Non è molto conosciuta in Italia, da un punto di vista letterario, la scrittrice turca Asli Erdoğan (Istanbul, 1967), per il semplice motivo che, a meno di non averla letta in una delle altre numerose lingue in cui è stata tradotta, sono solo due le sue opere reperibili in italiano: il giovanile Il mandarino meraviglioso(Mucizevi Mandarin, 1996), pubblicato da Keller nel 2014 e il più recente Neppure il silenzio è più tuo (Artɩk Sessizlik Bile Senin Değil),pubblicato da Garzanti nel 2017 e uscito nell’edizione originale turca nel 2016, grazie a un accordo con l’Agence littéraire Astier-Pécher di Parigi. (Entrambi sono tradotti da Giulia Ansaldo, come quello nuovo)
Sì, di Parigi, perché Asli Erdoğan, giornalista e attivista politica oltre che scrittrice, un editore in Turchia non lo avrebbe di certo trovato, dopo lo sventato e tutt’altro che chiaro colpo di stato del 15 luglio 2016 e la svolta autoritaria di Recep Tayyip Erdoğan. Ma vi è di peggio e di più. Un mese dopo quel colpo di stato, la scrittrice veniva arrestata con altri colleghi giornalisti per i suoi scritti e la sua collaborazione con il quotidiano filo curdo “Özgür Gündem” (Agenda Libera), quel 16 agosto in cui anche il giornale fu chiuso, con l’accusa di aver sostenuto il PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (in curdo Partîya Karkerén Kurdîstan), considerato dal regime turco un’organizzazione terroristica. All’epoca la scrittrice fu detenuta per 136 giorni, e dopo essere stata scarcerata e aver riottenuto il passaporto per il vasto movimento d’opinione diffusosi in suo sostegno in Turchia e in molte altre nazioni, è attualmente in attesa di processo per “aver agito per la distruzione dell’unità dello Stato”, reato punibile con l’ergastolo.
Fin dall’inizio della sua produzione Asli Erdoğan è stata penalizzata in Turchia per la sua difesa dei diritti delle donne e per la denuncia dei soprusi e della violenza sui dissidenti, delle sparizioni e talvolta delle uccisioni di attivisti e oppositori politici, dei massacri di guerra sul fronte siriano e iracheno. Per molti anni la sua opera letteraria è passata sotto silenzio nel suo paese, senza che la stampa desse spazio ai numerosi premi e riconoscimenti che ha ricevuto sia in Turchia, sia all’estero: tra questi il Premio Tucholsky, conferito agli scrittori che combattono per la libertà di pensiero e di espressione, assegnatole dal PEN Svezia nel 2016 mentre era in carcere.
Sappiamo dei giornali e degli organi di informazione chiusi dopo il colpo di stato, del controllo su internet e su quel poco di informazione che resta, dei numerosi attivisti, giornalisti, intellettuali – uomini e donne – arrestati e tuttora in carcere o in attesa di processo con le più assurde accuse di cospirazione, a cominciare dai membri dell’HDP (Halkların Demokratik Partisi), il Partito democratico dei popoli che così bene si era collocato alle elezioni del giugno 2015, entrando finalmente in parlamento. Ma non sappiamo abbastanza di quanto accade, e anche in passato è accaduto, nelle celle speciali per detenuti politici e nei metodi di tortura fisica e psicologica in esse impiegati, o nei confronti delle minoranze etniche e nelle zone di guerra sulle frontiere siriana e irachena. Ed è proprio di questo anello mancante che, coraggiosamente, Asli Erdoğanracconta in Neppure il silenzio è più tuo,una raccolta di brevi e concentrate riflessioni che intrecciano cronache e pensieri più o meno recenti.
Nei racconti de Il mandarino meraviglioso- scritto negli anni in cui si trovava al CERN di Ginevra (1991-1992) per un master universitario di fisica nucleare e pubblicato al suo ritorno in Turchia nel 1996 – una giovane donna turca cammina di notte nel cuore della Città Vecchia di Ginevra. Dopo la partenza dell’uomo amato, nelle serate che passa tra vie misteriose e caffè, scrive e riflette ripercorrendo la sua vita fino al luogo delle origini, sulle rive del Bosforo, dove il suo senso di angoscia e di paura è cominciato: perché nel suo paese essere libera significa infrangere restrizioni e divieti, e l’unico modo per perseguire la libertà sembra essere partire verso altri luoghi.
Ora, in questi ultimi scritti, dopo molti anni quella donna, lasciando la carriera scientifica per la vera vocazione della letteratura, non solo è tornata nel suo paese, ma ha avuto esperienze estreme e coraggiose; e anche se il libro, ricalcando lo schema di quella lontana raccolta di racconti autobiografici, inizia nella notte, si tratta di una notte e di un luogo ben diversi.
