Assaggiare per Hitler

Nadia Tarantini 18 novembre 2018

“Come si fa a dare valore a una cosa che può finire in qualsiasi momento, una cosa così fragile? Si dà valore a ciò che ha forza, e la vita non ne ha; a ciò che è indistruttibile, e la vita non lo è. Tant’è vero che può arrivare qualcuno a chiederti di sacrificarla, la tua vita, per qualcosa che ha più forza. La patria, per esempio”. Èanche un romanzo terribile, Le assaggiatrici, perché ti dice quanto può valere poco la nostra vita. Ma ti dice anche quale sia l’antidoto per difendere l’esistenza a scapito dei “valori superiori”: c’è nel romanzo la forza irredimibile dei sensi, ad ogni pagina, la potenza del corpo, dello scatto animale che ti fa scegliere la sopravvivenza. E ti permette, persino nelle situazioni  più estreme, di non pensare soltanto a te, ma di porgere la mano e accettare il rischio di metterti in gioco per qualcun altro.
Rosa Sauer, che ha una fervida immaginazione sensoriale, che annusa le persone e tocca chi ama in luoghi inusitati, un piede, un buco nel torace; Rosa che mescola le sensazioni che le arrivano dalle piante e dal cielo con quel che sente con il suo corpo giovane, appena 26 anni e il rischio di morire ogni giorno assaggiando i cibi per il Hitler, che potrebbero essere avvelenati. Rosa corteggiata ogni giorno dalla morte mentre mangia – e riportata ad ogni boccone alla morte della madre sotto i bombardamenti di Berlino; e alla paura che il marito Gregor non possa più tornare dalla campagna di Russia. D’altronde, proprio la madre le diceva sempre che “quando si mangia si combatte con la morte”: come lei da bambina, che non riusciva a smettere di parlare mentre ingoiava, e così rischiava di soffocarsi.
Era un dolce autunno del 1943 quando dieci donne vengono prelevate nel villaggio di Gross-Partsch, Prussia Orientale, scelte non sanno come e perché, pagate con generosità, per fare colazione e pranzo nella caserma di Krausendorf. Poco lontano, nascosta da alberi veri e finte coperture erbacee, c’è la Tana del Lupo, il rifugio del Führer nella foresta di Rastenburg.
Pochi chilometri fra chi ha in mano, in quel momento, le sorti del mondo occidentale e chi non ha alcun potere né può decidere autonomamente della propria sopravvivenza. Augustine la vedova inconsolabile, le cui parole sgraziate fanno soffrire e pungono come stiletti; Ulla, che insegue il sogno di raggiungere il glamour delle attrici famose; le sorelle Gertrude e Sabine, innamorate di Hitler, come pure Theodora; Leni, la ragazzina paffuta con la couperose, che aspetta la fine della guerra per trovare il fidanzato; Heike e Beate, le amiche d’infanzia costrette a mantenere segreti per non infrangere l’intimità di un tempo; Elfriede che nasconde il suo mistero con modi bruschi e giravolte inaspettate; Rosa.
La paura, che nei primi giorni si manifesta con tutta la gamma delle reazioni individuali (silenzi e spacconate, durezze e fragilità, ansiti del corpo che si ribella) è sopraffatta dalla fame, e da riti abitudinari: “Alle undici del mattino eravamo già affamate. Non dipendeva dall’aria di campagna, dal viaggio in pulmino. Quel buco nello stomaco era paura. Da anni avevamo fame e paura. E quando il profumo delle portate fu sotto il nostro naso, il battito cardiaco picchiò sulle tempie, la bocca si riempì di saliva. Guardai la ragazza con la couperose. Aveva la mia stessa voglia”. Rosa vive in un tempo che “storpia ogni istinto di sopravvivenza”.
Le assaggiatriciè anche un romanzo sulla paura, ma non soltanto quella delle assaggiatrici, quella che Rosa Sauer indovina nei volti e nelle posture delle sue compagne. È la paura che Rosa riesce a scorgere anche in un tic inavvertito di chi ha potere su di lei. La paura che – lei fantastica – può provare anche Hitler, quella che gli scombussola l’intestino e lo rende fragile e nervoso.  Ed è un romanzo sull’amore e sull’intimità. La guerra trasforma i corpi, sconquassa le relazioni. I corpi che tornano sconciati dalla guerra – come un reduce che dopo mille patimenti raggiunge di nuovo la sua donna – chiedono una nuova intimità, per essere accuditi. La stessa intimità che ha un bambino con la propria madre. Da quella nuova intimità può nascere – di nuovo – il desiderio che l’accudimento ha fatto dimenticare? Rosa (Rosella Postorino) non lo pensa, non è per tutte, perché crede che sia “il desiderio a generare intimità, in modo immediato, simile a uno strappo”.
Un tempo sospeso, quello dell’assaggiatrice Rosa Sauer e delle sue compagne di ventura. Sospeso fra la vita e la morte, la guerra e la fine della guerra, quella vita costretta e una vita normale. Un tempo dove comanda un corpo espropriato, ad uso di altri e di scopi che non le riguardano. Un tempo dove si può essere presi dalla “dolcezza dell’inerzia” di fronte ad una relazione che il cuore e la mente dovrebbero considerare impossibile. Dove la vergogna si mischia al sollievo di un segreto che non viene scoperto: un segreto che la fa sentire di nuovo libera, fuori dalle costrizioni di quella vita carcerata. “Nella solitudine del mio segreto sentivo una libertà integrale: sottratta a ogni controllo sulla mia stessa vita, mi abbandonavo all’arbitrarietà degli eventi.” Anche l’amore più improbabile “è degno, se abbracciandolo ricominciavo a respirare”.
Una scrittura affabulante e insieme concitata, stringente – quasi scandita da un orologio invisibile e che batte ogni secondo. Con descrizioni che restano, come la faccia “tonda, cremosa” della Baronessa che s’incapriccia di far superare a Rosa Sauer i limiti del proprio destino stabilito; e così la mette a rischio, e così forse la salva. Non tutti i cerchi si chiudono, nel bellissimo e sapiente romanzo di Rosella Postorino. Qualcuno resta aperto – ferite o feritoie che permettono di guardare altrove, o di guardare in modo diverso. Come accade d’altronde nella vita.
C’era già tutto, in potenza, nel suo romanzo del 2013, Il corpo docile: l’irrefrenabilità degli istinti, impacciati dalle idee su di sé e sul mondo. Ma qui Rosella Postorino fa un salto di qualità, parla a tutte e a tutti, a chi non ha mai vissuto l’esperienza di Rosa, di Gregor, del tenente Ziegler e delle assaggiatrici. Con una voce di donna forte (la sua, quella della protagonista), forte proprio perché non nega mai la propria fragilità e fallibilità. Una voce che può risuonare e diffondersi nei cuori e nella mente di tutte le (tantissime) donne che in quest’epoca premono perché si affermi un altro modo di vivere. Un’altra storia.

