Sanremo 2020 Lauro e Annalisa: una lettura impossibile

Viola Lo Moro, 38 febbraio 2020

Inizia con un lamento. Un animale maschio ferito quasi a morte.

>>Eh Eh Eh Eha

 Poi, piano, un tentativo. Una voce di un (t)rapper/punk romano che non modifica il testo originale al maschile. Una voce impura ma non stonata, strascinata ma non sguaiata. Una voce che arranca.

>>> Sono stato anche io bambina/ di mio padre innamorata/ per lui sbaglio sempre e solo/ la sua figlia sgangherata.

Non c’è parodia, non c’è imitazione. Chi parodizza o imita Martini ha già perso in partenza. Questo festival di Sanremo ce lo ricorda. Allora cosa sta accadendo sul palco? Che oggetto hanno costruito Achille Lauro e Annalisa?

>>> E ho provato a conquistarlo ma non ci sono mai riuscita/ e ho lottato per cambiarlo / ci vorrebbe un’altra vita.

Continuo a riguardare questo video, colta ogni volta da un’emozione molto forte. Questa canzone che non ho mai sentito come vicina alla mia esperienza, piano piano comincia a parlare di me. Sono io quella bambina sgangherata, e sono io quella bambina paziente. Forse sono anche io quella bambina/bambino. Lauro continua, con più afflato.

>>> La pazienza delle donne incomincia a quell’età/quando nascono in famiglia quelle mezze ostilità/ e ti perdi dentro a un cinema a sognare di andar via/ con il primo che ti capita…

Lauro guarda Annalisa sull’ultimo verso, e insieme cantano

>>> che ti dice una bugia.

Poi la voce stentata di lui diventa sussurrata, lontana, proprio qui che insieme – così prescrive il galateo dei duetti – dovrebbero cantare il primo ritornello. Ma insieme non si può stare perché l’oggetto della performance diventa l’oggetto della canzone:

>>> gli uomini non cambiano.

 Non si può cantare all’unisono questo verso, anche se il giovane maschio truccato da Ziggy Bowie – lui che può cantare “me ne frego” a Sanremo in tutina trasparente rivelando tutta la mediocrità in chi guarda le dimensioni dei genitali invece di osservare lo straordinario stravolgimento semantico – ha sofferto nella sua maschilità volubile e non si può cantare all’unisono anche se la sua fluidità lo pone già come vulnerabile. Lauro può cantare solo le premesse, ma il cuore della canzone è di lei.

E lei emerge, a me sembra come una cosa antica dalle acque. La voce di Annalisa. Penso ad un cetaceo, al rumore che può fare risalendo in superficie, quello di una paziente ma inesorabile ascesa, che non ha bisogno di autocompiacersi nell’essere esattamente quello che è: una fame d’aria, un lungo grido di richiamo e di disperazione.

>>> gli uomini ti cambiano/ e tu piangi mille notti di perché/ e invece gli uomini ti uccidono e con gli amici vanno a ridere di te.

Lauro fa l’unica cosa che fino ad ora tutti gli uomini presenti alla kermesse – e mi sento di dire in qualunque kermesse pubblica, anche quelle molto più vicine a noi – non hanno mai fatto: abbassa gli occhi. Rimane qualche passo indietro e un po’ gobbo (proprio lui che la sera prima si era innalzato levandosi un drappo e rimanendo orgoglioso e fragile in tutina trasparente) e, nel momento in cui la cantante esplode la prima volta con quel “ti uccidono”, abbassa gli occhi.

Gli uomini non cambiano, ci uccidono, ne ridono tra loro. In un festival sovrasaturo di parole sulla violenza contro le donne, schizofrenico peggio di sempre con i suoi Muccino, i suoi Ronaldo, le sue bandiere italiane, le sue filippiche bibliche, le sue esplosioni di giochetti tra maschi, Lauro e Annalisa hanno costruito un dispositivo che propone l’unica – io credo – possibilità concreta di cambiamento nelle abitudini violente contro le donne dei maschi: una presa di coscienza talmente tanto reale che non può far altro che azzittire e far abbassare gli occhi agli uomini, anche quelli che incarnano una maschilità diversa. Perché qui sta la genialità di Lauro: il suo rappresentarsi come fluido tra i generi, il suo vestirsi “da signorina”, il suo truccarsi, il suo adottare il femminile nella prima parte della canzone includendo tutti i bambini che si sono sentiti femmine, non lo solleva neanche un minuto dall’abbassare gli occhi quando lei canta: gli uomini ti uccidono e ti deridono. Tutto il resto “sono solo parole”, rimanendo in tema canoro.