Siamo a Istanbul infatti nel primo racconto, proprio in quella terribile, quasi surreale notte tra il 15 e il 16 luglio 2016, in cui tra spari, bombe e strade deserte nelle quali non riesce più a orientarsi, la scrittrice sta cercando di tornare a casa. Accanto a lei, accovacciata ai piedi di un muro, prima un poliziotto in borghese che chiamandola “sorella” la conduce fuori dalla zona più infuocata e pericolosa, poi un cane randagio che la accompagna e la guida fino a un incrocio. Un incrocio reale, dal quale tornerà a casa, e al tempo stesso simbolico, indicativo del restare o del fuggire. Questa volta la scrittrice resta, e sceglie la strada della parola che denuncia rivisitando momenti e scritti del passato, tra cui articoli censurati o non pubblicati.
Di racconto in racconto, passiamo così attraverso episodi cruciali della repressione turca di stato o dei misfatti degli ultranazionalisti: dal genocidio degli Armeni (Metz Yeghérnin armeno, ovvero Grande Male) tra il 1915 e il 1916, mai riconosciuto dallo stato turco come tale, al massacro di Maraș, città a maggioranza curda e alevita, tra il 19 e il 26 dicembre 1978; dall’uccisione di Süleyman Yeter, sindacalista morto in carcere sotto tortura nell’aprile 1999, a quella nel gennaio 2007 dell’editore Hrant Dink, promotore dal suo quotidiano “Agos” del dialogo turco-armeno e del riconoscimento dei diritti civili; dall’istituzione delle celle di tipo F nel 1996 – dove i detenuti politici, privati di ogni diritto e dell’assistenza medica, subiscono vessazioni e violenze di ogni genere – alla silenziosa protesta di fronte al Liceo Galatasaray della Madri del Sabato, triste reiterazione delle Madres di Plaza de Mayo, per protestare contro le sparizioni dei propri cari nelle carceri e altrove; dalle terribili operazioni militari di Cizre e Kobanê, alla stessa detenzione della scrittrice dal 19 agosto al 29 dicembre 2016 e alla Staffetta per la Libertà organizzata davanti al carcere di Bakirköy per tutto il tempo del suo internamento. Eventi vissuti da Asli Erdoğan in prima linea, e di cui ha reso conto, fino a quanto e fin quando le è stato permesso, con il suo giornalismo.
Nel libro però la scrittura non è realistica o cronachistica. Piuttosto è intensa e visionaria, talvolta poeticamente macabra, alla ricerca della realtà profonda delle ferite incise nell’anima e nella psiche, lanciata come pietra o come lama a rompere e squarciare un silenzio di cui la scrittrice non vuole essere complice. Perché, come è scritto nella seconda Gimnopediadel poeta greco Giorgos Seferis che viene citata, “[quando ti guardi attorno e tutt’in giro / trovi piedi falciati / in giro mani morte / occhi ciechi di buio / quando non hai più scelta / di quella morte che volevi tua / […] Neppure il silenzio è più tuo / qui dov’è fermo il giro delle mole…”.
Perché, aggiunge e rielabora Asli Erdoğan , “Se ci sono stati confiscati non solo i nostri morti, ma le nostre stesse morti… Se ciò che chiamiamo, ciò a cui attribuiamo il significato di ‘vita’ e che ci rende significanti è dato alle fiamme con taniche di benzina mescolate a chissà che… Se le volte dei nostri sogni sono fatte saltare in aria con armi pesanti, se le parole scolpite dal sangue di millenni sono traforate da una pioggia di proiettili… Se non riusciamo a udire, a lanciare neppure un grido… Neppure questo silenzio è più nostro…”.
Il libro rende conto anche del corpo a corpo dell’autrice con la scrittura. Attraverso un linguaggio metafisico, problematico e talvolta quasi allucinato, volto a ricercare e a nominare l’invisibile e l’inudibile – di qui l’uso frequentissimo dei puntini di sospensione – Asli Erdoğan prova a dire la paziente, minuziosa, accurata genesi di parole volte a resuscitare l’orrore di quanto è nascosto o sopito, al fine di provocare un grido di indignazione, pur se ogni parola è “la ferita che l’una ha causato all’altra, con il coltello affilato dagli sguardi, un precipizio sanguinante”e “volente o nolente, la lingua si spezza, si scurisce, perde la strada”. Nel coinvolgimento del suo doloroso e difficoltoso vortice di verità, sentiamo l’esigenza di scoprire e di sapere di più, in una cronaca dettagliata che sia altro dalla scrittura letteraria e che, almeno per ora, a nessuno è concesso redigere.
Nascere in un luogo o in un altro del mondo è una casualità che non si sceglie. Viene da chiedersi, di fronte a questa testimonianza che arriva e percuote da luoghi caldi e tormentati del pianeta, perché popoli dell’Europa occidentale, che potrebbero ancora ritenere di essere nati e di risiedere in un’area fortunata del mondo, si abbandonino a frustrazioni irragionevoli, al risentimento verso i più deboli e i più sfortunati, alla più cieca e bieca intolleranza. Soffia un vento triste, tetro sull’Europa, che bisognerebbe respingere piuttosto che assecondare. E il libro di Asli Erdoğan aiuta a comprendere le ragioni di quella che dovrebbe essere, e che non è, una naturale scelta.
Asli Erdoğan, Neppure il silenzio è più tuo, Traduzione Giulia Ansaldo, Milano, Garzanti, 2017, pp. 140, € 15.00.
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