Rosella Postorino, Le assaggiatrici, Feltrinelli 2018, 287 pagine, 17 euro

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Nadia Tarantini

Nadia Tarantini Scrittrice e giornalista. Esploratrice di molti mestieri, sin da giovanissima ha cercato la scrittura in molti luoghi, dalla vendita rateale di libri, al giornalismo e infine all’insegnamento… della scrittura, sia privatamente (“Le vie dei Cinque Sensi”) che nelle università. Solo nel 2017, a 71 anni, dopo una decina di altri libri, ha pubblicato il suo primo romanzo, “Quando nascesti tu, stella lucente” (L’Iguana), storia ambientata nel lontano 2346. Con Iacobelli, nel 2011, ha ripubblicato “Il risveglio del corpo. Dai sintomi alle emozioni l’arte della salute”, romanzo-saggio uscito nel 1996 presso La Tartaruga, che ha avuto quattro edizioni. A fine maggio 2019 il suo secondo romanzo, “Amore Inquieto”, nei Leggendari di Iacobelli. È vissuta fuggendo e cercando le storie dentro di sé e ha combattuto furiosi dubbi sul proprio valore attraverso la relazione con altre donne. La rivista Leggendaria e la Sil sono stati i luoghi privilegiati della sua “autorizzazione alla scrittura”.

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