La bambina mai vissuta

Silvia Camillotti, 10 dicembre 2017

 

L’ultimo libro della scrittrice napoletana Patrizia Rinaldi, La figlia maschio, si presta a molteplici livelli di lettura, che con il procedere della narrazione si combinano in modo fluido e rivelatore: un cubo di Rubik che alla svolta del quarto capitolo risulta in tutta la sua compiutezza.

Il romanzo si offre infatti a una prospettiva storica, psicologica, di gender. Dipinge uno spaccato, senza sconti, di una filosofia di vita di cui abbiamo quotidiani esempi: quella che, pur di accumulare, corrompe, lusinga, finge e tradisce senza alcuno scrupolo.

La storia è quella della Cina dagli anni Settanta in poi, di cui osserviamo uno spicchio di vita contadina, poi travolta dalla modernizzazione. Qui una donna, Pah-tu, tratta come una figlia la protagonista del romanzo,  rimasta orfana di madre all’atto della nascita. È anche la Cina della politica del figlio unico che segna violentemente la vita della protagonista, secondogenita di una sorella mai vissuta per volontà paterna e sopravvissuta solo grazie a Pah-tu. Sopravvissuta, non salvata, perché la vita a Na, questo il nome della protagonista che non si svela subito, non concederà nulla: “Perché si nasce in zone di guerra privata o pubblica, oppure in regge aggiustate a mille giustizie. Non trovavo da nessuna parte la risposta al perché sarei stata in salvo se fossi nata solo a pochi passi da casa” (p.143). Il caso ha infatti segnato la vita di Na, sin da quando ha visto la luce, e poi a seguire.

Il romanzo si struttura  in quattro capitoli, ciascuno intitolato a un personaggio che diventa la voce narrante e che – ecco qui la fine ricerca psicologica e il gioco di sguardi – si mostra in tutta la sua completezza, fatta di debolezze, vizi, dolori, violenze più o meno sottili.

Il primo capitolo è dedicato a “Marino”: imprenditore romano arricchito rapidamente nel campo edile, uomo violento nei modi e nel linguaggio,  diventerà la fune a cui Na si aggrapperà, pur sapendo che si sarebbe bruciata le mani: “Ti consegnai il diritto di vivere in Italia, di essere proprietà di un padrone, ma padrona di un’altra terra” (p.40). Questa la condizione in cui Na viene catapultata e che riesce e volgere, negli anni, a suo vantaggio, con una scaltrezza sorprendente. La frase che forse meglio la descrive si trova nel capitolo in cui è Na a parlare: “Poche cose mi piacciono più della fragilità che si ribella e si difende come può dalle inevitabili notti” (p.156).

Na assorbe la filosofia del suo padrone e dell’ambiente corrotto della Roma bene – che la scrittrice peraltro tratteggia senza sbavature e senza puntare il dito – per ottenere il massimo dalla situazione di subordinazione in cui si trova.

Un romanzo tematicamente complesso e stratificato, ma anche spietato e lucido nell’uso disinvolto del linguaggio che rispecchia perfettamente l’essere dei protagonisti. Forma e sostanza, ancora una volta, si intrecciano, si sostanziano e si completano in un quadro fatto di colori contrastanti ma in costante equilibrio.

Patrizia Rinaldi, La figlia maschio, edizioni e/o, Roma, 2017

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