A Korkula Laura vorrebbe stare sola e provare a ripartire da zero. Ma è l’estate 1991, scoppia la guerra nella ex Jugoslavia e lei non può starne fuori, anche perché incontra Goran… Maristella Lippolis racconta una storia a partire dai suoi appunti di quei giorni
Anna Maria Crispino*
«Sognare le isole – scrive Gilles Deleuze – non importa se con angoscia o con gioia, significa sognare di separarsi, di essere già separati, lontani dai continenti, di essere soli e perduti – ovvero significa sognare di ripartire da zero, di ricreare, di ricominciare» (Einaudi, 2007). Ed è per inseguire questo sogno – di separatezza, di tempo per sé per pensare, ricreare, ricominciare – che nell’estate del 1991 Laura parte per la sua “isola del miele”, un lembo di terra circondato dal mare dove elaborare una svolta della sua vita.
Sì, perché se pensate a un “romanzo del divenire” (Bono e Fortini, Iacobelli editore 2007), questo “Non ci salveranno i melograni “di Maristella Lippolis è una narrazione perfetta. Laura pensa di aver bisogno di una vacanza e parte da sola: ha voglia di caldo e di mare, di pace e solitudine: il lavoro non le lascia tregua, gli uomini chissà, il rapporto con la madre lontana mai pacificato. Sull’isola pensa che avrà modo di riflettere, anche se ben presto si troverà a barcollare, stordita, su una faglia, che si apre sotto di lei nella forma dell’incipiente guerra nella ex-Jugoslavia.
Nell’isola di Korcula, in Dalmazia, poco distante dalla bianca magnifica Dubrovnik, Laura non vuole fare la turista: ha con sé il suo inseparabile quaderno di appunti e poco altro. Schivando l’albergo più frequentato, si stabilirà nella casa di Vera, che ha perso il marito e non se ne dà pace. Goran, il figlio di Vera, vive nella bianca città dei melograni, è un uomo brusco, taciturno, segnato dall’abbandono della moglie e dei figli, tornati in Serbia alle prime avvisaglie di tensione inter-etnica. Vera e Laura stabiliranno un rapporto forte, pur non parlando la stessa lingua. Goran e Laura si avvicineranno, fino ad amarsi, ma non è una storia d’amore quella che Lippolis ci narra. È la storia di un tempesta che si annuncia nell’ammassarsi di nubi cariche di odio, dell’uovo del serpente che non si può far altro che osservare, impotenti, mentre si schiude.
È la storia di scelte impossibili rispetto a una guerra insensata. E di una sua estraneità dolorosa anche se quel luogo, per un po’, lei l’ha sentito come “casa”, e quella donna come “madre”, e quell’uomo silenzioso e dilaniato dai dubbi come un compagno con cui fantasticare un possibile futuro. «[…] volevo vivere in pace con me stessa, amare qualcuno ed essere amata, quel tanto che basta», scrive Laura sul suo quaderno l’ultima notte che trascorre sull’isola. «E poi che sarà di me?», si chiede prima di intraprendere il difficile viaggio di ritorno in Italia, percorrendo in barche silenziose di pescatori «sentieri invisibili, distesi su prati di alghe e rocce dove dormono pesci, aragoste e polpi», fino a Spalato dove riesce a prendere un ultimo traghetto, mescolandosi all’umanità dolente dei profughi in fuga della guerra. L’orrore che vede nei loro occhi non è il suo, ma la strazia ugualmente. E quella guerra durerà per altri quattro lunghi anni.
Lippolis costruisce un romanzo dall’impalcatura solida, mescolando la narrazione in terza persona con brani degli appunti presi sul quaderno, e lettere, e pensieri «che si sfiorano senza toccarsi». Ma è l’ultimo capitolo, “Un provvisorio finale”, che si rivela un espediente narrativo originale e assai efficace: la storia, che si è sviluppata come una sinuosa spirale narrativa – quindi con molti “resti” –, non si chiude: lei è rientrata a casa in Italia e ha ripreso la sua vita, ma sa che dovrà tornare sull’isola, perché il passato è inciso nella sua memoria e nella sua carne: «Avrebbe cercato le tracce, le avrebbe trovate. Le loro vite si erano intrecciate, e sull’isola aveva capito che arrivano momenti in cui non basta vivere; che bisogna trovare il senso di quello che stiamo attraversando, il significato e la traccia che scava dentro di noi; e saperne riconoscere l’impronta indelebile, affinché quello che ci accade non vada perduto». E dunque, riconoscersi in divenire, praticarlo come dimensione esistenziale, accettarlo come pratica ineludibile dell’essere fedeli a se stesse.
L’isola non sempre consente davvero di “ripartire da zero”, ma come metafora dell’essere dentro e allo stesso tempo fuori dal mondo consente quel passo di lato, quella distanza minima necessaria a guardare dentro di sé, riordinare le carte, sapendo che non di un mazzo nuovo si tratta, ma di una dis-locazione che allunga lo sguardo e schiarisce il pensiero. L’isola, per antica tradizione luogo di “confini chiusi, orizzonti aperti” (Luongo e Misserville, Iacobelli editore 2008), è anche utopia/distopia, un mondo rovesciato rispetto alla “normalità” rocciosa e apparentemente stabile del continente, quell’Europa che ha giurato di vivere in pace e che non sembra potere/volere capire quello che sta accadendo in quello scorcio di millennio. Di fronte all’immane tragedia di una guerra, Lippolis sceglie di collocarsi in un puntino minuscolo, un luogo marginale che potrebbe essere appena sfiorato dai combattimenti, ma che ugualmente è “centro” di una vicenda che travolge persone che ama e l’umanità tutta. È accaduto, può accadere di nuovo. L’indifferenza non ci salverà, come i melograni.
Maristella Lippolis, Non ci salveranno i melograni. Ianieri edizioni, Pescara 2018
Questo articolo già apparso sul numero 135 di Leggendaria. La rivista è acquistabile on line anche in cartaceo
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