LEI E ME
Di Germana Urbani
Quando si è guardata allo specchio per la prima volta io ero già dentro. Sigillata.
Lei, muta, tastava con il dito indice i minuscoli trattini neri che, come le traverse di un binario, ancoravano in una accurata sutura due opposti lembi di pelle che spiccavano violacei su un prato di cute ingiallita da chissà quale disinfettante.
Poi, con il polpastrello sempre più avido, iniziò a percorrere quella lunga ferrovia scomposta che le tagliava in due la parte sinistra del volto: partiva dal foro occipitale e andava giù a precipizio sino al foro giugulare, una pausa in fondo, come uno sguardo incerto da un promontorio, e poi risaliva veloce verso la fronte senza saltare nemmeno un giunto.
Sapevamo tutto dell’operazione durata sette ore. Punti interni e micropunti esterni, duecentosettanta. Un occhio coperto da un cono bianco, ché non si sapeva se la pupilla sarebbe tornata al suo posto. Era stato toccato il nervo ottico e l’iride aveva deciso di andarsi a nascondere nell’angolo laterale destro.
Meglio guercia che morta, avevano concluso visitandola la prima volta al pronto soccorso del San Severino.
Era lì, stesa in barella, con il viso a brandelli. Aveva cinque anni ma non piangeva. Nel palmo della mano sinistra reggeva, come fosse un pugno di ciliegie, quel che rimaneva della sua guancia: una specie di petto di pollo legato al collo da un sottile lacerto. Diceva di non sentire dolore.
Interrogavano suo padre. Si doveva fare una denuncia, com’era il cane? Legato? Rinchiuso?
Un paio di infermiere le liberarono la mano. Poi, oltre una porta chiusa, si sentì qualcuno arrivare correndo ed entrò un giovane medico.
«Ciao» si sforzò di dire sorridendo.
«Ciao» rispose lei, mentre lui, presa dall’alto una grossa lampada, era già sopra la sua faccia.
Oltre la porta dove stava suo padre, la voce mossa di un vecchio bisbigliava qualcosa sui cani. Nell’ambulatorio dove la stavano medicando entravano stralci di frase ma i suoni si fecero via via più fermi. «È un miracolo che sia viva – disse – le bestie con il caldo vanno fuori di testa. A maggio abbiamo sepolto una bimba sbranata dal suo cane, un lupo. Era il giorno della sua Prima comunione. Forse vestita di bianco non l’ha riconosciuta, l’ha presa alla gola».
Sono entrata così nella sua vita io: la chiacchiera di un vecchio sospinta da un sibilo nel suo condotto uditivo, rimbalzata nel timpano, sgusciata attraverso la coclea verso il primo neurone disponibile a fissarmi sulla corteccia celebrale.
Abbiamo in comune, io e lei, il come è finito quel periodo della vita in cui, sull’altalena del tuo giardino, sei la più bella delle trapeziste e sotto di te c’è un mondo che ti venera solo perché esisti.
Oggi suo figlio compie cinque anni. Da che si è alzato, allegro come una cincia tra le bacche, lo segue con lo sguardo di chi sta cercando risposte nel luogo sbagliato.
Lo osserva minuziosamente. Non appena riesce a catturarlo immerge la mano tra i suoi capelli con l’unico obiettivo di condurre il suo polpastrello lungo la guancia sinistra del bimbo, una prugna soda. E mentre accarezza la superficie morbida, percepisce ancora quei denti di cerniera che tenevano insieme la sua di guancia, che allora pareva così vasta e larga e fonda e blu.
Io spingo, dentro di lei, voglio che mi senta, le comprimo il diaframma, l’aria filtra appena, quel tanto che basta a tenerla in piedi davanti a suo figlio. Ma oramai mi conosce, sa che si deve togliere di lì, chiudersi in bagno. Respira, si ordina; respira ripete. E più lo dice più io tiro la corda, chiudo i boccaporti, sigillo le uscite. Il cuore è una bomba, rimbalza nella cassa toracica come volesse sfondarla. Sono viva, più viva che mai, mentre lei crede ancora e ancora di morire.
Vorrebbe. L’ha desiderato troppe volte in questi quarant’anni in cui io, morta, sono vissuta dentro di lei, viva.
L’esistenza è un susseguirsi di andirivieni comuni: prima della scuola, dopo la laurea. Prima dell’amore, dopo un addio. Prima di sposarsi, dopo un figlio. Prima di seppellire tua madre, dopo aver sepolto tuo padre. Pochi eventi spettano solo a te: prima di incontrare il lupo noi eravamo bambine, dopo non più, o almeno, non del tutto.
Lei lo incontrò su, oltre la collina di Entogge. Lì, in aperta campagna, abitava Martina, una bambina che frequentava l’asilo con lei, giù a Urbisaglia.
Una strada bianca tagliava il versante sinistro della Gobba dei briganti e divideva il vigneto di suo padre dal cortile dell’amica.
Era stato un agosto caldissimo e l’uva era già matura. Il tempo della raccolta arrivò precipitoso subito dopo un fortunale nero mai visto prima da quelle parti. Pioggia e vento avevano battuto la vigna così forte che ne era uscita nuda e in ginocchio. In men che non si dica il sole tornò, infieriva sui grappoli danneggiati ed esposti, che rischiavano di marcire velocemente mandando in malora tutta la produzione di quell’anno.
Il padre riunì i parenti e i vicini disponibili. Il nonno andò alla cantina sociale per dire che avrebbero cominciato la vendemmia anzitempo, volessero l’uva oppure no! E siccome ci sarebbe stato da battagliare non poteva portare la bambina con sé come faceva sempre.
