Non piangere. Queste sono le parole di apertura di Artemisia, romanzo di Anna Banti. Chi sta parlando? E quando? La voce narrante – quella dell’autrice – scrive “questo giorno di Agosto”, omettendo sia la data che l’anno, dati non difficili da ricavare: il 4 agosto 1944. L’occupazione nazista di Firenze, successiva al collasso del regime di Mussolini, è giunta al suo terribile atto finale. Alle quattro del mattino, i Tedeschi, che hanno cominciato ad evacuare la città, hanno fatto esplodere le mine piazzate lungo l’Arno, riuscendo a far saltare in aria tutti i venerabili ponti eccetto Ponte Vecchio e a ridurre a relitti molte case nei pressi del fiume, fra le quali la casa di Borgo San Jacopo dove viveva Anna Banti, sotto le cui rovine giace il manoscritto del suo nuovo romanzo, appena finito, su Artemisia Gentileschi.
Non piangere. Chi sta parlando? E dove? È l’autrice, ancora in camicia da notte (come in un sogno, scrive), seduta sul vialetto di ghiaia nei giardini di Boboli – promontorio lato sud dell’Arno – che singhiozza ripetendo a sé stessa di non piangere e infine cessando le lacrime, scioccata dalla consapevolezza più atroce di cosa è stato distrutto nel caos di poche ore prima. Il centro storico di Firenze è ancora in fiamme. Ci sono scontri, spari. (Ci vorranno anche altri sette giorni prima che l’intera città venga liberata dagli alleati).
Gli sfollati si sono radunati in alto, al Forte di Belvedere, da cui lei è discesa un po’ prima; qui, scrive, non è rimasto nessuno. Subito si alza e osserva le macerie lungo l’Arno. Ed un intero giorno passa così. Dopo l’ “alba faticosa e bianca” ai giardini di Boboli delle prime righe del romanzo, sarà mezzogiorno (c’è riferimento alle truppe del Sud Africa che erano entrate in città sei ore prima) e Banti sarà presa come sfollata nella galleria palatina di Palazzo Pitti e sarà il tramonto, quando si troverà un’altra volta al Forte del Belvedere (dove, afferma, la gente, sdraiata sull’erba, rischia di essere colpita dalle mitragliatrici) e da quella vista imponente continuerà a struggersi per Firenze e lo scenario di morte intorno a lei e per il manoscritto che ora esiste solo nella sua fragile memoria.
Non piangere. Chi sta parlando a chi? È l’autrice affranta che parla a sé stessa, ripetendosi di essere coraggiosa. Ma si sta rivolgendo anche all’eroina del suo romanzo, “la mia compagna di tre secoli fa”, che era tornata a vivere tra le pagine in cui Banti aveva raccontato la sua storia. E, mentre piange, le immagini di Artemisia si affastellano nella mente di Banti, prima “una convulsa e disperata Artemisia”, di mezza età, a Napoli, non molto prima della sua morte poi di Artemisia bambina a Roma, quando aveva dieci anni, “una delicatezza di tratti proterva e strapazzata”. Mentre si strugge per la perdita del manoscritto, “con una agilità meccanica, ironica, le immagini continuano a fluire, il mondo sconquassato le secerne”. Artemisia è perduta, ma la sua dolorosa, spettrale presenza è ovunque, irrefrenabile. Subito – l’angoscia di Artemisia e di Banti sono troppo acute – l’angosciata voce narrante dell’autrice, in prima persona, fa spazio alla voce di Artemisia e si dà il permesso di diventare intermittente cosicché si dilata la terza persona che narra la vita della pittrice.
Per quanto ne sa chi legge, ovviamente, il romanzo è scritto – ri-scritto – nei successivi tre anni e pubblicato sul finire del 1947, quando Anna Banti (nome di penna di Lucia Lopresti) aveva 52 anni. Nonostante avrebbe pubblicato 15 opere di narrativa e prosa autobiografica prima della sua morte, avvenuta nel 1985 all’età di 90 anni, questo suo secondo lavoro è quello che le assicura un posto nel mondo della letteratura.
