La bambina resiliente

Nadia Pesetti 31 marzo 2018

Nada Pesetti

La bastarda della Carolina, il romanzo di Dorothy Allison, edito ora in Italia da Guanda, è negli Stati Uniti, fin dalla sua uscita nel 1992, un caso letterario, libro di cult e di scandalo – l’autrice lo racconta nella postfazione – messo al bando, con tanto di sentenze, come lettura nelle scuole.
L’ambiente della narrazione è quel vecchio Sud anni ‘50 delle famiglie bianche povere, in cui gli uomini bevono e perdono il lavoro, le donne faticano a tirare avanti i figli e i bambini scorrazzano tra la tavola calda e gli sterrati intorno.
L’io narrante è Ruth Anne, detta Bone, bambina fragile e dura come un osso, figlia di una madre che per età potrebbe esserle sorella e di padre sconosciuto.
Bone, che cresce nella grande tribù dei Boatwright, fratelli e sorelle della mamma e di tutti i cugini, non sarebbe una bambina infelice. Ci sono le canzoni country e gospel, c’è il mondo di tutti racconti a tinte forti delle storie di famiglia. Come truci e orrorifici sono i racconti che lei inventa per i cuginetti. Aiutando a lavare i piatti nella tavola calda dove lavora la madre, raggranella i soldi per comprare libri usati e, una volta letti, li baratta con altri.
È dai libri amati, evasione e rifugio, che si porta su un albero, che per Bone arriva improvvisa la rivelazione: leggendo Via col vento, illustrato con scene tratte dal film, “un brivido violento mi aveva attraversato il corpo. Emma Slattery, pensai. Ecco chi diventerò, ecco chi siamo tutte noi. Non Scarlet con le sue guance incipriate. Io facevo parte della feccia che viveva nelle baracche sporche di fango, che litigava con quelli di colore”.
Nonostante la scarsità delle risorse, non sarebbe una bambina infelice, Bone, se nella sua vita non ci fosse il patrigno. Ma c’è, ineliminabile, visto che la mamma lo ama, ineludibile, nonostante tutte le strategie che Bone mette in atto per non trovarsi sola con lui.
Tra molestie e botte, Bone cresce, mantenendo il silenzio su quello che non capisce e che le sembra non possa essere raccontato, né, casomai, creduto. Oppressa da colpe che non ha, angosciata e ribelle, disperatamente desiderosa di proteggere sua madre da quell’uomo che incomprensibilmente ama.
“Ero cattiva, decisi. Cattiva e violenta, e tutto quello che volevo fare era piantare un coltello nella pancia di papà Glen”.

Nella postfazione, scritta vent’anni dopo la prima uscita del romanzo, Dorothy Allison ripercorre le motivazioni di quella scrittura, narrazione che non vuole essere memoir, ma deve dare voce a tutte le bambine di nome Bone.
“Ecco quale doveva essere lo scopo del mio romanzo: raccontare una storia che avrebbe dato un senso a ciò che un senso non aveva. … Mentre scrivevo La bastarda, immaginavo quella ragazza, una ragazza qualsiasi, di tredici anni o giù di lì, che odiava se stessa e la sua vita… E lottavo… per l’innocenza e il valore di quella bambina, io che non avevo mai creduto nella mia innocenza”.
E si delinea così la figurina di Bone, brutta come si crede, carina come può essere, e soprattutto “indomita, testarda, resiliente, e capace di grande compassione”.
Non quindi autobiografia, ma una storia, perché “le storie aprono porte su stanze buie. Il linguaggio può trasportarci oltre l’orrore, verso un senso della vita che includa il rifiuto di arrendersi all’oscurità”.

Dorothy Allison, La bastarda della Carolina, traduzione di Sara Bilotti, minimum fax 2018

 

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Nada Pesetti

fotografa e poeta, vive a Genova

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