Scrivere per salvarsi la vita

Marina De Chiara, 21 gennaio 2020

Louise DeSalvo, studiosa italoamericana, che si è occupata di memoir, descrive nel suo Scrivere per stare meglio, quanto sia faticoso far emergere il racconto dal corpo che è in attesa di parlare. La scrittura non è salvifica solo per chi scrive, offre guarigione anche a chi legge. Da Leggendaria n. 138*

di Marina De Chiara

 

Nel suggestivo borgo di Morano Calabro, tra i monti che sovrastano la costa cosentina, a maggio di quest’anno ho conosciuto la poetessa italo-americana Maria Mazziotti Gillan. Ci insegnava, nel breve corso di quella settimana[1], a riflettere su creatività e scrittura, provando a tirar fuori dai partecipanti dei “poems” che provenissero dall’immediatezza dei propri “affetti”, intesi come memoria, sentimenti, tracce del vissuto personale. Mattina e pomeriggio, la poetessa suggeriva delle tracce e lasciava venti minuti a tutti per sceglierne solo una e trasformarla in un breve mondo di parole. Venti minuti. Impossibile. Ma poi, rigo dopo rigo, le pagine di ognuno si riempivano di frasi, di versi, di parole.

Nel rileggere Writing as a Way of Healing. How Telling Our Stories Transforms Our Lives (1999), ho ritrovato quei venti minuti nei suggerimenti di Louise DeSalvo, quando spiega che ogni giorno, come un rituale, necessario alla propria vita come mangiare o bere, si deve trovare il modo per offrire anche soltanto venti minuti alla scrittura di sé.

L’uscita di questo libro (in italiano Scrivere per stare meglio, 2011), è stata accompagnata da recensioni che ne hanno soprattutto definito la natura di self-help, manuale di auto-aiuto, utile guida di taglio psicologico che indaga le ragioni profonde che collegano un vissuto doloroso con la necessità di trasformarlo in spinta creativa. E il libro è certamente illuminante per questa associazione tra io ferito e parola scritta. Ma soffermarsi solo su questo aspetto, diremmo manualistico, potrebbe far finire in secondo piano la poeticità del lavoro con cui Louise DeSalvo ha di fatto composto una ricchissima elegia della scrittura. Intendo, per elegia, una celebrazione della parola scritta, della sua bellezza disinteressata ma necessaria, del suo potere di “ben collegare” (eu-lego) quello che sperimentiamo come frammentario, sparpagliato, disordinato. Ma intendo anche quello che Virginia Woolf scriveva dei propri romanzi: romanzo non è nome adeguato per i suoi lavori; meglio “elegia”, scriveva, “lamento per i morti”, perché la sua scrittura era eterna ricerca di qualcosa o qualcuno che lei aveva perduto. Questo aspetto della scrittura è centrale in DeSalvo, che di Virginia Woolf è stata studiosa sopraffina.

Se dentro ogni corpo è in attesa un racconto da dipanare, è importante che a raccontare queste nostre storie non siano altri o altre. Credo che questo sia uno spunto molto proficuo per comprendere come mai la narrativa del sé, il memoir in particolare, sia il genere privilegiato per le voci di donne particolarmente marginalizzate. In condizioni di marginalità, esclusione, subalternità sembra porsi con più insistenza la necessità di far sentire la propria voce, senza che ci sia un tramite, una mediazione, insomma, senza che nessun’altra voce parli per un’altra.

Scrivere di sé per non essere cancellate

In molte pagine di donne afro-americane, messicano-americane, sino-americane, franco-algerine, italo-somale, e quante altre donne si possano identificare in una cosiddetta identità “con il trattino” (hyphenated), si ritrova l’insistenza sulla scrittura del sé quasi come atto “politico” per ribadire la propria esistenza, e per riscattare il proprio io da vissuti legati al colonialismo, alla migrazione forzata o meno, e ad altre forme che sono terreno fertile per la subalternità. L’ingiunzione – come ripetevano per esempio la poetessa afro-americana Audre Lorde e le messicano-americane (chicane) Cherríe Moraga e Gloria Anzaldúa in This Bridge Called My Back – è quella di scrivere per non lasciare che siano altri a scrivere su di noi. Scrivere per non essere cancellate.

