Vorrei cominciare con una citazione tratta dall’Autodizionario degli scrittori italiani:
Jolanda Insana conobbe la guerra e i fichi secchi, e dunque predilige parole di necessaria sostanza contro il gelo e i geloni (Ippocrate docet) dell’inverno freddissimo del ‘44, e contro i bombardamenti a tappeto su Messina e i boati di terremoto. Impigliata nell’intemperanza dello spasmo ossimorico e intrappolata in strette maglie, Jolanda Insana si aggira per teatranterie tra insulto e bestemmia, o piomba nell’enigma della passione perché la voce non vuole smorire e urla scongiuri, per scongiurare nefandezze, muovendo il fendente che finisce in risata, sulle vie della parodia e dell’impuro che passa tra noi, dentro e fuori di noi, per i luoghi disastrati della terra, in ritmo di accelerazione poiché non c’è tempo per dire, per «abbrancare l’inabbrancabile». E quel che linguisticamente è masticabile diventa suo cibo, e se non trova da masticare, inventa.[1]
E se non credo nell’ispirazione, in senso romantico, credo però in una forte tensione, che muove a dire, che tende le parole fino a farle esplodere, a farle significare di più… Mi piacerebbe dimenticare che le parole abbiano senso, per scoprirne il corpo (col suo peso colore spessore e volume), il suono (non dico musica), il riecheggiamento di altri suoni, di più suoni… e così covo la parola e aspetto che si schiuda.
comunque le parole significano tutto
e mi parlano dal centro
non di fuori né d’intorno (FF, 18).
Ma la parola non è neutra, nella parola passa la vita e la storia, individuale e collettiva, la sociologia e la cultura materiale, il puro e l’impuro della vita, e soprattutto lo slancio, l’energia, il desiderio. Le parole trascinano senso ma il senso non è univoco: ogni parola vibra nella sua durata fonica e nell’estensione semantica, e dentro un significato ne contiene altri, li sottintende, sì da creare cortocircuiti, spiazzamenti, spostamenti, slittamenti…
– hai detto poeta?
– sì, poeta, poietés, che fa, che crea, fattore insomma
– e tu che fai? io per conto mio mi costruisco scaffali
d’abete o pino rosso per le più prestigiose collane di
poesia, ma tu che fai? (COLL, 25).
E’ con un fendente ironico e dissacratorio che qui il poeta è detto fattore, che fa, crea parole, perché la parola fattore contiene in sé il ‘fattore di campagna’ o Dio, il fattore supremo. E del resto è impensabile dare una definizione di poeta o di poesia se non al fuoco di ironica distanza:
alla poesia non c’è rimedio
chi ce l’ha se la gratta come rogna (FF, 62)
Dire finisce per essere un male-dire, se il dire tocca il reale, la vita e i suoi scoscendimenti e abbruttimenti. Sicuramente io non amo le belle parole come non amo le anime belle. Le parole le ripropongo, le ricompongo, me le invento, quando non le trovo. So che la parola è manchevole, è insufficiente, mi tradisce, viene meno, sposta il significato. E invece è forte il desiderio di «abbrancare l’inabbrancabile», dove l’inabbrancabile è l’indicibile. Di qui il corpo a corpo con le parole:
e così si sconchiglia spalpita s’impoesia e, picchiacuore e fottiverso com’è, introduce nel poesificio il tritaverso e il trangugiaismi, il lustrastilemi e lo sputafonemi, tutta l’attrezzatura insomma, per “vivere canzonando in dolce scontegno”, tra vizi e sfizi in pieno sole.[2]
C’è questa lotta per raggiungere la parola – lottiamo sempre per raggiungere qualcosa -, perché la parola non è tutta suono e nella sua sonorità trascina senso, spesso comunicando più significati. E questa lotta risulta anche nei titoli: Sciarra amara, Fendenti fonici, Coltellate di bellezza, solo che qui sono sciabolate, fendenti di suono.