Riprende poi la voce Achille Lauro, e quell’animale maschio ferito dell’inizio emerge con più rabbia.

>> ma ho scoperto con il tempo / e diventando un po’ più dura / che se l’uomo in gruppo è più cattivo / quando è solo ha più paura.

Quella donna che si deve indurire per stare al mondo può essere, ed è, anche un uomo che si deve indurire per stare al mondo. Come a ribadire cantando: il patriarcato costringe il femminile ad indurirsi (quando non lo ammazza) e quel femminile c’è anche dentro gli uomini. Achille Lauro è anche quel femminile.

C’è poco tempo però per riflettere perché è già arrivato il ritornello, che i due cantano insieme, in piedi, distanti e guardando ognuno/a in direzioni diverse (salta nuovamente il galateo dei duetti che a questo punto vorrebbe i due uniti, possibilmente in contatto):

>> gli uomini non cambiano / fanno i soldi per comprarti e poi ti vendono la notte.

 Da qui in poi Lauro non canta più, accenna ad un certo punto, ma rinuncia. Potremmo liquidare la questione con un errore, d’altronde non è un grande talento canoro, e mentre Annalisa non ne sbaglia una, lui sì, ma a me piace intendere le performance così costruite come un lavoro serio, e così le leggo. Lauro rinuncia non perché non riesce a cantare, si blocca perché in quella rinuncia c’è tutta la forza e tutto il dramma che possono (e io credo devono) affrontare oggi gli uomini consapevoli. É qualcosa che ha a che fare con il rompere una consuetudine millenaria: potresti cantare, potresti esserci, potresti essere potente, ma ti fermi sulla soglia, perché quella soglia, in quel momento, è varcata da una donna che sta urlando un dolore eccezionale: vivere con quel corpo, quel sesso, quel genere, quella impossibilità di essere compresa.

La canzone di Mia Martini diventa un dispositivo del presente, in cui convivono i dolori antichi e quelli dell’oggi, quella abissale distanza tra uomini e donne, quei tentativi goffi di esserci in modo diverso, quelle emersioni, e quelle sottrazioni. É un presente confuso, nel quale chiunque proponga delle facili ricette e soluzioni, e chiunque si pensa arrivata e arrivato (da chi si annoia a parlarne a chi crede che ripulendosi con un po’ di rosa basti a sanare il baratro) non ha capito quanto ancora c’è da fare.

>> perché gli uomini che nascono sono figli delle donne / ma non sono come noi.

Sul finale qualcosa cambia, come una piccola lucciola. Nelle ultime battute della canzone, quelle più disperate nell’originale, l’orchestra si quieta, Annalisa rimane sola con l’arpeggio di chitarra, e sembra come accorgersi di una piccola pace, di una tregua, e una grande solitudine. Lauro, qualche passo indietro e con un piede poggiato sulla sedia, alza dapprima un braccio e un dito al cielo

>> gli uomini che cambiano / sono quasi un ideale che non c’è.

Lauro abbassa la mano e la gamba, riprende il microfono e piano quasi la raggiunge rimanendo un po’ indietro, e canta con lei. Per la prima volta, per un istante, i due si guardano. Sono posizioni diverse, ma lo sguardo è possibile. Il contatto ancora no.

>> sono quelli innamorati come te.

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Viola Lo Moro

(foto di Carlotta Valente) Viola Lo Moro è nata nel 1985. È socia della libreria delle donne di Roma, Tuba, della quale cura la programmazione. Ha ideato, insieme ad altre donne, il festival delle scrittrici inQuiete, di cui ha curato tre edizioni. È attivista lesbo -femminista. Nell’Ottobre 2020 è uscito il suo primo libro di poesie, “Cuore Allegro”, Giulio Perrone editore.

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