Andranno mai le filosofe al potere?

Giulia Caminito, 08 gennaio 2019

Ognuno ha la propria Amica Geniale (che per comodità da adesso in poi chiameremo A.G.), la mia l’ho conosciuta quando avevo quasi quattordici anni in un paesino che dà su un lago. Lei ha sempre unito in un’unica persona due lati che di solito non convivono facilmente: un estremo senso del dovere, dell’ordine, una capacità analitica e scientifica, una invidiabile puntualità e dall’altra parte modi solari, teneri, romantici, senza però mai sfociare nella sciocchezza. Lei è sempre stata una apparente svampita dalla acuta intelligenza.

Mi ricordo che da ragazzine un nostro amico, palesemente innamorato di lei, al suo rifiuto si era messo a dire in paese che lei era una strega e che portava sfortuna, e a voi farà sorridere questa cosa, perché chi mai potrebbe credere a qualcosa del genere, ma ancora oggi se tu dici strega a una donna e poi lo ripeti ossessivamente e lo ripeti davanti a tutti, alle feste, al bar, quando lei rientra a casa, poi qualcuno ci crede davvero che lei è un po’ strega, un po’ strana, fuori dal coro delle anime ovvie di provincia. E’ sempre stato così per lei, e forse anche per me con più dolore. La mia A.G. ha sempre fatto parte di quelli che vivono il paese come un luogo di villeggiatura anche quando ci abitano in pianta stabile e per questo chi ci vive da generazioni e ne fa la roccaforte dei propri livori, li guarda con astio.

Una volta la mia A.G. si ritrovò a servire ai tavoli di una cena elettorale di paese e il futuro sindaco (perché certo lo votarono tutti) passò la serata a inveire contro il ragazzi neri che vendevano sul lungo lago borsette e occhiali da sole e altri oggettini, e usò (io avevo sedici anni quindi ahimè era tempo fa) parole oggi d’uso corrente come decoro, immigrazione e sicurezza. La mia A.G. mi raccontò di essersi infuriata mentre serviva pasta con le vongole e di essere intervenuta nella discussione tanto da essere allontanata. Perché è sempre stata fatta in questo modo, rigidissima sul bene e il male, intransigente e coraggiosa, in più di una occasione anche quando io abbozzavo perché ritenevo gli interlocutori personaggi neanche degni di dialogo, lei interveniva. Tenete a mente questa distinzione tra me e lei, perché ci torneremo: lei interveniva, io ignoravo.

All’università abbiamo studiato la stessa materia: filosofia politica. Sono stati gli anni in cui l’Accademia pullulava di grandi speranze per l’Unione Europea e tutti si affaccendavano a parlare di tenaglia glocal e biopolitica del nuovo millennio. Al terzo anno io avevo già capito che fuori dal nostro mondo dorato dove se dicevi Hegel tutti si inginocchiavano sacralmente, a nessuno importava nulla delle nostre elucubrazioni, men che meno alla politica reale.

Da quando sono nata infatti io non ricordo una gioia politica, una mia necessità partecipativa reale, ho sempre visto facce in televisione che mai mi hanno convinto, di nessuno schieramento. Certo, c’erano quelli che proprio detestavo, ma c’erano tutti gli altri a cui comunque non avrei neanche affidato il mio cane per mezz’ora. E così, negli anni della mia formazione finale ho maturato uno scollamento, una ferita, nei confronti della politica. Se ne parlavano alla tv io cambiavo canale, se ne leggevo sui giornali superavo la pagina. Perché che a nessuno (o a pochissimi) importasse delle cose che avevo studiato e amato visceralmente (i passages di Benjamin, l’io nomade di Braidotti, le grandi lezioni di Kojève sulla dinamica servo padrone, la mia insofferenza per Habermas e lo storicismo filosofico, la scoperta che per fortuna era esistita Arendt, la storia della follia di Foucault, la sorellanza e l’affidamento come pratiche politiche, ecc) per me era un dolore profondo, un disincanto troppo forte, insuperabile.

