Essere ipocondriaci non è un gioco e non fa ridere

Giulia Caminito, 27 febbraio 2020

Essere ipocondriaci non è un gioco e non fa ridere. Per chi vive ogni giorno animato dall’ansia delle malattie, dei contagi, della morte imminente a volte anche piccole azioni qualsiasi, anche alzarsi dal letto o dormire la notte diventano problemi, conflitti con se stessi. Io non sono nata ipocondriaca, anche se tornando indietro nel tempo ricordo alcuni attacchi di panico e alcune paranoie disseminate in infanzia e adolescenza, ma mai le ho sentite addosso come continuative, come se mi abitassero a tempo indeterminato. Sono diventata ipocondriaca cronica dopo un evento traumatico: la morte della mia migliore amica per colpa di un cancro al colon.

Malattia che ha ucciso anche mio nonno venti anni fa, malattia di cui Giuseppe Berto aveva il terrore perché possibile eredità del padre e malattia di cui lo stesso Berto alla fine morì.

L’evento traumatico nel mio caso ha provocato due risposte psichiche: da una parte la sensazione opprimente che ogni male dovesse capitare a me e ai miei cari, dall’altra la somatizzazione di quelle paure e ossessioni.

Da cinque anni per periodi anche molto lunghi (da sei mesi a un anno) io ho alimentato in me stessa patologie non organiche, ma solo riversamenti sulla mia pelle delle mie nevrosi. Posso portare a esempio i centinai di esami e controlli che ho fatto negli anni sottoponendomi a prelievi del sangue continui, gastroscopie, colonscopie, risonanze alla testa, al ventre, ecografie pelviche, vaginali, addominali, pettorali, visite dal cardiologo, dal neurologo, dalla nutrizionista, dalla ginecologa, da almeno cinque gastroentorologi. Da queste sono emersi problemi, ipotesi, possibili cure, ma mai risposte definitive perché il fatto che potessi aver creato da me stessa il mio disagio inficiava sempre una diagnosi plausibile. In questi cinque anni ho avuto mal di testa che sono durati anche quattro mesi, dolori addominali così terribili da non permettermi di stare in piedi, capogiri e perdite di coordinate, cali di pressioni, svenimenti, affaticamento cronico che non mi ha fatta uscire di casa per mesi e mesi. Il tutto mentre scrivevo e cercavo di seguire i miei libri e stare dietro a questo a volte bellissimo ma anche difficile mondo della autopromozione editoriale.

Ci sono stati momenti in cui ho pensato che il dolore fosse il mio unico modo di esistere, che l’ansia assoluta e continuativa potesse essere la mia sola maniera di vivere, che non avessi altro luogo che il mio letto e la mia fatica.

Pochissime sono le persone che sanno stare con me alla lunga, tante sono quelle che questa malattia la deridono, tante quelle che vogliono consigliarti cosa farne, tante quelle che si sono annoiate perché uscivo poco e non andavo dove loro mi avevano invitata, tanti i librai e le libraie che si sono offesi, tanti i consigli non richiesti ed elargiti anche in pubblico, come a dire questa cosa è stupida e quindi più te lo facciamo notare prima sparirà. Non ha mai funzionato con me, sentirmi presa in giro per le mie fobie o sminuita non ha mai fatto presa sui miei sentimenti e le mie angosce, le uniche cose che nel tempo hanno aiutato la mia vita, facendola tornare alla quasi normalità per alcuni tratti dell’anno, sono state l’affetto, la praticità, la pazienza. Tanta ne è servita ai miei genitori, tanta al mio compagno, tanta alle amiche che sono venute a trovarmi quando da mesi ero chiusa in casa e mi hanno scoperta col sangue che mi scendeva dal naso per lo stress o la nausea che mi aveva tolto dalla bocca la voglia e la capacità di mangiare.

Quando il mio livello di guardia e la mia preoccupazione salgono, non c’è nulla di nobile che possa salvarmi, non i libri, non la scrittura, non i film di qualità, non il teatro o i musei: ogni giorno quando i pensieri sono pessimi ritagliarsi lo spazio per la crescita e l’elaborazione è difficilissimo, quasi impossibile. La testa in quei periodi ricerca svago demenziale, insaziabile voglia di provare sensazioni rilassanti, attutenti, insignificanti.

Le prime due cose che in tempo di ipocondria per me si fermano sono il cibo e la scrittura, come se il nutrimento per testa e corpo fosse prigioniero della psicosi e non riuscisse a liberarsene. In un momento come questo, in una emergenza sanitaria nazionale e internazionale, le persone come me vivono nel terrore viscerale, non sono allarmate e non corrono per strada a cercare rimedi, non indossano mascherine e non convincono gli altri a chiudersi in un bunker, ma non possono passare le proprie giornate se non dedicando il tempo all’inquietudine personale e sociale.

