Difficile il cammino verso il primo posto, malgrado l’attenzione alla violenza maschile nel popolare festival italiano. A Los Angeles vince per la prima volta un sud coreano, ma scompaiono le donne, soprattutto afroamericane
Sarah Perruccio
Prima della serata conclusiva del festival di Sanremo Non una di meno ha organizzato un flash mob davanti all’Ariston dichiarando, sulla propria pagina FB, che il festival ha aperto delle crepe nella struttura sessista della società: “Noi siamo qui per mostrare la natura di questo movimento che è motore di cambiamento: è la lotta, che determina la presa di coscienza, che rende possibili al Festival le parole di Rula Jebreal come l’esibizione gender-fluid di Achille Lauro*”.
Rula Jebreal la sera del debutto ha risposto a Amadeus dal palco: “cerchiamo di fare un passo in avanti”, dopo la gaffe del conduttore che prima del festival aveva lodato una delle invitate dicendo che è capace di stare “un passo indietro” al suo celebre uomo.
Certo non stupisce che una kermesse che pretende di rappresentare l’italianità ne ritragga anche il radicato sessismo (siamo pur sempre il paese dove Matteo Salvini gode della fiducia di più del 30 per cento della popolazione stando ai sondaggi di febbraio). Su ventiquattro brani in gara solo otto sono cantati da donne- e anche questo non è un buon segno. La presenza in gara tra i big di Junior Cally, autore di un brano che riferisce violenze e insulti sessisti, completa il quadro. Le reazioni al sessismo del festival sono state molte, dalle petizioni indirizzate alla Rai alle lettere di giornaliste, donne di spettacolo e cittadini. Nelle maglie di un programma ancora sessista, di una televisione che continua a dimostrarsi tale, si è riusciti a tessere qualche narrazione antitetica. Rula Jebreal con il suo monologo ha infatti usato uno spazio di visibilità, comunque enorme, per offrire coraggiosamente la sua storia personale, riuscendo a creare una narrazione potente. Achille Lauro ha presentato una figura fuori dai canoni del maschile tradizionale, con riferimenti a icone di libertà e autodeterminazione.
Mentre qui da noi si spengono le luci di Sanremo, negli Stati Uniti la notte degli Oscar ha premiato per la prima volta nella storia come miglior film un’opera non in inglese, la sud coreana Parasite del regista Bong Joon Ho. Il più famoso riconoscimento mondiale dell’industria cinematografica ha provato negli ultimi anni ad essere più inclusivo e, complice il #metoo e assenze eccellenti (come Will Smith che nel 2016 diede forfait per protestare contro la sotto rappresentazione di artisti non bianchi) ha proposto una shortlist di nomination più variegata che mai. Nel 2017 la storia di un ragazzino afroamericano che trova in uno spacciatore il suo mentore, Moonlight, vince miglior film, miglior attore protagonista (Mahershala Ali) e sceneggiatura non originale. E la magnifica Viola Davis ottiene il riconoscimento nella categoria best supporting actress, con Fences. Un cambiamento sembra essere in atto.
L’anno successivo, 2018, Mudbound, diretto dalla regista Dee Rees, ottiene quattro nominations, tra cui quella per miglior fotografia, che fa di Rachel Morrison la prima donna nominata nella categoria. Greta Gerwig è nominata come miglior regista col suo Ladybird, ma non vince. Dal palco un gran parlare di diversity, inclusion, freedom. Nel 2019, Greenbook vince miglior film; nominations e premi vanno anche a film BlacKkKlansman di Spike Lee e Black Panther che danno la statuetta per i costumi e il disegno di produzione, per la prima volta, a due donne afroamericane, Ruth Carter e Hannah Beachler.
E l’edizione 2020? Perché molte femministe, in particolare afroamericane, hanno scelto di boicottare la cerimonia degli Academy Awards quest’anno? Intanto perché, seppur siamo alla 91esima edizione, l’Academy ha ritenuto finora di riconoscere il premio per la miglior regia ad una sola donna, Kathryn Bigelow, con The Hurt Locker nel 2010.
Nel 2020, nonostante la presenza di film diretti da donne in altre categorie, come miglior film e miglior attrice, nessuna nomination è stata riservata alle registe di questi film, né alla cinese-americana Lili Wang, né a Greta Gerwig, il cui acclamato Piccole Donne concorreva in ben sei categorie. L’associazione Women in Media, che lavora verso la parità nei media dalla sua sede di Los Angeles, ha lanciato il tweet #AltOscarParty invitando i e le followers a boicottare la cerimonia e a vedere al suo posto film diretti da donne, postandoli con l’hashtag dedicato.
Questa serata in sostanza bianca e che ha visto in concorso molti film con cast prevalentemente maschili (vedi the Irishman di Scorsese o 1917 di Sam Mendes) si è conclusa con premi assegnati alle grandissime prove attoriali di Joaquin Phoenix (per Joker) e Renee Zellweger (per Judy) e, appunto, la sorpresa del sud coreano Parasite che vince nella categoria Miglior Film pur non essendo un lavoro in lingua inglese. Insomma, i tre anni di candidature che hanno reso la pletora di nomi più diversificata rispetto alla tradizione degli Oscar non sono bastati. Non indicavano certo un cambiamento di prospettiva né un reale spostamento di potere. Come niente si è tornati alle cattive abitudini e anzi, come un vero e proprio contraccolpo, si è andata a creare una delle edizioni meno inclusiva e meno politicizzata degli ultimi anni.
Per ora mi tengo caro, qui da noi, il discorso di Rula Jebreal e le performance di Achille Lauro, di fronte a un pubblico magari un po’ confuso, una dirigenza più che refrattaria, e in un contesto che ancora si mantiene (un po’ disperatamente) patriarcale. Meglio forse accogliere queste “crepe nella struttura sessista della società” che una mano di buone intenzioni dipinta sulla facciata scintillante dell’establishment, pronta a colar via alle prime gocce di pioggia.
*Su questo vedi anche su Letterate Magazine l’articolo di Viola Lo Moro del 7 febbraio Lauro e Annalisa una lettura impossibile
PASSAPAROLA:









Sarah Perruccio

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