Intanto la mia A.G. invece dopo la laurea triennale italiana era partita, e sarebbe rimasta da quel momento sempre fuori dall’Italia. Prima un erasmus a Berlino, poi la specialistica a Parigi, poi un anno in Tanzania e poi finiti gli studi avrebbe mandato le sue candidature per lavorare nel settore umanitario e sarebbe partita alla volta della Giordania, da stagista fino a capo sezione, a lavorare per una ONG francese.

Mentre io mi facevo sottopagare o non pagare proprio da qualche casa editrice romana e incontravo il secondo mondo del mio futuro disincanto (quello dell’editoria), lei era sul campo in Giordania, spesso sotto scorta, a lavorare e a vivere in situazioni, che essendo parte del suo privato non mi sento di raccontare, ma che posso assicurarvi non essere state il problema degli sconti alla Conad.

Dopo gli anni in Giordania la ONG decide di richiamarla a un posto dirigenziale in Europa e lei a quel punto non ha neanche trenta anni (esatto). Lei rientra, forte della lunga preparazione estera e inizia a lavorare in Svizzera. Io intanto continuo a sentirla e vederla, perché una meravigliosa caratteristica della mia A.G. è che è una persona costante, molto fedele nelle sue amicizie, per cui, anche se è in Congo al compleanno ti fa gli auguri e appena sa che rientra in Italia ti scrive e riesce a venirti a trovare a fare una chiacchierata. Certo, negli anni io le raccontavo cose sempre meno entusiasmanti della mia vita da schiava editoriale e poi da proto scrittrice che vende dieci copie, mentre lei dal mondo portava esperienze reali, che riguardavano un sistema politico decisamente più ampio rispetto a quello del riferimento nazionale, quel sistema per il quale entrambe avevamo studiato, ma che io, affranta dalla realtà italiana, avevo accantonato.

Perché vi racconto tutto questo? Perché siamo arrivate ancora insieme alla fine del 2018, lei ha lasciato un lavoro molto ben pagato a Ginevra e ha investito tutti i suoi soldi, quelli guadagnati anche in Giordania, per rimettersi a studiare ad Harvard, ed è volata così negli States, per un master sulle relazioni internazionali, uno di quei master a cui partecipano i futuri uomini e future donne della politica mondiale.

Benissimo, ora voi, come me, la penserete già proiettata verso il posto che meriterebbe, cioè entrare nell’Onu, come minimo, tornare in una ONG ma come direttrice, insomma, restare all’estero e da lì dedicarsi al mondo e non a questo stramaledetto paese minuscolo e spesso così insopportabile che è l’Italia.

Risposta sbagliata.

La mia A.G. ha investito tutti i soldi suoi, tutti i soldi della famiglia nella sua istruzione perché vuole tornare in Italia e in Italia vuole entrare in politica.

Quando me l’ha detto eravamo sedute sul suo vecchio letto a castello, quello dell’adolescenza, nella casa della sua famiglia sul lago, dove io andavo da ragazzina a decidere con lei quale maglietta indossare per uscire a passeggiare e incontrare sempre le solite tre persone in croce.

E io ho fatto una faccia prima sorpresa, poi basita e infine molto ma molto inquieta. Subito, come tutti, le ho detto: No, è una pessima idea. Come ti viene in mente, tu che sei la perla di questa umanità di balordi, la persona più buona, più seria, più preparata che conosco, tu proprio no.

In realtà, nel mio cuore tenevo segreto questo pensiero, cioè che da sempre avesse ragione Platone: al governo dovrebbero andare i filosofi. Siano essi estremi o moderati, la competenze politica oggi più che mai dovrebbe essere una condizione essenziale. Dovrebbero sapere cosa diavolo è l’assoggettamento, cosa la lotta per il riconoscimento, cosa lo Spirito di una paese, cosa la sovrastruttura e la struttura, cosa l’universalismo delle differenze, dovrebbero sapere che il leviatano di Hobbes è sotto le ceneri, che l’Occidente si sposta sempre di più a ovest tanto che presto ci sarà Occidente in Giappone e che sono passati secoli e qualcuno ha già fatto un genealogia della nostra dannata morale e che se Dio è morto e loro desacralizzano tutto poi moriremo anche noi, con la nostra idea di uomo, di donna e di umano.