In genere il poeta non s’interessa unicamente al linguaggio della poesia, della tradizione poetica, ma sperimenta tutti i linguaggi, da quelli alti a quelli bassi, gergali e aulici, puri e impuri, devoti e demoniaci, medicamentosi e cronachistici, e così via. E’ così che il poeta s’inventa la propria lingua. Io amo gli accordi di suono e timbro per creare partiture foniche. Amo i blocchi ritmico-sonori, la corporeità della parola, la sua forza:
mi pesta la voglia di scantonare dalla rossa muraglia
taraudant’agadìr dov’è forte la sfida del vento
che si sfodera e sbravanta e così assoldo paladini
per assaltare il graniero taraudant’agadìr
ma fanno acqua i pensieri e ho primavera (CLA, 14)
Qui, per esempio, il blocco sonoro-ritmico taraudant’agadìr è formato dal nome di due città, Taraudant e Agadir. Costituisce un blocco sonoro anche Ifnì Ifnà dell’epifania, titolo del poemetto da cui è tratto il passaggio sopra riportato.
E poi ci sono i prestiti linguistici, prestiti più che citazioni, di segno oppositivo rispetto all’originale, com’è il caso del memorabile verso di Gaspara Stampa «vivere ardendo e non sentire il male», modificato, rovesciato nella chiusa di questo testo:
il tutto che mi abita è un niente
se lo estrapolo dai suoi contorni certi
e lo scorporo dal fianco che frange il fragile momento
e posso pensare quanto voglio ma non riuscirò a pesare
quanto ardo e sento il male del corpo taglieggiato (CLA, 20).
C’è, rovesciata, la citazione dantesca dal sonetto a Cavalcanti «Guido i’ vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento» in «ma vorrei che tu ed io uscissimo dall’incantamento»(FF, 15); c’è il leopardiano Passero solitario (FF, 62); e ci sono le «nonne speranze» di gozziniana memoria (FF, 55).
Non c’è invece citazione lì dove compare il latino, in funzione ironica o parodistica, di divertimento, ma anche di denuncia e opposizione, com’è l’uso di altri dialetti oltre il siciliano che è il mio dialetto. Il latino ha la stessa funzione di risonanza di frughinda-frughinda che compare all’inizio di Medicina carnale, come funzione di risonanza hanno anche certi nomi di erbe:
cuius perforatus non habet dominum
de malo in malum
tornat et retornat
male dormit poeta qui non manducat
ma se vuole manducare de lacte et pane bono
suam vaccam debet nutrire (FF, 9).
merda de vitello non fumat a lungo (FF, 27).
et etiam capillus habet unbram suam (CLA, 12).
mi non son bìgoli e pan gratà (FF, 28).
starò o starraggio in compagnia tua (FF, 37).
Medicina carnale è formato per scelta precisa da nove poemetti, che si intitolano così: Lo sterramento quotidiano, Il magico quadrato, L’offerta, Lo statuto dell’orafo, Gassa d’ultima amante, Le molestie della mente, Le terrene bellezze, Medicina carnale, La Tappezzeria del cuore. Per me i titoli-fonemi sono sempre molto importanti e sono serissimi ma non mancano di una punta d’ironia: non potrei dire sul serio per es. «La tappezzeria del cuore», se non presupponendo un gioco, un rimando, uno spiazzamento… Il libro è stato messo insieme tra l’85 e l’88, ma la data segnata è 1985-1991 perché il mio modo di lavorare su un testo è lento, si allunga nel tempo, e finché un libro non mi pare concluso, me lo porto appresso e non riesco a scrivere nessun altro verso.
Prima di leggere l’inizio de Lo sterramento quotidiano, vorrei ricordare che ‘sterramento’ nasce da ‘ex-terra’ e indica uno scavo di terra, uno sbancamento, l’atto di togliere terra. La parola si lega alla nostra vita (i dizionari non registrano solo parole, ma raccontano storie) e sterramento sterratore sterro sono le prime parole che ho conosciuto nella loro pienezza di significato, perché sono nata a Messina e Messina è città di terremoti e non c’è più la Palazzata, quell’insieme di bellissime costruzioni del Sei-Settecento che si affacciavano sul porto. Quando si creano macerie, bisogna portarle via, in parte almeno, perché in parte restano sul luogo a creare una nuova stratificazione, alzando il livello della città… Ma Messina ha subito anche i bombardamenti a tappeto. Io non c’ero all’epoca del terribile mare-e-terremoto del 1908, c’ero però all’epoca dei bombardamenti, e conosco le macerie della città bombardata. Dopo la guerra, la città era movimentata da carri, carretti, e uomini che con le vanghe toglievano le macerie, le buttavano sui carretti e andavano in riva al mare, e lì scaricavano lo sterro, tanto che la riva si è allargata, la terra ha conquistato il mare, e lì, dirimpetto al Museo, è nata una collinetta dove prima hanno impiantato una piccola giostra e poi piantato alberi (ora non so).