Una fenice di libro, scritto sulle ceneri di un altro libro, il romanzo è un tributo all’amarezza e alla tenacia, tanto della ragazzina oltraggiata nei primi del 1600 che diventerà, contro ogni previsione, una rinomata pittrice, quanto di un’autrice in lutto che scriverà un romanzo sicuramente più originale di quello distrutto dalle fiamme della guerra. La perdita ha reso l’autrice libera di entrare nel libro, parlando a sé stessa e ad Artemisia. (Non piangere). Artemisia è diventata anche più cara all’autrice, i cui sentimenti si sono fatti più profondi, il desiderio è diventato più forte. Artemisia è l’amata elusiva, che, a causa della perdita del manoscritto, è ora presente con più intensità nella mente dell’autrice e più esigente che mai. È una relazione d’amore a dover essere ancora descritta appieno: fra l’autrice, a tratti tenera a tratti querula, e la preda, la vittima, la despota da cui desidera attenzione e complicità.
La passione di una romanziera per la sua protagonista non è mai stata espressa così minuziosamente. Come Orlando di Viriginia Woolf, Artemisia è una sorta di danza con la sua protagonista: attraverso questa scorrono tutte le relazioni che l’autrice può istituire con l’affascinante donna di cui ha deciso di essere la biografa. Il romanzo perduto è stato rimpiazzato da un romanzo di caccia. Niente è più primitivo di una identificazione: Anna Banti non trova sé stessa in Artemisia Gentileschi né più né meno di quanto Woolf pensa di essere Orlando. Al contrario, Artemisia è per sempre e in sommo grado qualcun’altra. E la scrittrice è alla sua mercé, la sua amanuense. Alcune volte Artemisia è in modo ammiccante inaccessibile (Per meglio rimproverarmi e farsi rimpiangere, abbassa le palpebre: come volesse avvisarmi che pensa a qualche cosa e che non me lo dirà mai). Altre volte è malleabile, seduttiva (Ora è per me sola che Artemisia recita la lezione, vuol provarmi di credere tutto quel che inventai).
Il libro è un testamento dettato da Artemisia. Ma è anche un racconto, uscito fuori a forza dal capriccio e spinto dai frutti dell’immaginazione dell’autrice, non del tutto su richiesta di Artemisia, anche se può rinunciare a muovere le sue obiezioni. Banti chiede e ottiene il permesso di Artemisia a narrare. Passa sopra la riluttanza di Artemisia a confessare all’autrice i suoi pensieri. Il gioco a nascondino è reciproco: “io e Artemisia stiamo giocando una partita a caccia”. Ad un certo punto Banti dichiara che non le importa più del libro che aveva quasi finito.
Ma è solamente una bravata. Artemisia oscilla, insistente, nella testa di Banti. Perché dovrebbe essere messa da parte?
Un’autrice che può essere descritta come una sorta di amante è, inevitabilmente, una persona che insiste a stare lì – rimugina, si interrompe, gira e rigira sul suo libro. Senza dubbio dialogico (è nella natura del linguaggio d’amore essere dialogico), il romanzo offre un appassionante mix di narrazione in prima e terza persona. L’Io appartiene a Banti ma può essere, nell’intensa occasione narrativa, la voce della stessa Artemisia. La terza persona offre una narrazione onnisciente classicamente distaccata, quella variante più calda chiamata discorso indiretto libero, che aderisce così strettamente ai pensieri di un carattere che equivale a una prima persona trasposta o travestita. L’autrice, con le sue fervide affermazioni e nervose dimostrazioni di ciò che può essere detto oppure no a nome di Artemisia, non è mai troppo lontana. (traduzione di Antonella Festa)
Il testo completo di questo saggio è disponibile solo per chi è iscritta alla London Review of Books.
Antonella Festa, docente di materie letterarie e blogger. Nel 2010 è docente di italiano nel carcere di massima sicurezza di Spoleto e racconta l’esperienza, scolastica ed umana, nei suoi Appunti di una precaria dal supercarcere, che vincono il concorso letterario Lune di primavera, organizzato dal Comitato internazionale 8 marzo di Perugia. Dalla narrativa, si concentra sulla critica femminista, traducendo articoli di Paul Beatriz Preciado, Brigitte Vasallo, Christine Delphine e scrivendo per blog e testate indipendenti come Femminismo a sud, Abbatto i muri, Incroci De-generi, Carmilla online. Dopo un lungo periodo di nomadismo e precarietà, lavorativa ed esistenziale, oggi è docente di ruolo presso il Liceo classico Vittorio Emanuele II di Lanciano (Ch), dove ha curato il progetto “Un altro genere di poesia”, da cui è nato il saggio Né d’altri son che mia, Carabba 2017, scritto insieme alle sue alunne e ai suoi alunni.
PASSAPAROLA: GRAZIE ♥
Susan Sontag
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