Una volta la mia psicologa mi disse che io ho la tendenza a sentire quello che sentono gli altri come se capitasse a me, io introietto e asciugo gli umori altrui come spugna. Questa mia ipotetica capacità torna ovviamente utile nel momento in cui devo raccontare una storia e inventare un personaggio, ed è per questo che spesso lo faccio a partire dai fatti storici e dalle biografie perché assorbo quei materiali, li ingoio subito. Questo stesso superpotere però è quello che mi fa vivere ciò che accade agli altri come se stesse per accadermi e fosse solo questione di attimi.

Pescando nel mio passato ricordo un esempio in particolare, un fatto di cronaca (perché sempre io ho avuto questo rapporto bulimico coi fatti di cronaca, ricercati allo spasmo e poi sofferti) che riguardava due bambini scomparsi, due fratellini i quali vennero ritrovati morti dopo vari giorni perché caduti in un pozzo dentro a un cantiere. L’ipotesi fu a quanto ricordo che uno dei due fosse caduto per prendere un pallone e l’altro avesse tentato di calarsi per raggiungerlo e soccorrerlo. Purtroppo il secondo era caduto anche lui da una certo punto del pozzo ed erano rimasti così intrappolati tutti e due. Uno, il primo caduto, era morto presto perché con una ferita più grave e l’altro invece in seguito. E proprio quelle ore lì, le ore tra la morte del fratello e la propria, io le ho vissute in tutti questi anni come l’indicibile, come il tremore assoluto, lo spavento più grande. È un fatto che non potrò dimenticare, buttar fuori in alcun modo, mi appartiene da troppo tempo il lasso tra la morte del primo fratello e quella del secondo.

Mai nella mia vita avrei pensato di dover vedere quello che sto vedendo in questi giorni e mai avrei pensato che la mia paura privata potesse diventare una paura sociale, una paura condivisa e tangibile, epidemica, la quale dentro di me non fa altro che crescere e moltiplicarsi in un gioco di specchi di cui non so come disfarmi.

Leggo in questi giorni delle considerazioni razionali altrui e le invidio, le vorrei fare mie, le vorrei ripetere e insegnare, ma il mio superpotere funziona solo sul negativo, sul pericolo, sul contagio, sul morbo, sull’ospedale, sulla morte. E quindi mi domando a cosa servo, a cosa serviamo noi irrazionali, noi ipocondriaci, noi ridicoli, noi psicotici in una situazione del genere? Che aiuto possiamo dare al buon senso, al buon comportarsi? Nel mio caso mi sento di rispondere nessuno, perché più sale l’angoscia collettiva più la mia capacità di reazione si va assottigliando, più scuole chiudono, più teatri, più numeri, più proclami, più derisioni, più decessi, più timore indistinto, più incapacità di sottrazione accumulo.

Sempre in quello che ho provato a scrivere sono apparsi personaggi debolissimi, fili di paglia scagliati di qua e di là dal vento della Storia e della vita che mi rappresentavano a pieno, e sempre ci sono e ci saranno al loro fianco gli indomabili, i feroci, i fattivi, i corporei, i ragionevoli che io mai potrò aspirare a raggiungere. Loro sono i personaggi di cui sono innamorata e che provo a rievocare dentro di me quando servono, loro scrivo e riscrivo con ossessiva premura perché si alzino dalla carta e vengano a salvarmi.

Non sempre funziona, e loro arrivano di solito in mio soccorso una volta che il peggio è passato, quando esco dall’incubo in modo forzoso e fortuito, quando torno a guardare le cose per quello che sono e non vedo malattia in ogni angolo, su ogni superficie, in ogni racconto che di me faccio al mondo.

È sgradevole essere ridicoli per se stessi e per gli altri, è atroce non essere mai quelli che in momenti di crisi personali e collettive sanno esserci, reagire, guidare, ironizzare eppure eccomi qui, esisto anche io, e appartengo alla schiera dei pavidi e mi nascondo nell’ombra che le cose lasciano dietro di sé.

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Giulia Caminito

GIULIA CAMINITO è nata a Roma nel 1988 e si è laureata in Filosofia politica. Ha esordito con il romanzo "La Grande A" (Giunti 2016) che ha vinto il Premio Bagutta opera prima, il Premio Giuseppe Berto e il Premio Brancati giovani. Ha poi pubblicato con Bompiani “Un giorno verrà” nel 2019 e “L’acqua del lago non è mai dolce” (2021) con cui è arrivata finalista al Premio Strega e ha vinto il Premio Campiello 2021. Ha scritto inoltre due libri per bambini "La ballerina e il marinaio" (Orecchio Acerbo 2018) e "Mitiche" (La nuova frontiera junior, 2020). Nella vita lavora come editor e si occupa di narrativa italiana. È nella redazione di Letterate Magazine. Cura un festival letterario che si tiene a Roma nelle scuole, Under - festival di nuove scritture. Ha portato i suoi laboratori di scrittura in librerie, biblioteche, scuole e carceri.
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