Louise DeSalvo descrive quanto sia faticoso il percorso per far emergere il racconto dal corpo che è in attesa di parlare. Non bisogna aspettare il momento perfetto, il luogo perfetto, lo stato d’animo perfetto perché la scrittura trovi la sua giusta ora. La scrittura arriva inaspettata, inattesa, impreparata, sgrammaticata. Ed è molto raro che si abbia il lusso auspicato da Virginia Woolf di “una stanza tutta per sé”. Nella lunga lista di scrittrici che parlano dell’urgenza dello scrivere, ritroviamo, come in DeSalvo, l’invito a scrivere in luoghi e momenti ritagliati qua e là nei buchi della quotidianità: scrivere mentre si fa la fila al supermarket; mentre i figlioletti scalciano per attirare l’attenzione; scrivere tra una faccenda domestica e un’altra. Sembra di sentire Gloria Anzaldúa, che nella sua “Lettera” alle donne scrittrici del terzo mondo (“Speaking in Tongues: A Letter To 3rd World Women Writers”) incitava a scrivere dappertutto, sempre, anche sedute sulla tazza del bagno.

L’urgenza di scrittura discussa nel libro di DeSalvo riguarda in primo luogo la scrittura che è rinchiusa nel sé ferito. È una scrittura del dolore. Con tutte le sue mille sfumature, il dolore prende forma di abbandono, di assenza, di perdita, di lutto, di esilio, di abuso subito, di violenza. Ma anche scrittura della vergogna, di quello che non si dice per paura di mostrare la vulnerabilità del sé offeso o del sé auto-censurato, non accettato, rigettato. Per questo motivo, il libro non contempla soltanto la scrittura del memoir – che per studiose esperte come Edvige Giunta è forma privilegiata per esprimere il sé “fratturato” – con cui Louise ha definito il proprio libro autobiografico Vertigo, poi divenuto un vero manifesto del memoir italo-americano.  Difatti Scrivere per stare meglio parla molto di poesia, di narrativa, di romanzi, di autobiografie, e ovviamente di memoir. Tuttavia la motivazione della scrittura, l’origine dell’impulso creativo viene sempre associato a esperienze psichico-affettive che hanno inciso tracce indelebili nel senso di sé.

E in questo senso scrivere è come attingere a profondità inespresse, facendo ritrovare memorie, frammenti di vita, e lasciando emergere improvvise illuminazioni sul proprio vissuto identitario. Come i “momenti d’essere” di cui ha scritto Virginia Woolf, oppure le “epifanie” joyciane, istanti rivelatori in cui l’attimo si congela per rivelare qualcosa di nascosto, di dimenticato, o di mai pensato prima.

Prezioso è il momento in cui quello che affiora viene comunicato, ovvero, condiviso col presunto lettore: questo è il momento in cui la scrittura diventa “pubblica”, in un processo non facile, dove si incontrano forti resistenze dinanzi all’esposizione della propria vulnerabilità. Eppure, proprio questa dimensione pubblica trasforma la scrittura del sé in potente dialogo curativo anche per chi legge. Condividere le proprie storie è di aiuto a comprendere la non singolarità della propria sofferenza, la possibilità di un’empatia che connette gli uni con gli altri. Qui si vira verso un’importante svolta di questo saggio: la scrittura non è salvifica solo per chi scrive, ma offre guarigione anche per chi legge.

Mutare il Sé ferito in spinta creativa

Le pagine inaspettatamente dedicate alla lettura mostrano come sia impensabile la scrittura senza il nutrimento che la lettura offre. L’omaggio di DeSalvo, stavolta non alla scrittura ma tutto alla lettura, regala doni preziosi sulle fonti o sui testi ispiratori di opere note ai più. Ritagli da The Times e Daily Herald sono a Virginia Woolf di spunto per Le tre ghinee; senza certi stralci di giornale, non avremmo mai letto Beloved di Toni Morrison; imprescindibile la lettura di Mrs. Dalloway di Virginia Woolf per gustare The Bell Jar di Sylvia Plath; o di She di Rider Haggard per Henry Miller; o di Zora Neale Hurston per Alice Walker; di Maya Angelou e Susanna Kaysen per Vertigo di Louise DeSalvo.

Sull’effetto curativo che la scrittura può avere per il sé ferito, il percorso qui offerto da DeSalvo si avvale sapientemente degli studi di psicologi e neurologi – James Pennebaker, Anthony Robbins, Eugene Raudsepp, o studiosi del trauma, come Cathy Caruth o David Aberbach – ma trova il suo culmine nell’esame di produzioni letterarie di scrittori e scrittrici che hanno trasformato in eccelse opere di scrittura il proprio mondo interiore, e talvolta un vissuto disastrato – non a caso DeSalvo ci ricorda che anche se la scrittrice Nancy Mairs definisce il memoir sulla malattia come “letteratura del disastro personale”, lei preferisce chiamarle “narrative del corpo ferito”.