Lo sterramento quotidiano
è la vita che mi mette in questi buchi
per scalciare sui lunghi assopimenti
e manca l’aria manca il ghiaccio manca
frughinda-frughinda fu il gioco fanciullo
e però negate troppe cose è troppo poco questo troppo
e non concedo che per una manciata di cenere
per infertilizzare il terreno
un altro si mangi il grano duro da brigante
e usi il fiato per zaffate di lagno
mentre sono intenta a sterrare la gramigna
con le scarpe scalcagnate e la testa stretta in nodi
finché si scolla il mantello e devasta il risveglio (MC, 11).
Cos’è allora lo sterramento se non la pena di raccogliere le macerie che nella vita giorno per giorno si accumulano? Giorno dietro giorno ci cadono addosso travi tetti tegole infissi, e si tolgono, si buttano da un’altra parte. Lo sterramento quotidiano è la vita stessa. Le «scarpe scalcagnate» del penultimo verso, al di là del significato metaforico, sono vere scarpe, scarpe di guerra. Avevo tre anni quando nel ‘40 scoppiò la guerra, e ho vissuto la condizione di sfollata a Monforte, il paese di mia madre e di mio padre, dove un piccolo agrumeto è stato spiantato per seminare il grano, per fame, per mancanza di cibo, nella generale penuria. Con le scarpe scalcagnate o gli zoccoli camminavo tra le stoppie, e ho il ricordo di un profumo intenso di terra secca e graminacee, ma anche di male fisico, di sgraffi e fitte dolorose ai piedi…
Al verso 4 «frughinda-frughinda» è parola di suono, è usata in funzione fonica, però è precisata come «gioco fanciullo», quindi non è soltanto suono. Ma cos’è? Frughinda è parola greca dalla radice frugo che corrisponde al latino frigo, donde il nostro friggo «friggere», è neutro plurale che indica i ceci, le fave abbrustolite, mentre l’espressione frughinda paìzein significa «giocare a fave abbrustolite». Io mi ricordo i giochi con le fave, le noccioline – i miei giochi di cinquant’anni fa – chi vinceva aveva più fave più ceci più noccioline più semi di zucca da mangiare, da giocare… In questo greco antico ho ritrovato l’antica cultura della mia infanzia: ancora oggi in Sicilia esiste la combinazione nominale càlia cotta e la cosa.
Càlia, neutro plurale dal latino calida «le cose abbrustolite», corrisponde esattamente al greco frughinda. Durante le feste non solo paesane, all’aperto si preparano sul fuoco dentro il caliadore ceci e fave, come le caldarroste, secondo un uso comune al mondo mediterraneo, e nei suq esiste una zona riservata alla caliatura che per fumi e fiamme pare infernale. In frughinda c’è il recupero della calia cotta, dove più che ripetizione c’è la traduzione del latino càlia nell’italiano cotta (come il toponimo Linguaglossa il latino lingua traduce il greco glossa), e del resto esiste l’espressione «caliari o suli» che significa «cuocere al sole». E dunque il greco frughinda diventa il mio gioco bambino. Ma quando scrivevo non lo sapevo.
in che pappa o manteca affondare i denti
lasciando carne e ossa in voto ai più indolenti
a sentire cialtroni ciarlatani e cantabanchi
in ipsa ira vita stat
come l’erbacarlina nella mascella del luccio (MC, 13).
«In ipsa ira vita stat» non è un prestito, non è una citazione, qui come altrove il latino è mio; l’uso che faccio del latino ha funzione ironica, ma anche di risonanza. Evidentemente non credo che nell’ira stia il senso della vita. Può crederlo chi trova comodo tagliare corto dicendo «ma sì, non ne parliamo, sono arrabbiato». L’ira è un modo per non affrontare i problemi, allontanare le cose.
