Wioletta Grzegorzewska (o Greg, come si presenta da sola, per rendere più facile la crudele pronuncia polacca), nata nel 1974, è poeta e scrittrice e attualmente vive in Inghilterra. Autrice di vari volumi di poesie, nel 2015 pubblica un romanzo breve Guguły (che nel gergo della Slesia vuol dire “frutta acerba”), tradotto in inglese con il titolo Swallowing Mercury nel 2017 da Eliza Marciniak e nominato al Man Booker International Prize. Il 4 marzo il romanzo esce in Italia, edito da Bompiani e tradotto da Barbara Delfino con il titolo Un frutto acerbo.
Un frutto acerbo è un insieme di ricordi d’infanzia e di adolescenza ambientati in un piccolo villaggio della Polonia meridionale negli anni Settanta e Ottanta. Tramite una serie di scene, viste con gli occhi di una bambina curiosa e birichina, l’autrice mostra una realtà ormai scomparsa, facendoci rivivere “la presenza durevole di quello che non c’è più”, come ha notato acutamente la critica Inara Verzemnieks nella sua recensione del libro apparsa sul “New York Times” (22/11/2017).
Nel paesino immaginario di Hektary le tradizioni pagane si mescolano con quelle cristiane: si crede nel potere delle erbe, gli oggetti si ritrovano grazie all’aiuto di Sant’Antonio, il colore rosso protegge contro il malocchio e i temporali sono causati da coloro che uccidono i ragni, protettori della Madonna. Ma è anche un luogo dove i ricordi dell’infanzia, un’età che si tende sempre a idealizzare, si scontrano con la realtà brutale dell’era sovietica, la sua povertà, il suo grigiore, la bruttezza, il pericolo di essere denunciati anche per uno scherzo, le frequenti interruzioni nella fornitura di elettricità, i prodotti alimentari di base, come lo zucchero, la farina, la carne e le sigarette razionati e acquistabili solo con le tessere.
La prosa di Wioletta Greg, emotiva ed evocativa, riesce a farci percepire l’odoraccio delle stanze ammuffite con i covili di paglia marcia e il profumo delle mattine di maggio che sapevano di gelsomino e caramello; ci fa assistere ai procedimenti della tassidermia delle pelli degli animali e degli uccelli impagliati (il mestiere non ufficiale del padre della protagonista) e ci mostra la geometria del paesaggio dalla prospettiva di un gatto (“Nero mi faceva vedere un’altra geometria del mondo i cui confini non erano segnati da stradine sterrate coperte di cardo e farinello, strade di pietra, recinti, sentieri falciati o calpestati dagli uomini, ma da luce, rumori, elementi. Imparai a seguire Nero su mattoni forati, pagliai, arrampicandomi su meli e ciliegi, aggirando le miniere clandestine di pietra calcarea nascoste nelle more di rovo, i nidi di calabroni, i pantani e le trappole a scatto nel grano”); ci fa sentire il calore delle piccole faine appena nate e il gelo di un corpo svenuto nella neve.
La narratrice, la piccola Wiola, è un’osservatrice perspicace e spietata, per niente credulona e incosciente, che nota le vulnerabilità e i vizi degli abitanti di Hektary, descrive le tragedie con tenerezza ma distacco, si rende conto delle minacce del sistema politico, della rudezza e dei limiti della sua vita nel villaggio. È precisa, percepisce i minimi dettagli: “mi sedetti al tavolo apparecchiato con i piatti di pasta, appoggiai la testa e sentii il legno che pulsava. I tarli nelle fessure e nei nodi celebravano battesimi, veglie funebri, onomastici, giocavano a due fuochi con i semi di papavero caduti dalle croste del pane appena sfornato”. Il ritratto dell’infanzia e dell’adolescenza è lontano dalla classica mitologizzazione della memoria e dei luoghi. È un quadro sincero, spogliato della nostalgia sdolcinata, nel quale la voglia di fuggire alla scoperta di qualcosa di nuovo, di lontano e di diverso, è molto visibile.
Il libro riesce a sottrarsi all’assegnazione di qualsiasi etichetta di genere: non è un Bildungsroman, non è un’autobiografia, non è una raccolta di novelle. Rappresenta un nuovo modo – curioso senza essere ficcanaso, sensibile eppure schietto, evocativo ma non sentimentale – di descrivere l’infanzia e l’adolescenza in questo mondo così strano in cui “come va in fretta il tempo, un batter d’occhio e [ti] chiamano già vecchio, ma io dentro sono come quella frutta ancora acerba”.
Wioletta Greg, “Un frutto acerbo”, Traduzione di Barbara Delfino, Bompiani 2020
N.B. Le traduzioni menzionate sono opera dell’autrice del presente articolo.
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Zuzanna Krasnopolska

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