La madre ritrovata

Nada Pesetti 27 novembre 2018

Veniva da Mariupoldi Natascha Wodin, primo libro tradotto in italiano di un’autrice già nota in Germania, non è la prima quêtesulle tracce di una famiglia persa tra guerre e persecuzioni, da L’invenzione della solitudinedi Auster, fino ad Austerlitzdi Sebald e a Gli scomparsidi Mendelsohn…  è però forse la prima ricerca tutta digitale, affidata fin dal primo moto di curiosità all’inesauribile fonte della rete per rintracciare la polvere dei sommersi negli interstizi della Storia.
“Digitare il nome di mia madre nella barra di un motore di ricerca russo è stato poco più di un gioco”.
In quell’anagrafe globale il nome della madre trova subito il riscontro che mai aveva avuto in precedenti indagini tradizionali e da quella prima epifania digitale inizia il faticoso percorso per ricostruire la vita di una donna scomparsa senza quasi lasciare traccia, se non due o tre piccole foto sgualcite e un’icona. Quello che Natascha sa della madre sembra proprio poca cosa: Ostarbeiter nel ‘44, lavoratrice forzata deportata dall’Ucraina in una Germania ormai devastata e sconfitta, suicida nel ‘56, affidatasi alle acque della Regnitz, quando Natascha ha dieci anni e la sorellina quattro.
Fin dai primi risultati la ricerca riserva sorprese ai ricordi frammentari e alle fantasie di Natascha. Prima deve ricollocare la madre che ha sempre immaginato in lande ghiacciate nel clima luminoso del Mar d’Azov: “la vidi improvvisamente camminare per Mariupol con indosso un abitino estivo di colore chiaro, le braccia e le gambe nude, i sandali ai piedi… sotto un cielo che forse assomigliava a quello del mare Adriatico, in Italia… Il vecchio ignoto si era tramutato in un nuovo ignoto”.
A poco a poco si compone il ritratto di quella famiglia che viveva a Mariupol. Natascha scopre che le sue bugie infantili per darsi una nascita più nobile, per riscattarsi dal ghetto e dal marchio di figlia di lavoratori schiavi, non erano poi del tutto invenzioni: nella famiglia materna, in quella luce mite e dorata, si incrociavano nobiltà baltica e ricchi mercanti italiani.
Con caparbietà prosegue l’indagine superando i vicoli ciechi in cui talvolta la spinge il labirinto digitale, finché arriva a recuperare i quaderni della zia Lidija, sorella maggiore della madre. Da quelle cronache stringate recupera la vita di agio e privilegio, di cultura e affabilità del “prima”, precipitata poi nel caos incomprensibile della rivoluzione e della guerra civile. Apprende come fortunosamente ne fosse scampata la famiglia, “borghesi avanzati per sbaglio”. Vede l’inizio di un’emarginazione che condanna Lidija e la sorella minore, Evgenija, sua madre, a un destino di outcast.
Andando oltre quei quaderni, vede la madre poco più che ventenne, “senza passato ma anche senza futuro”, una giovane donna che vive tutte le devastazioni, che le bombe siano tedesche, russe o alleate infliggono. Ricostruisce la vita della madre sotto il segno della fame, onnipresente, ineludibile, la fame della rivoluzione, poi della collettivizzazione, poi ancora dell’invasione tedesca fino alla fame del campo di lavoro forzato. “È forse qui che inizia a perdere la ragione?”
Emerge più chiara la coscienza di essere stata fin da bambina alla ricerca del “segreto del suo incessante, smisurato dolore”, “la paura di lei e quella per lei”. Ritesse l’infanzia fino al giorno dell’abbandono, a quell’ultimo giorno in cui la madre, muta e intangibile nel suo dolore, dopo aver piegato con cura il suo liso cappotto sulla riva, decide “di andarsene via così, da sola”.

Natascha Wodin, Veniva da Mariupol, traduzione di Marco Federici Solari e Anna Ruchat, L’Orma, 2018

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Nada Pesetti

fotografa e poeta, vive a Genova

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