L’ironia è sostenuta e rafforzata dall’immagine dell’erba carlina nella bocca del luccio: si è mai visto un pesce al forno che non abbia un ciuffo d’erba in bocca? Sì, ma l’erba non fa pesce e l’ira non fa vita: E poi, come l’erbacarlina, spinosa, simile al cardo, non si mette in bocca al pesce, così la vita non sta nell’ira.
s’interrompe il traffico selvaggio con il re
della notte lungo i cretti della fiumana di Monforte
quando arrivo al mare e metto i piedi in fresco
prima delle scarpe scalcagnate e dello sterramento (MC, 14).
Nella fiumana di Monforte d’estate scorreva allora un rivolo d’acqua, e lì si faceva il bucato con la cenere, il detersivo di un tempo (il sapone era un lusso…). Monforte, il luogo dello sfollamento, per me era un posto bellissimo nonostante tutte le mancanze, la penuria di bene e di beni, la carestia (non in senso biblico, le cavallette erano le bombe e la morte): ho fatto la scoperta di una grande libertà e dello spazio aperto, anche se in città non era difficile vivere all’aperto, per strada… – andavo con gli altri bambini a raccogliere «ferro per la patria», dopo i bombardamenti … sono cose che mi vengono in mente ora che ne parlo, perché la memoria una volta che si avvia, si avvita su se stessa, gira come un cavatappi, e gira e gira finché non tira fuori il tappo. E’ vero, è una cosa pazzesca, dopo i bombardamenti si andava in giro a frotte, a cercare le schegge; posso dire di essere una sopravissuta io, perché altri ci hanno rimesso un braccio, le gambe, la vita (perché si sa che nel terreno restavano bombe inesplose). Non scappavo di casa, mia madre ci affidava a una signora che teneva una specie di asilo e non sapeva però che noi andavamo in cerca di schegge. E poi c’erano le sirene dell’allarme, il rumore cupo dei bombardieri, le corse verso il rifugio.
Il magico quadrato
non posso evitare il veleno
amando io il pungiglione della vita
e in dosi quotidiane lo prendo
antidoto contro il grande veleno amaro
e così pure avendo ferite aperte sulle mani
tocco le cose e punto i piedi
per spostare la parete massello del falso male
traendo la vita alla sua vita nel piccolo quadrato
che sta dentro il magico quadrato
della forza e del suo giorno (MC, 17).
Esiste un magico quadrato dentro cui c’è un piccolo quadrato: e questi sono i numeri:
4 9 2
3 5 7
8 1 6
A leggere in verticale, in orizzontale e in diagonale, il risultato è sempre quindici. Il piccolo quadrato contiene 3, 5, 1, 8, la somma fa diciassette. Diciassette come il principio di tutto.
Jolanda Insana è nata a Messina nel 1937 e da molti anni vive a Roma. Oltre a scrivere poesia traduce classici greci e latini. Ha tradotto Poesie di Saffo (Firenze, Estro, 1985), Carmina Priapea (Milano, Studio Editoriale, 1991), De amore di Andrea Cappellano (Milano, Studio Editoriale, 1992); e per il teatro testi di Euripide e Plauto. Ha curato la versione poetica di La passione di Cleopatra di Ahmad Shawqi (Ubulibri 1989) e Per diritto di memoria di Aleksandr Tvardovskij (Acquario 1989).
Opere
Sciarra amara, Milano, Guanda (collana «Quaderni della Fenice»), 1977;
Fendenti fonici, Milano, Guanda – Società di Poesia, 1982;
Il collettame, Milano, Società di Poesia, 1985;
La clausura, Milano, Crocetti, 1987;
Medicina Carnale, Milano, Mondadori, 1994.
[1] Autodizionario degli scrittori italiani, a cura di Felice Piemontese, Milano, Leonardo, 1989, p. 178. Le citazioni qui di seguito sono tratte dalle seguenti raccolte (tra parentesi la sigla con cui verranno citate nel testo): Sciarra amara, Milano, Guanda «Quaderni della Fenice», 1977 (SA); Fendenti fonici, Milano, Guanda – Società di Poesia, 1982 (FF); Il collettame, Milano, Società di Poesia, 1985 (COLL); La clausura, Milano, Crocetti, 1987 (CLA); Medicina Carnale, Milano, Mondadori, 1994 (MC).
[2] Autodizionario degli scrittori italiani, cit., p. 179.
pubblicato in: Parole scolpite, Padova, Ed. Il Poligrafo, a cura di Adriana Chemello
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