi lasciare completa libertà all’autrice rispetto alla rielaborazione di queste segnalazioni.
Quando si incontrano persone che scrivono con grande cura, e questo è il caso di Ruska, la rielaborazione produce novità nel testo, interventi, modifiche, completamente autonomi e totalmente prodotti dall’autrice o autore e che si incastonano benissimo con il resto del romanzo. Questi interventi vanno a mio avviso sollecitati con grande fiducia e con supporto anche morale, e vanno rivisti e commentati ancora in uno scambio serrato ma molto umano.
Saper riscrivere e saper correggere il proprio testo è una grande dote: darsi il tempo per farlo, non affrettarsi, ragionare, trovare soluzioni valide, immergersi di nuovo nelle dinamiche del testo con l’obiettivo di rendere l’editing un alleato e sfruttarne le potenzialità, non in lotta con quello che è stato scritto ma in compagnia di, è importante, ai fini della riuscita credo sia essenziale.
Non sempre questo è possibile e a volte, come è giusto, certe modifiche non vengono apportate o non ci si capisce fino in fondo lavorando al testo, in questo caso invece lo scambio tra me e l’autrice ha dato anche a me modo di crescere, capire, riflettere.
Ho passato giorni a costruire gli schemi delle scene per vedere che tutto tornasse che ogni movimento non fosse fuori luogo, che ogni tempo verbale rispecchiasse il rapporto tra passato e trapassato, che ogni rimando avesse un suo luogo dove approdare, e mi è piaciuto farlo, mi ha fatta sentire partecipe di un bel libro, di qualcosa che vale. Ed è una soddisfazione che non voglio farmi portare via da chi crede che io faccia un lavoro superfluo o un lavoro volto a una ipotetica perfezione di plastica: non è così.
L’editing per me è rapporto con gli autori e le autrici, è condivisione di frustrazioni, inquietudini, gioie e soddisfazioni, è un pezzo di strada fatto insieme che a un certo punto si deve interrompere, è giusto che sia così, perché il libro a cui lavoro non è mai mio, ma solo di chi lo ha scritto.
Ruska Jorjoliani, Tre vivi, tre morti, Voland 2020
PASSAPAROLA:








Giulia Caminito

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