Ma comunque, nonostante questo mio convincimento, l’idea che la mia A.G, seppur filosofa, seppur pensatrice, seppur competente entrasse in contatto con quel mondo lì, mi disgustava. Soprattutto perché la sfiducia, giustificata dal sistema corrotto e inetto della mala politica, oggi ha portato a uno svuotamento di forma drammatico, tale per cui non c’è solo sfiducia e non c’è solo protesta reale, c’è gogna perpetua e invisibile verso tutti e tutte, sempre, una gogna che non contesta le idee, le azioni politiche, ma (senza poi raggiungere nessuno obiettivo costruttivo) massacra le persone. E non lo fa solo la gente, ma lo fanno gli altri interlocutori della politica prima di tutto, sono loro i primi che vogliono accendere una pira in piazza, e stare a guardare. I primi che si fanno beffe delle strutture, delle forme, pensando che questo li renda rivoluzionari, ma invece li rende pericolosi, perché non armati da un pensiero forte, da una concreta riflessione.

Torniamo alle streghe quindi: la mia paura più grande, il mio terrore, è che la mia A.G. che ha tutte le carte non solo teoriche e pratiche ma umane per occuparsi del suo Paese, venga illuridita dalla politica. La verità è che sono arrivata a pensare che la politica sporchi, distrugga, butti a terra, faccia solo male. Ho paura vada come nel nostro paesino: di fronte a una donna libera, intelligente e fortissima, un solo ragazzo inizia a dire strega e lo dice tante volte finché gli altri pure ci credono.

L’ho quindi messa in guardia, perché lei è una che interviene, io non ce la vedo a subire insulti e male parole di ogni sorta e non fare nulla. Quello che farei io e quello che ho sempre fatto è levare la strega dal rogo. Perché non ho mai creduto e oggi meno che mai penso che tu possa ammansire le folle eccitate dalle carni bruciate. Tu a un ultracinquantenne che su facebook  a una donna in politica, una figura istituzionale (ma vale anche per tutte le donne e gli uomini comuni) scrive solo puttana e guarda sta storpiaaborto umano e col mio cazzo ti farei fare il rodeo, cosa vuoi insegnare? Non puoi aiutarlo, non puoi rispondergli e pensare che alla fine la avrai vinta tu, perché lui è fuori dalla conversazione già da un pezzo, lui guarda la strega bruciare.

Allora via le streghe dalle piazze, via le persone valide dal confronto con questa gente, ritiriamo su i parapetti, mettiamo ostacoli, trinceriamoci (vorrei dire io) e vorrei anche dirle di nuovo: non farlo, non cercare di connetterti col paese reale e non infilare le mani in questa fanghiglia, in questa putrefazione, nella maschera delle maschere, nella pantomima, resta fuori, non farla manco affacciare in piazza questa “strega”.

Ma lei mi ha guardata col suo perfetto sorriso e ha detto: “Va bene, Giulia, ma se nessuno lo fa, se ci lamentiamo e basta, se persino io che posso, non ci provo, allora poi che succede?”.

Ha ragione, allora poi che succede?

 

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Giulia Caminito

GIULIA CAMINITO è nata a Roma nel 1988 e si è laureata in Filosofia politica. Ha esordito con il romanzo "La Grande A" (Giunti 2016) che ha vinto il Premio Bagutta opera prima, il Premio Giuseppe Berto e il Premio Brancati giovani. Ha poi pubblicato con Bompiani “Un giorno verrà” nel 2019 e “L’acqua del lago non è mai dolce” (2021) con cui è arrivata finalista al Premio Strega e ha vinto il Premio Campiello 2021. Ha scritto inoltre due libri per bambini "La ballerina e il marinaio" (Orecchio Acerbo 2018) e "Mitiche" (La nuova frontiera junior, 2020). Nella vita lavora come editor e si occupa di narrativa italiana. È nella redazione di Letterate Magazine. Cura un festival letterario che si tiene a Roma nelle scuole, Under - festival di nuove scritture. Ha portato i suoi laboratori di scrittura in librerie, biblioteche, scuole e carceri.
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