Lei, morsa da chissà quale presagio, sbraitava che non voleva andare al campo. La picchiarono. Poi la madre, sfinita, le promise che se fosse andata con loro l’avrebbe portata a giocare da Martina fino al tramonto. Non era mai stata a casa di un’amica, né qualcuna era mai andata da lei.
Era figlia unica, cresceva tra adulti che pensavano ai fatti propri, che lavoravano molto, raccontavano poco, giocavano niente.
Così quel giorno in cui aveva ancora cinque anni e avrebbe potuto godersi finalmente un pomeriggio tra bambine, il grande cane lupo di Martina dal fondo del cortile si era messo a correre, come galoppando verso di loro, che camminavano appaiate ridendo. Si era alzato sopra di lei fino a oscurare il sole. L’aveva stesa a terra, presa alla gola, strappata, trascinata, ringhiato forte.
Lei, sotto di lui, molto più corta di lui. La bocca lunga del cane si apriva a forbice sul suo viso: era rossa e bianca e fonda. Peli, peli dappertutto. Con le sue piccole mani cercava di allontanarlo, lo pugnava, con le gambe lo calciava. Martina si era precipitata in casa a chiamare sua madre.
E così, lottando, ha avuto salva la vita. Ma quando a settembre uscì dall’ospedale conosceva la morte e io non l’ho lasciata più.
Le apparivo in sogno, le raccontavo particolari della mia storia.
In poche settimane conosceva i dettagli dell’abito con cui mi avevano trovata, del cortile dov’era successo; riusciva a sentire le risate dei parenti in casa per la festa, urlava nel sonno spaventata da quelle mie ultime grida.
Il nome è l’unica cosa che non sa di me. Mi ha dato un volto tondo incorniciato da trecce scure che si allungano sull’abito bianco, largo, un fiocco dietro e la coroncina di fiori in testa.
Sa anche dove abito da quanto, non molti anni fa, sulla provinciale 87 che percorre di tanto in tanto per andare al lavoro, ha notato una casa chiusa da anni. La rete di metallo verde che le fa da recinzione è arrugginita e in qualche punto spanciata dal vento. Il cancello grande d’entrata è sprangato ma si affaccia su un’aia di cemento che d’estate è quasi luminescente. Di fianco alla casa, da un lato, affogato tra le erbacce, rimane il simulacro di un vecchio orto con qualche vaso in terracotta riverso a terra e un piccolo pozzo. Dall’altra parte, invece, c’è un grande portico che custodisce le ombre e il fresco.
L’ha scelta per il giardino. E’ proprio come quello in cui abbiamo trascorso il tempo insieme. E’ andata avanti per anni. Lei che, in certi giorni fondi, si sentiva perduta, io, sempre lì, che le indicavo un’entrata tra le siepi, in una buca, sopra una catasta di legna.
Al centro del mio orto cresceva un grande fico, e spesso giocavamo sotto quell’ombra con delle pentoline, tagliando verdure.
A volte, invece, la prendevo per mano e la portavo sopra la grande aia di cemento armato grigio. Corriamo, dicevo, corriamo!
Correvamo urlando, riempendo i cieli di suoni. D’improvviso la voce di sua madre che gridava il suo nome ci ingabbiava. Le prendeva in braccio il corpo inerme, la stringeva, le asciugava la fronte, le accarezzava gli arti irrigiditi.
Diceva sono io, sono qui, apri gli occhi. Ma lei riemergeva a fatica, stava meglio con me.
E’ andata avanti così finché un giorno mi vide mentre dal cortile spiavo dentro casa sua. C’era la mamma in cucina. Rompeva uova nella farina, impastava biscotti. Lei si accorse che piangevo desiderando per me l’abbraccio di sua madre.
Per la prima volta, come punta da una vespa, rossa di rabbia mi urlò: «Morta, tu sei morta!».
Sono morta in un giorno largo di primavera. La domenica era di quelle che non si dimenticano. Ricevere il corpo di Cristo era stato emozionante e dopo poco ci sarebbero stati tutti i regali da scartare. Con la tunica immacolata ancora addosso, ché la messa era appena finita, ero uscita in giardino a salutare il mio amico, Rintintin. Ma lui, nel sole, vide qualcun’altra e io conobbi la bestia.
Lo amavo come il cucciolo che avevo allattato con la tettarella, quello che aveva dormito con me sul divano. Lo chiamavo, lo imploravo: «Sono io Rinti. Rinti no, sono io». Non mi difesi, certa che mi avrebbe riconosciuta.
Da dentro casa sentivo fin lì le risa di mio zio e degli altri attorno all’aperitivo. La mamma, più bella e curata del solito, era già indaffarata ai fornelli per la mia festa. Il papà stappava lo spumante, riempiva i calici. E poi finalmente mio cugino uscì a fumare, a prendere il regalo lasciato in auto. Il sole allo zenit, bollente, riverberava sul cemento inguardabile. Le auto, parcheggiate un po’ dentro e un po’ fuori dal cancello, lungo un piccolo canale.
Girato lo sguardo Andrea notò un fagotto sull’aia, poco lontano dalla rete verde che gira tutt’intorno alla casa. Si avvicinò senza capire e poi mi vide. Ma io non ero più lì.
Il lupo, anche. Lui era in qualche punto sotto il portico, al fresco, che si leccava via il sangue dal pelo.
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥Germana Urbani
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