Nel settembre del 1823 Mary Shelley rientrò a Londra, vedova e senza una sterlina, dopo la morte per naufragio del marito Percy in Italia e scoprì, con stupore, che il suo Frankenstein, rappresentato a teatro, aveva molto successo. Andò a vederlo con suo padre, il celebre filosofo liberale William Godwin, che riteneva Frankenstein o Il moderno Prometeo (questo è il titolo integrale) “la cosa più bella scritta da una ragazza di vent’anni che io abbia mai letto”. Di certo, quella ragazza coltissima, bella, visionaria e sfortunata, sapeva raccontare come nessun altro le nostre paure del diverso e la nostra arrogante pretesa di sfidare le leggi di natura.
Sua madre Mary Wollenstonecraft, autrice nel 1792 di Vindication of the Rights of Woman in cui richiedeva pari diritti per le donne, amata follemente da Godwin che la riteneva un genio, morì dandola alla luce. Mary perse invece nel 1815, neppure diciottenne, la sua prima bambina. La trovò morta nella culla e ne fu sconvolta. Quando cominciò a scrivere la storia che l’avrebbe resa immortale era dunque già segnata dalla morte. E secondo molti studiosi, l’evento del parto restò per lei sempre legato alla doppia morte della madre e della sua stessa piccola. Fu questa tensione terribile tra la vita e la morte a spingerla a creare la fantascienza? A farle plasmare, nel laboratorio di Victor Frankenstein, la prima creatura non nata da un corpo di donna che popola l’immaginario occidentale?
Da allora la storia terrificante e cupa del mostro rifiutato da tutti – che lei stessa definisce l’orrenda progenie senza però rinnegarlo – non ha mai smesso di essere narrata e il libro è stato ristampato ininterrottamente, continuando a interrogarci, come fece Mary neppure ventenne, sui limiti della scienza e sulla nostra ossessione di dominare i processi che governano la vita e la morte, tanto da sfidare gli dei, al modo di Prometeo.
Anche il cinema ha riproposto Frankenstein in ben cento pellicole, da Life without soul, il primo lungometraggio muto del 1915, seguito dal celeberrimo film del 1931, con Boris Karloff, sfigurato dalle cicatrici, con i bulloni nel collo e l’andatura di uno zombie. Il prossimo 22 agosto, in occasione del bicentenario di Frankenstein, uscirà un nuovo film intitolato Mary Shelley. Si tratta finalmente di un film biografico diretto dalla regista saudita Haifa Al Mansour. Mary è interpretata da Elle Fanning, mentre Percy Shelley, a cui fu legata da una passione amorosa, intellettuale e politica, è Douglas Booh.
Quanto questo film saprà dirci della scrittrice che seppe sfidare le convenzioni, vivere del proprio lavoro e inventare generi letterari con una creatività quasi luciferina? Nel 1826 Mary Shelley pubblicò L’ultimo uomo, un’altra opera innovativa e anticipatrice, seppure non del tutto riuscita, perché macchinosa e lunga. Comunque L’ultimo uomo resta uno dei primi libri catastrofisti: sulla terra, dopo un’epidemia e una guerra causata dalla follia umana, è restato un solo uomo, Lionel Verney. Lionel ricorda il protagonista de La strada di Cormac Mc Carthy, del 2006, tanto per citare uno dei più celebri romanzi – diventato poi film – post apocalittici che ancora ci inquietano. Come ci angosciano i replicanti post apocalittici di Blade Ranner, i “lavori in pelle” dello scrittore Philip K. Dick. Che li volle creati nei moderni laboratori di una multinazionale dall’assemblaggio di organi, carne e protesi di alta tecnologia.
In quest’anno di bicentenario, oltre a convegni e trasmissioni radiofoniche, sono usciti nuovi libri, tra cui Lady Frankenstein e l’orrenda progenie, a cura di Anna Maria Crispino e mia (Iacobelli editore), dove sei studiose (Anna Maria Crispino, Sara De Simone, Giovanna Pezzuoli, Carla Sanguineti, Marina Vitale) approfondiscono vita e opera di questa autrice unica. Ne L’ultimo uomo, scrive Crispino, Mary Shelley racconta sia “il tragico fallimento della sua vita, vissuta insieme a Percy e agli altri giovani rivoluzionari come loro, che non ha più un futuro perché sono tutti morti” (Byron perì in Grecia nel 1824 combattendo in difesa della libertà dei greci), sia “la catastrofe di un’umanità che, contrariamente alle speranze nutrite da quel gruppo di eletti, si è fatalmente avviata sulla strada dell’ingiustizia e dello sfruttamento”.
Mary Shelley visse fino al 1851, senza mai risposarsi anche se fu corteggiata da uomini celebri. Viaggiò, da sola o con l’amato figlio, scrisse racconti anche ironici, il romanzo storico Valperga e molte lettere. Si spense nella bella tenuta degli Shelley senza che il suocero la perdonasse mai dello scandalo di cui si era macchiata insieme al suo Percy, quando nel 1816 erano fuggiti insieme, abbandonando la moglie di lui, che si uccise.
Lady Frankenstein e l’orrenda progenie, a cura di Silvia Neonato e Anna Maria Crispino (iacobellieditore 2018)
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Silvia Neonato

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