Qui il discorso diviene particolarmente interessante anche per i lettori scettici o poco convinti del potere “guarente” della scrittura. Lo sguardo ampio di Louise DeSalvo si posa con delicatezza sui vissuti tragici di molti personaggi letterari, e non solo americani ed europei, che la scrittrice ci disvela dal suo bagaglio infinito di raffinata conoscenza letteraria, testimonianza di un’altissima statura intellettuale.

Leggiamo di tante pagine nate dallo strazio di aver perduto persone care: un marito, un fratello, una figlia, una sorella, una madre, una moglie, un padre, una persona amata. Isabel Allende che assiste attonita allo spegnimento di sua figlia (Paula); Sandra Gilbert scioccata dalla morte improvvisa del marito per un intervento chirurgico ordinario (Wrongful Death); Jamaica Kincaid che ricostruisce, attraverso la sua storia conflittuale con il fratello morto, le trame di una famiglia dove non è mai stata amata (My Brother); così come sul fratello morto, Thoby, piange, in Jacob’s Room anche Virginia Woolf; Henry Miller, che in June, e in Tropico del Cancro e altri romanzi, ripete il trauma dell’abbandono subito dalla moglie, scappata via con un’amica che fino a poco prima viveva con la coppia in un ménage a trois; Peter Handke che scruta nel passato il mistero del suicidio di sua madre (A Sorrow Beyond Dreams); l’ossessione di James Ellroy per il crimine ed il noir, a partire dall’assassinio di sua madre; Djuna Barnes, che ha una storia durissima alle spalle, con un padre che l’ha ridotta in schiavitù sessuale e familiari che abusarono di lei.

Ma c’è anche il dolore dell’esilio, del distacco dalle proprie radici culturali per l’esperienza dura del colonialismo che parla nelle pagine di Junot Díaz, diviso tra New Jersey e Santo Domingo; o il dolore di Kenzaburō Ōe, il cui figlio invalido sconvolge la quotidianità dello scrittore, come sa chi soffre insieme all’inabilità delle persone amate. C’è la scrittura della malattia, quella delle pene fisiche, invalidanti, degradanti, le malattie che sconvolgono il corpo e il consueto ordine del quotidiano. Per la stessa DeSalvo scrittori come Marcel Proust, Edith Wharton, Dylan Thomas sono stati compagni nella sua sofferenza d’asma, da lei ritratta in Breathless. An Asthma Journal.

Infine, va detto che questo saggio è anche e soprattutto un esemplare invito a come comporre un testo, uno studio, un lavoro creativo. Ho sempre voluto riproporre, nei corsi dottorali che ho curato, il capitolo su quante e quali fasi vanno considerate quando ci si prepara alla scrittura. DeSalvo non si rivolge a scritture accademiche di sorta, ma il suo gioiello di maestria compositiva parla di passi necessari: preparazione, germinazione, mettersi all’opera, conferire una forma, rifinire il lavoro, e, infine, pubblicarlo. Per scoprire – colpo di scena – che la nostra prospettiva sul passato, su quello che intimamente credevamo di ricordare e di sapere su di noi e sugli altri, è diventata altra, si è modificata e ampliata, ha imparato qualcosa di diverso su chi siamo, chi eravamo, e su come ci eravamo narrate fino ad ora.
Louise DeSalvo, Writing as a Way of Healing. How Telling Our Stories Transforms Our Live

Beacon Press, Boston , (Massachusetts) 2000. Tradotto in italiano da Alice Crocella: Scrivere per stare meglio. Dino Audino Editore, 2011

Louise DeSalvo, Vertigo, Traduzione e postfazione di Caterina Romeo, Nutrimenti 2006

Edvige Giunta, Dire l’indicibile. Il memoir delle autrici italo americane, Graphicomp, Arezzo, 2002

Caterina Romeo, Narrative tra due sponde. Memoir di italiane d’America, Carocci, Roma 2005

Per gentile concessione di Leggendaria n° 138 acquistabile in libreria oppure on line

[1]. Si tratta del bel progetto “Italian Diaspora Studies Writing Seminar, IDs”, ideato e diretto da Margherita Ganeri, docente all’Università della Calabria.

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Marina De Chiara

Marina (Mara) De Chiara insegna Letteratura Inglese e Letteratura Anglo-Americana all’Università di Napoli L’Orientale. È l’autrice di Percorsi nell’oblio: Poetiche Postcoloniali di creolizzazione (1997); La traccia dell’altra. Scrittura, identità e miti del femminile (2001); La Babele postcoloniale (2018) e Oltre la gabbia. Ordine coloniale e arte di confine (2005, 2018).

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